E poi la sera della festa il giardino ha quella lucentezza che c’è solo in primavera, dopo certi temporali. La terra e gli alberi sono ancora bagnati, ma le foglie sembrano nuove, riverberano. Anche il cielo ha una luce gloriosa e una promessa: no, non pioverà.
I motoscafi che portano gli ospiti, dei veri gioielli di lusso e teck, cominciano ad attraccare sul pontile. La villa è grande, ma nascosta dagli alberi: è bianca, e il giardino è a terrazze. Una villa moderna, disegnata forse da un famoso architetto, chissà. Di certo nessuno da fuori potrebbe sospettare tutto lo sfarzo che racchiude: collezioni d’arte, di maioliche antiche dai disegni blu come il cielo sul Bosforo, ma anche opere d’arte contemporanea, sparse, come una strizzata d’occhio, tra le ceramiche e i vasi. E di certo nessuno potrebbe sospettare che dentro questa villa candida e perfetta, con i tappeti morbidi e le lampade di design, ci sia il fantasma di un’altra casa: una di quelle yali di legno dove d’inverno ci si riscaldava con il braciere, e dove ci si fermava d’autunno, quando l’aria diventa più fredda, a guardare la luna sul Bosforo e sognare un futuro nuovo per la Turchia. O forse, semplicemente a sognare un amore.
Perché qui c’era una magione di legno con la veranda intagliata, che finì bruciata, come tante, in quegli incendi improvvisi che i bambini di un tempo ricordano ancora, il cuore in gola, fuori di corsa in piena notte con i genitori, la coperta addosso; fuori a guardare l’incendio come uno spettacolo pirotecnico, Istanbul che brucia pezzo per pezzo, e una nuova Istanbul che verrà.
Anna non sa niente di tutto questo, non può saperlo; anche se Istanbul ha cominciato ad amarla, questa città che le sta entrando nella pelle, una boccata d’aria, di ossigeno, il vento tra i capelli. Non è un’invitata, stasera. È qui perché Gül le ha chiesto di dare una mano: il ristorante dove lavora si occupa del catering per la festa. E Anna è vestita di nero, per servire, come una dei tanti camerieri.
Passa tra gli ospiti con un vassoio e pensa che, per la prima volta, partecipa a una festa da una prospettiva diversa: quella di chi porta in tavola il cibo e versa il vino, di chi si muove dietro le quinte. Che strana sensazione, di invisibilità. O forse quello che prova è piuttosto la sensazione di camminare in un’altra dimensione, senza sapere bene dove sta andando. Displaced. Disorientata. Che cosa farà, dopo?
È solo un attimo, mentre passa con il vassoio tra i primi ospiti. È solo un attimo, e si sente il fantasma di se stessa. Perché, a prendere in mano un bicchiere, è stato lui, Michele, suo marito, o dovrebbe dire il suo ex marito? Non porta più la fede, com’è ovvio. Perché stupirsi, anche lei del resto l’ha tolta il mattino successivo a quella tragica notte, buttata per terra dopo il suo primo caffè con Murat.
Michele afferra il calice senza guardarla negli occhi: per forza, lei ora è invisibile, una qualsiasi cameriera. Possibile che davvero non la riconosca?
«Vuoi qualcosa da bere?» lo sente sussurrare a una bella donna con i capelli biondi. Riconosce quel suo tono di voce: lo usa quando vuole affascinare un cliente. E la donna sembra davvero affascinata. «Brindiamo.»
Dunque, Michele è qui. Non ha ancora lasciato Istanbul dal giorno dell’incidente? Ma quanto tempo è trascorso? Ad Anna sembra un secolo. Ed Elena, che ne è stato di Elena? Sarà sempre ricoverata in ospedale? Che importa, non voglio farmi più domande, pensa Anna. Non è più il tempo delle domande.
Poi Michele e la donna si allontanano e Anna rimane lì, immobile, il vassoio fermo in mano, neppure un cedimento. Ora lo sa: è finita, finita davvero. Se l’uomo accanto al quale hai dormito per vent’anni, con cui hai diviso letto e sogni, ti passa davanti e non ti riconosce più, allora sei un’altra. In un’altra vita. Per sempre.
Anna torna in cucina e ne esce con un vassoio colmo di altri bicchieri. La sala è illuminata, scintille di luce e di voci, risate, lingue che non conosce, o che ha dimenticato: «Quello che ti voglio dire è in una lingua che non conosco», da dove viene questa frase? Da un libro? Da un film? Forse, anche questa, da altre vite, da uomini che non ha mai conosciuto, o che deve conoscere ancora.
«Posso?» Il ragazzo prende un calice dal suo vassoio e la guarda sorridendo. Possibile? È lui, sembra proprio lui, ma lui è morto, ha visto il suo cadavere in ospedale, ha pianto per il dolore, la paura, lo shock, la vita spezzata davanti ai suoi occhi. Eppure è lui.
«Andrea» mormora, perché forse si sbaglia, forse è solo un sogno, forse è, ancora una volta, lo shock. «Brindiamo, Anna, a tutte le albe che arriveranno» le dice, e a questo punto è sicura che è lui, deve essere lui.
Solo lui amava le albe. «Sono un collezionista di albe,» amava ripetere «il momento più inafferrabile.» Lei no, non le amava; il sorgere del sole è per i sognatori, per chi prende un aereo per partire lontano, per chi torna a casa dopo tutta la notte passata fra altre braccia. Lei, all’alba, è sempre a casa. Era sempre a casa, si corregge. Nell’abbraccio della sua casa, del lavoro, del letto, delle giornate a cui aveva dato una forma precisa, l’unica che la facesse sentire sicura.
«Poi l’ho vista, un’alba, sai?» gli dice. Era l’alba dopo la sua morte, quella in cui il mondo si è capovolto e non è più stato lo stesso. L’alba in cui è uscita dalla stanza del Pera Palace, lasciando dietro di sé la sua vecchia vita.
«Lo so, Anna. C’ero anch’io.»
Com’è possibile? Ma forse tutto è possibile adesso, in questo momento di ritorni impossibili.
È possibile che quell’uomo che la sta osservando insistentemente da lontano, prima intanto che si avvicinava al tavolo del buffet, poi mentre era in piedi accanto alla portafinestra che dà sulla terrazza e lei si faceva largo fra gli ospiti con il vassoio quasi vuoto, quell’uomo sia il regista incontrato sull’aereo per Istanbul. E ora, voltandosi, se lo trova all’improvviso davanti, che le sorride divertito: «Dica la verità, lei non è una cameriera, lei sta recitando una parte...».
«Sta parlando con me?» gli chiede Anna, sorpresa.
«Sì, con lei. Lei è la donna che ho incontrato sull’aereo e che ha raccolto la mia cartolina...» Ed è come se solo mentre lo sta dicendo il regista si rendesse conto che, sì, lei è proprio quella donna. «E forse è sempre lei che ho intravisto, qualche giorno dopo, mentre camminava per strada da sola nel mezzo della notte. Ora ne sono certo: quella donna è lei.»
«Mi ha riconosciuta? Si è ricordato di me?»
«Perché si meraviglia? Pensa davvero di essere dimenticabile?»
Lei tace, imbarazzata: dovrebbe essere lusingata e, invece, è come se si sentisse scoperta. Il regista continua: «E adesso mi chiedo quale sia la sua storia».
«Già. Qual è la mia storia? A volte me lo domando anch’io» risponde Anna, e c’è una nota di amarezza nella sua voce. Poi: «Perché mi sta guardando così?».
«La malinconia che traspare dai suoi occhi mi dice che in questo momento lei si sente sola. Spaventata e sola.» La fissa in volto, un po’ azzardando.
«Se lo pensa, significa che ha già conosciuto questa malinconia...»
Il regista tace e d’improvviso rivede gli occhi di sua madre, molti anni fa. Poi, mentre distoglie lo sguardo: «Sono gli occhi di chi ha perso qualcuno e non sa come non perdere anche se stesso dietro quell’assenza».
«Qualcuno che pensavo di avere perduto è ancora qui» lo interrompe Anna, e si volta per cercare Andrea nella stanza. «L’ho appena visto in mezzo a questa gente.»
Il regista si gira, segue il suo sguardo, ma ci sono fantasmi che non tutti possono vedere.
«Era il ragazzo che viaggiava in aereo con noi. È morto il giorno dopo...»
La morte non è la fine delle cose, pensa lui. Non è forse così?
Anna sorride. Lo guarda e prova una inspiegabile tenerezza. Sente che una strana corrente la sta spingendo verso questo sconosciuto. Quest’uomo che non conosce ha capito. E a lui ora potrebbe davvero raccontare tanto. Tutto, forse.
È allora che il regista, quasi le avesse letto nella mente, le toglie di mano il vassoio, lo posa su un tavolo. «Andiamo fuori» le dice, e lei lo segue.
È facile scomparire e far finta di non esserci, sedersi per terra in un angolo, sui gradini della terrazza, dimenticare vassoio, bicchieri, invitati, pensare solo al profumo dei tigli, alla luna sul Bosforo. Così Anna, per la prima volta dopo molti giorni, abbandonandosi ai pensieri, racconta. Gli dice tutto, anche ciò che non ha avuto il coraggio di confessare neppure a se stessa. Parla senza guardarlo, mentre fissa l’acqua e la notte, lontano. Lui la ascolta, in silenzio. Poi le domanda: «E lei, lei come si sente adesso?».
«Lei si sente persa. Si sente persa, e tradita.» E, sempre senza guardarlo, ma la domanda ora è per lui, per quest’uomo di cui non sa nulla, lo sconosciuto che la vita le ha messo davanti, mormora: «E lui come si sente?».
Lui non si aspettava questa domanda, o forse sì. È la domanda a cui sta girando intorno da giorni, e nessuno finora gliel’ha posta così semplice, così diretta. «Lui si sente all’improvviso come svuotato. Si sente stanco.» Ed è come se quella donna avesse gettato un sasso in uno stagno. Perché d’un tratto affiora in lui, insopprimibile, la nostalgia di quello che è stato, lo struggimento degli amori impossibili, l’amarezza dei piccoli tradimenti degli amici, l’ossessione degli squilli di un cellulare che non tace mai, a cui non può e non sa sottrarsi. Si guardano muti, nel silenzio della notte.
«E cosa consiglierebbe a lei?» sussurra Anna. Forse è la prima volta che chiede consiglio a qualcuno, che chiede aiuto a qualcuno.
Lui tace, come smarrito dentro a se stesso. Poi, lentamente, si gira e le sorride: «Le direbbe: parti, vai a sud. Il più a sud possibile. In un posto dove il mare abbia un colore che ti accarezzi e ti faccia bene. In un posto dove ci sia solo una locanda, un ristorante con il pesce appena pescato, un vino bianco senza etichetta che magari sa un po’ di resina. Un posto dove sedersi a guardare il tramonto...».
«O magari l’alba» lo interrompe lei, e quasi la vede, questa spiaggia sul mare.
«O magari l’alba. Un posto dove chiudere gli occhi al sole e lasciar parlare il corpo, e ascoltarlo. E fare l’amore con chi hai voglia di fare l’amore.»
«E lui lo conosce, questo posto?»
Lui resta in silenzio qualche istante, poi, guardando lontano verso il Bosforo, risponde, e la risposta, in qualche modo, è anche per sé: «Forse questo posto esiste solo dentro di noi. Ed è lì che dobbiamo provare a cercarlo». Si interrompe. «E se non riusciamo a trovarlo, bisogna inventarlo.» Perché a volte non serve partire, fuggire. Il vero altrove, spesso, è dove già siamo, e possiamo trovarlo solo se abbiamo la forza di affrontarlo. Muoversi da fermi, accettando la realtà. E solo così cambiarla. Muoversi da fermi, o fare le valigie per il mondo. Un passo dopo l’altro.
Poi lui le offre la mano, per aiutarla ad alzarsi. Lei la afferra: è una mano calda e fresca allo stesso tempo, una mano di cui fidarsi in una notte come questa. Perché ci sono notti in cui la vita ci cambia. E questa notte è ancora lunga, e sa ancora di tigli: la notte di Istanbul.
E in questo momento Istanbul è tutti i posti del mondo e quella di Anna solo una storia fra le tante. E quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia. Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica una strada. E adesso lo sai, il posto caldo, il posto al sud sei tu.
I personaggi, le storie, i ricordi che trovate in queste pagine mi frullavano da tempo nella mente.
Grazie alla mia editor Nicoletta Lazzari, che ha saputo con determinazione vincere ogni mia ritrosia e convincermi a dar loro forma sulla carta.
Grazie a Lisa Corva, che mi ha accompagnato, con pazienza, in questo inatteso viaggio nella scrittura.
Leggere, confrontarsi, correggere, integrare, noi tre insieme, è stata un’esperienza davvero fondamentale e stimolante.
Grazie a Moira Mazzantini, che c’è sempre, da vent’anni.
Grazie a Valter, che ha saputo farmi conoscere e amare Roma.
Grazie a Gianni, che riesce sempre a darmi i suggerimenti giusti.
E soprattutto grazie a parenti, amici e sconosciuti a cui ho rubato, come spesso accade, un pezzetto della loro vita per provare a raccontare, ancora una volta, la vita.
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