Nuovi argomenti (39)
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Nuovi argomenti (39)

SCRITTORI E SCIENZA

  1. 368 pagine
  2. Italian
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Nuovi argomenti (39)

SCRITTORI E SCIENZA

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Alberto Carocci e Alberto Moravia fondano Nuovi Argomenti. «L'idea», ricorderà Moravia, «era quella di creare una rivista di sinistra come "Temps Modernes" di Sartre, la quale avrebbe avuto un'attenzione per la realtà italiana di tipo oggettivo e non lirico». Il bimestrale ha la sua redazione in via dei Due Macelli 47 (segretario di redazione, Giovanni Carocci) e viene stampato presso l'Istituto Grafico Tiberino di Roma. Hanno collaborato: Giorgio van Straten, Leonardo Colombati, David Calef, Richard Powers, Demetrio Paolin, Tommaso Pincio, Chiara Valerio, Mauro Francesco Minervino, Giuseppe Genna, Wu Ming, Bernardino Sassoli, Giulio Giorello, Leonardo Colombati, Philippe Forest, Louise Glück, Rita Dove, Wallace Stevens, Carlo Della Rocca, Federica Manzon, Claudio Damiani, Lucrezia Lerro, Vittorino Curci, Alessio Brandolini, Piero Pompili, Raffaele Manica, Filippo Belacchi, Paolo Febbraro, Francesco Piccolo, Paola Frandini, Enzo Golino, Andrea Caterini.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852041624
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INTRODUZIONE

Leonardo Colombati

1. Il Barone Charles Percy Snow (1905-1980), scienziato e scrittore inglese, fu assistente del Ministro della Tecnologia durante il governo di Harold Wilson. Tra le sue opere il ciclo di romanzi Strangers and Brothers e una biografia di Antohny Trollope. Ma la sua fama è legata soprattutto alla sua Rede Lecture del 1959, The Two Cultures and the Scientific Revolution. Argomentava Snow:
Molte volte mi sono ritrovato in mezzo a persone considerate di elevata cultura – almeno secondo gli standard tradizionali – che provano un gusto particolare nel mostrare la loro incredulità rispetto allo scarso talento letterario degli uomini di scienza. Un paio di volte, dopo esser stato provocato in questo senso, ho chiesto ad alcuni di loro se potevano descrivermi la seconda legge della termodinamica, quella che riguarda l’entropia. Le risposte sono state fredde e, cosa ancor più interessante, del tutto insoddisfacenti. Eppure avevo fatto una domanda che può ritenersi l’equivalente scientifico di: “Hai mai letto qualcosa di Shakespeare?”. Sono dunque portato a ritenere che se rivolgessi una semplice domanda – tipo: cosa vuol dire massa o accelerazione? – che fosse l’equivalente scientifico di “Sai leggere?”, non più di una su dieci persone ben istruite penserebbe che io e lui stiamo parlando lo stesso linguaggio. È così: il grande edificio della fisica moderna continua a essere costruito e la maggior parte delle persone più intelligenti del mondo occidentale ne ha una conoscenza più o meno simile a quella posseduta dai loro antenati del Neolitico1.
Secondo un interessante – e per certi versi profetico – articolo che Thomas Pynchon scrisse nel 1984, la distinzione tra cultura umanistica e cultura scientifica non regge più, visto che ormai le “culture” sono molte più di due. Ma è indubbio che generalmente gli scrittori siano tutti devoti a quel Ned Ludd che nel Settecento andava in giro a distruggere i telai meccanici per paura che mandassero disoccupate le tessitrici. “Ad eccezione, forse, del Puffo Quattrocchi”, osserva Pynchon, “è difficile immaginare qualcuno a cui al giorno d’oggi farebbe piacere essere etichettato come un intellettuale di stampo umanistico”, eppure ancora oggi questo tipo di intellettuale sospetta “immediatamente di insicurezza emotiva chi ancora prova a nascondersi dietro un gergo specialistico o confida in informazioni situate oltre la soglia di comprensione di un profano”2.
Da quando nel 1905 il signor Einstein tirò fuori la sua celebre formuletta, è vero che le cose si sono un po’ complicate e se fino all’Ottocento una persona di buona cultura aveva dell’Universo un’idea grosso modo analoga a quella di uno scienziato, al giorno d’oggi quanti di noi possono in buona fede sostenere di sapere quali leggi della fisica ci tengono appesi al firmamento o cosa succede nelle sinapsi del nostro cervello? Tutto questo ci è ignoto; e tutto questo ignoto ci sembra così ricco e affascinante da risultare una minaccia alla nostra immaginazione così come una macchina a vapore doveva preoccupare un luddista.
Sarà per questo, forse, che gli scrittori si avventurano raramente in territori scientifici, insensibili all’entusiasmo di Lautréamont quando nei Canti di Maldoror ad esempio esclamava: “Aritmetica! Algebra! Geometria! Grandiosa trinità! Luminoso triangolo! Colui che non vi ha conosciute è un insensato!”3.
Vi sono, certo, alcune eccezioni: Musil, Broch, Carroll, Queneau, Borges, Perec, DeLillo; e in Italia Gadda, Calvino, Levi, Tobino… L’incanto di Lautréamont di fronte alle scienze “saintes” l’hanno provato anche altri: tra gli otto capolavori sonori della civiltà occidentale, George Steiner4 inserì il crepitio del pennino con cui Clausius vergò la n esponenziale del suo postulato sul secondo principio della termodinamica; e addirittura Wislawa Szymborska5 arrivò ad augurarsi l’inclusione del teorema di Pitagora in un’ideale antologia del meglio della poesia mondiale.
2. Gli scrittori perseguono nelle loro opere gli stessi obiettivi dei fisici che indagano lo spazio e il tempo (dai quark alle galassie, dal Big Bang alla fine del mondo) e dei neuroscienziati che cercano di capire in che modo ricordiamo, amiamo e immaginiamo. Ma tra i narratori e gli scienziati continua a esserci una diffidenza che non può nemmeno dirsi reciproca.
In effetti, da quando Bertrand Russell si domandò se esiste nel mondo una conoscenza “così certa che nessun uomo ragionevole possa dubitarne” e si rispose liquidando la filosofia della scienza come la storia di una ritirata in un’ideale fallibilista, per la matematica e la geometria non vale più la tesi kantiana secondo cui i loro assiomi sarebbero giudizi sintetici a priori (e cioè universali e necessari), ma s’insiste sul fatto che siano delle convenzioni. Forzando il discorso, si può arrivare a dire che esse non sono altro che narrazioni e che solo lo studio della sintassi e della lingua utilizzate per svolgerle è utile.
Ecco, dunque, come va a farsi benedire tutto ciò che di ottusamente positivistico era emerso dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo, l’epoca in cui si credeva d’aver finalmente eliminato il mondo dei “pressappoco” e di aver al suo posto fondato un mondo “archimedeo” in cui dominano la precisione, la misurazione esatta e la determinazione rigorosa. Nel 1931 Kurt Gödel arriverà addirittura a pubblicare un Teorema dell’Incompletezza! Leggiamo la Proposizione VI contenuta in Sulle proposizioni formalmente indecidibili dei “Principia Mathematica” e dei sistemi affini di Gödel:
Ad ogni classe k di formule che sia ω-coerente e ricorsiva corrispondono segni-di-classe ricorsivi r tali che né v Gen r né Neg (v Gen r) appartengano a Flg (k) (dove v è la variabile libera di r).
Parafrasata in un italiano appena più comprensibile, la Proposizione afferma che tutte le assiomatizzazioni coerenti dell’aritmetica contengono proposizioni indecidibili. La cosa interessante è che il Teorema di Gödel rappresenta esso stesso un paradosso, giacché, essendo una assiomatizzazione, si caratterizza come un enunciato autoreferenziale, assimilabile al celebre assunto di Epimenide: “tutti i Cretesi sono mentitori” (se ciò che diceva Epimenide era vero, allora Epimenide, essendo cretese, asseriva il falso).
3. La scienza, insomma, è un genere letterario? Certo è che anche per lei si applicano analisi di tipo sociologico (la scienza è una credenza localmente accettata) e retorico. Feyerabend addirittura sosteneva che non esiste alcuna possibilità di distinzione tra attività scientifica e non scientifica, visto che il successo di una teoria scientifica dipende in larga misura non dalla sua intrinseca qualità ma piuttosto dalle capacità retoriche dei suoi sostenitori.
Pensiamo, ad esempio, alla Teoria delle Stringhe, la teoria più “sexy” di tutte, quella che nei sogni di centinaia di fisici potrebbe avvicinarsi maggiormente alla tanto a lungo attesa Teoria del Tutto: poche, eleganti equazioni, concise abbastanza da essere riprodotte sulle T-shirts. Come notava Jim Holt in un articolo sul “New Yorker”, la Teoria delle Stringhe “è bellissima dal punto di vista matematico. Resta solo da scriverne le equazioni. E ci sta volendo un po’ più del previsto… Decine di conferenze, centinaia di Ph.D e migliaia di articoli sul tema; ma non una singola e verificabile predizione: nessun dilemma teoretico è stato finora risolto. In effetti, a tutt’oggi non c’è alcuna teoria – solo una serie di ipotesi e di calcoli che suggeriscono che forse una teoria potrebbe esistere”6. La Teoria del Tutto sembra essere più che altro la Teoria sul Nulla. Ma è un nulla così seducente che se sei un fisico e vuoi far carriera devi far finta che davvero possa combinare tra loro la relatività generale e la meccanica quantistica. È per questo che Holt si domanda – chissà quanto ironicamente – se la fisica non stia entrando nella sua fase postmoderna. Il modello standard utilizzato dalla fisica moderna per descrivere l’Universo “magari è brutto, ma funziona, al punto che può dirsi che sia una buona approssimazione della verità. Nell’era postmoderna, invece, ci dicono che l’estetica deve prendere il posto della verifica empirica. Visto che la Teoria delle Stringhe non s’abbassa ad essere testata direttamente, la sua bellezza deve essere la garanzia della sua validità”7.
4. Gli uomini che provocarono il sovvolgimento cui diamo il nome di “rivoluzione scientifica”, non lo chiamarono Nuova Scienza, ma Nuova Filosofia. Eppure, come scriveva Arthur Koestler nella prefazione al suo I sonnambuli, resiste “la voragine che ancora separa le scienze umane dalla filosofia della natura”, come pure “l’idiozia delle barriere universitarie e sociali che vengono erette tra i due tipi d’indagine; è questo un fatto che finalmente cominciamo a riconoscere mentre sono passati quasi cinquecento anni da quando il Rinascimento ha inventato l’uomo universale”8.
Peraltro, secondo le recenti acquisizioni della neuropsicologia cognitiva, alla base dell’abilità di fare matematica vi sono gli stessi meccanismi cerebrali preposti all’elaborazione del linguaggio.
Qualche millennio fa
il mondo dei babilonesi, degli egizi, degli ebrei era un’ostrica: c’era acqua sotto e sopra il solido firmamento. Esso era di dimensioni modeste, e caldamente racchiuso da tutte le parti come una culla, come un feto. L’ostrica dei babilonesi era rotonda, la terra era una montagna cava situata al centro e galleggiante sulle acqua profonde; sopra si arrotondava una cupola solida ricoperta dalle acque superiori… il Sole, la Luna, le stelle danzavano lentamente da un bordo all’altro della cupola: entravano in scena a Levante, ne uscivano a Ponente9.
Questo era il cosmo così come lo osservavano gli antichi astronomi e lo raccontavano gli ignoti autori dell’epopea di Gilgamesh e della Torah.
Oggi, nei pressi di Ginevra, i ricercatori del CERN hanno costruito un tunnel circolare di venticinque chilometri di diametro per far viaggiare un protone al 99,9999991 per cento della velocità della luce. Nel 2008 il tunnel entrerà in funzione e – secondo alcuni scienziati – svelerà alcuni importanti segreti dell’Universo. L’ipotesi è che oltre alle sedici particelle che compongono il nucleo di un atomo ve ne sia una diciassettesima, chiamata Higgs. Se tutto ciò è vero si scoprirebbe che il vuoto non esiste e potremmo scavalcare il muro che divide la materia dall’antimateria.
Ci sarà, in questo caso, una Nuova Letteratura
Note
1 Charles Percy Snow, The Two Cultures and the Scientific Revolution, Cambridge University Press, Cambridge 1961 (traduzione mia).
2 Thomas Pynchon, Is it O.K. to be a Luddite?, in “The New York Times Book Review”, 28 October 1984 (traduzione mia).
3 Lautréamont, Opere complete, Feltrinelli, Milano 1968.
4 George Steiner, Desert Island Discs, in Proof and Three Parables, Faber and Faber, London 1992.
5 Wislawa Szymborska, Letture facoltative, Adelphi, Milano 2006.
6 Jim Holt, Unstrung, in “New Yorker”, 2 October 2006.
7 Ibidem.
8 Arthur Koestler, I sonnambuli, Jaca Book, Milano 1981.
9 Ibidem.

LE DUE CULTURE:
CONFLITTI E ARMONIE


David Calef

La conoscenza delle scienze fisiche non mi consolerà dell’ignoranza della morale nel momento del dolore, ma la conoscenza della morale mi consolerà sempre del l’ignoranza delle scienze fisiche.
Blaise Pascal, Pensieri, n. 23
L’arte è l’albero della vita; la scienza è l’albero della morte
William Blake, Lacoonte, 1818
Circa mezzo secolo fa un intellettuale inglese, Charles Pierce Snow, coniò l’espressione “due culture” segnalando gli effetti nefasti della separazione tra la cultura umanistica e quella scientifica. La denuncia di Snow suscitò polemiche e dibattiti che si trascinarono per anni, spesso conservando l’impronta iniziale della controversia nella quale le due parti in causa sostenevano la preminenza di uno dei due campi. Oggi, lungi dall’essersi ricomposta, la frattura tra le due culture è ancora lì, ben marcata, sotto gli occhi di tutti. Bisogna rassegnarsi alla scissione oppure archiviare la questione come accademica? Nel tentativo di rispondere alla domanda nelle prossime pagine farò una breve rassegna della storia delle “due culture” dalla civiltà classica fino a oggi.
La separazione tra le due culture è un fenomeno relativamente recente. Nell’età classica l’unità del sapere non era messa in discussione; il corpo delle conoscenze era considerato unico perché fondato su di un concetto unitario di natura. Per i pensatori presocratici del VI e V secolo a.C., la realtà empirica veniva spiegata dall’archè, ovvero da un solo elemento primordiale (acqua, aria, fuoco, terra, ...) e il logos governava la realtà delle idee. Nel Medio Evo, il cristianesimo non cambiò di molto le cose. I filosofi cristiani rilessero il concetto di natura alla luce delle Sacre Scritture decretando che tutto procede da Dio e a Dio tutto ritorna1. L’unità della sfera culturale restò intatta.
Di fatto, dal VI secolo a.C. all’epoca dei Lumi, l’unità della cultura ha favorito la formazione di intellettuali versatili ed enciclopedici capaci di distinguersi come astronomi ed eccellere allo stesso tempo nel ruolo di filosofi. Ancora alla fine del Settecento nell’Europa del nord, la separazione tra scienziati e umanisti e statisti era tutt’altro che netta. Gli scienziati non erano né venivano considerati come una casta emarginata. Nella Francia post-rivoluzionaria, il prestigio dell’élite scientifica era tale che lo scienziato inglese Charles Babbage riconobbe che “le conoscenze scientifiche rappresentano una raccomandazione per ottenere incarichi pubblici”. Ed infatti all’inizio del XIX secolo matematici, fisici e chimici occuparono cariche di ministro (Carnot, Chaptal), senatore (Lagrange) prefetto (Fourier) e presidente del senato (Laplace).
La situazione cambia rapidamente, poco più tardi, quando la Rivoluzione industriale comincia a mutare la struttura sociale e la fisionomia del paesaggio dei paesi del nord Europa. Osservando le fabbriche sostituire le fattorie e le carrozze fare posto alle locomotive, i poeti romantici inglesi cominciarono a guardare alla scienza e alla tecnologia con sguardo perplesso e talvolta anche ostile. Basterà ricordare John Keats che accusò Newton di aver privato l’arcobaleno di aura poetica per aver spiegato il meccanismo con cui la luce solare si disperde nello spettro dei colori. E William Blake, che alla scienza assegnava un posto di particolare abiezione nel suo universo poetico (“Che Dio ci tenga lontano da una visione esclusiva e dal sonno di Newton”). La scienza, anche in virtù dei suoi legami con la tecnologia comincia ad assumere i contorni invisi di un’attività avversa ai sentimenti, all’istinto e a tutto quanto veniva considerato più autenticamente umano dalla sensibilità romantica. Non tutti i poeti dei cenacoli letterari londinesi condividevano il punto di vista di Keats e Blake, ma è indubbio che per la sensibilità romantica, la tecnologia era tutt’altro che un simbolo di liberazione dello spirito umano e la scienza non era una forza volta al bene.
Ma la nostalgia per l’Eden incontaminato e il primato romantico dell’intuizione sulla ragione non sono sufficienti a spiegare i primi segnali di incomprensione tra letterati e cultura scientifica. Un ruolo importante nell’insorgere del divario e – in molti casi – dell’ostilità tra le due culture è stato giocato dalla specializzazione scientifica. L’espansione sempre più rapida delle conoscenze di fisica, biologia e matematica, rendeva sempre più difficile per un umanista apprendere i rudimenti di una scoperta scientifica.
Le due culture
Nel 1959 Charles Pierce Snow (1905-1980) tenne all’università di Cambridge una conferenza dal titolo The Two Cultures and the Scientific Revolution (Le due culture) a Cambridge. La pubblicazione della conferenza, prima sulla rivista Encounter e poi nel pamphlet The Two Cultures, ebbe una risonanza imprevista che oltrepassò i confini del mondo universitario britannico.
Snow era un intellettuale molto in vista nella società dell’epoca. Dopo aver lavorato come fisico, Snow diventò noto al pubblico inglese per una serie di romanzi (Strangers and Brothers) molto popolari tra il 1930 e il 1960 e pressoché dimenticati dopo la sua morte. Dalla metà degli anni 40 ricoprì cariche importanti (consigliere scientifico, sottosegretario del ministero della tecnologia) in vari governi del dopoguerra. Il tema della conferenza, ripreso da un articolo pubblicato sul New Statesman nel 1956, era la frattura tra la cultura letterario-umanistica e quella scientifica. Nel passo più citato del testo di Snow, lo scrittore inglese ricorda quei letterati, unanimemente riconosciuti come uomini di grande cultura, incapaci di dire due parole sul Secondo Principio della Termodinamica. “Eppure stavo solo domandando l’equivalente scientifico di: Avete letto nulla di Shakespeare?” commentava Snow. Senza tema di infierire, Snow prevedeva che se avesse chiesto notizie sul significato di massa o accelerazione – l’equivalente scientifico di “Sapete leggere?” – non più di un letterato su dieci avrebbe saputo rispondere. Per contro, agli scienziati, Snow rimproverava di non leggere i romanzi di Dickens o comunque di trovarli oscuri. Nonostante fosse partita come una riflessione amara ma equilibrata sul divario tra le due culture, la tesi di Snow era tutt’altro che simmetrica: il maggiore responsabile della frattura tra le due culture era l’establishment letterario accusato non solo di analfabetismo scientifico ma anche di presunzione e superbia. Perché, agli occhi di Lord Snow, al contrario degli scienziati, i letterati ostentavano la propria ignoranza ritenendo di essere gli unici rappresentanti della cultura. Secondo Snow, le radici dell’ignoranza degli umanisti andavano ricercate nel disinteresse nei confronti della rivoluzione industriale. Infatti, “gli intellettuali occidentali non si sono mai sforzati, né hanno mai desiderato o non sono mai stati in grado di capire la rivoluzione industriale, ed ancor meno di accettarla. Gli intellettuali, ed in particolar modo i letterati, sono per natura “luddisti”. Snow dava per scontato che gli scienziati fossero aperti alle novità (“hanno il futuro nelle loro ossa”) e fossero quindi innovatori e progressisti; viceversa giudicava come incorreggibili conservatori i letterati tanto da accusare i migliori scrittori del XX secolo (Yeats, Pound, Wyndham Lewis, ecc.) di aver contribuito a preparare i campi di concentramento con le loro idee reazionarie.
Non è che a Snow stesse a cuore l’imbarazzo avvertito da qualche fisico teorico a corto di argomenti di conversazione con gli specialisti di poeti metafisici ai cocktail party londinesi. No, il problema era che il deficit di cultura scientifica delle classi dirigenti inglesi avrebbe compromesso lo sviluppo industriale e il progresso materiale de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (39)
  3. Colophon
  4. DIARIO
  5. E=Mc2
  6. SCRITTURE
  7. OSTIA
  8. RIFLESSIONI SULLA LETTERATURA