Pallida mors
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Pallida mors

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  1. 324 pagine
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Pallida mors

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Informazioni sul libro

Grande è la sorpresa di Publio Aurelio quando, coinvolto nel crollo di un'antica tomba sull'Esquilino, rinviene al suo interno lo scheletro di una donna orribilmente inchiodata al sepolcro. Nessuno ha mai sentito parlare di simili riti barbarici nell'Urbe, anche se in alcune remote province dell'Impero si vagheggia di demoni femminili dai piedi di bronzo, chiamati dai greci "empuse", che userebbero sedurre giovani maschi di bell'aspetto per portarli lentamente alla morte, succhiandone le forze vitali o addirittura il sangue: secondo le leggende di quei lontani popoli, uccidere le "empuse" non basta, occorre inchiodarne il corpo per impedire loro di risorgere nuovamente dal sepolcro. Alieno da ogni superstizione, il senatore risale presto alla proprietaria della tomba, Festia Velthinia, la matriarca di una famiglia di origine etrusca. Tuttavia, quando si reca nella sua casa per interrogarla, trova la vecchia sul letto appena morta, circondata dai suoi nipoti ed eredi. Accanto a loro una donna incredibilmente seducente, Sofia Sofiana, e la cugina povera Lavinia, ragazza poco ligia alle convenienze... A complicare le cose c'è la diceria circa un tesoro che il fratello di Fastia, Velthur detto l'Avvoltoio, avrebbe nascosto nei boschi di proprietà della famiglia. E naturalmente non mancano i personaggi cari a chi segue Publio Aurelio sin dalle sue prime indagini: l'astuto liberto Castore, la matrona Pomponia afflitta da un eccesso di atrabile e il medico Ipparco, tutto preso dal progetto di costruire il primo grande valetudinarium di Roma per ricoverarvi i suoi pazienti, a spese di Aurelio...
Con lo humour e la precisione che conosciamo, ma con una sapienza sempre più raffinata nel costruire intrecci narrativi ricchissimi, Danila Comastri Montanari dà vita a un giallo avvincente che al brivido del mistero aggiunge scorci entusiasmanti di storia della Roma antica. Dopo l'ultima avventura egiziana di Tabula rasa, Publio Aurelio torna a casa e - tra le cascate della Marmora e l'apparizione di creature molto simili ai moderni vampiri - ci appassiona, ci diverte, ci sorprende come e più di sempre.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852044601

XIII GIORNO

Foresta umbra, proprietà dei Velthinii Fasti
nei dintorni di Interamna
Chi si fosse chiesto che cosa spingeva un senatore romano ad aggirarsi, a cavallo e senza scorta, nei boschi sull’altopiano prospicente la valle della Nera, avrebbe dovuto mettere in conto alcune peculiarità di Publio Aurelio Stazio, prima fra tutte la sua attitudine a reperire informazioni in cambio di denaro sonante, e in secondo luogo il suo caparbio amor proprio.
Appresa infatti da schiavi, vicini e pettegoli vari, foraggiati con cospicui compensi, la vastità delle voci riportate dal segretario e da Lucio sull’esistenza di un ingente malloppo appartenuto al famigerato Avvoltoio – chi lo voleva bottino di guerra, chi ricavato da ruberie, chi estorto a poveracci indebitati dagli interessi da strozzo, chi ricavato da un filone segreto nelle viscere della terra –, l’impulso immediato di Aurelio era stato quello di recarsi di persona a dare un’occhiata nei fondi aviti della famiglia, il luogo più probabile nel quale Velthur Velthinio avrebbe potuto nascondere il preteso tesoro, possibile movente del delitto. Un progetto che, considerato alla luce del senno e della ragionevolezza, aveva tutti i crismi se non di una pazzia, almeno di una grossa sciocchezza, si era ripetuto il patrizio, censurandosi da solo: effettivamente, sarebbe stato più facile – come dicevano i greci – cercare una pulce in un pagliaio.
Ma ecco l’orgoglio era riaffiorato prepotente, fondendosi in un solido amalgama coi bei ricordi di gioventù, quando il vivissimo desiderio di percorrere tutto il mondo conosciuto lo aveva spinto a partire per le contrade più lontane e selvagge. “Ma come?” si era detto. “Perché mai io, che osavo un tempo penetrare nel territorio nemico della Partia, calcare le sabbie dei deserti e arrampicarmi su scoscesi picchi montani, esito ora a muovere verso la regione umbra, pacifica, comoda e vicinissima, praticamente a due passi dalla capitale?” A che cosa era dovuta quella sua nuova accidia da pantofolaio, avvezzo ormai a calzare morbide solae da casa, anziché calcei da pellegrino o caligae da soldato, o crepidae da viandante? Dov’erano finiti il suo spirito di avventura, la sua insaziabile curiosità, la sua brama di imprevisti? Era forse l’avanzare dell’età a renderlo così pigro?, si era chiesto, non senza una certa apprensione. Così, sordo ai consigli di Castore e soprattutto a quelli del buon senso, aveva chiesto un animale e una sella, per mettersi in viaggio da solo.
Ora, lasciato il cavallo in una radura ombrosa all’interno di quelle che supponeva essere le antiche proprietà dei Velthinii, procedeva a piedi, incerto sulla direzione verso cui volgere, ma comunque pago di respirare a pieni polmoni l’afrore umido del bosco, denso di mille fragranze inebrianti.
I fusti lisci degli alberi fitti, la morbida cedevolezza del suolo in cui affondavano i calzari, le chiazze cupe delle felci, lo stormire delle fronde, gli rammentarono una foresta tanto più cupa, su a Settentrione, il giorno in cui per la prima volta aveva ucciso un uomo. Il barbaro gli si era parato davanti con una lunga lancia, emettendo il suo gutturale grido di guerra. E lui, giovane tribuno che recava gli ordini del Senato, quella volta non aveva al suo fianco la legione, un corpo compatto dalla disciplina ferrea, uso a muoversi come un tutto unico sotto l’insegna dell’Urbe mentre una sola voce urlava nella testa e nel cuore di ogni soldato: “Non sei solo, non lo sarai mai: perché tu sei Roma!”.
Quella volta lui era solo davvero. «Vattene!» aveva detto al germano, come se l’altro riuscisse a capirlo, come se ciò che era inevitabile potesse essere eluso, o almeno demandato.
Ma l’altro – il selvaggio, il diverso, il nemico – voleva la sua vita. Aveva attaccato con l’impeto di una fiera, accecato dalla brama di offrire una vittima ai suoi cupi Dei guerrieri, o di raggiungerli nei loro eterni campi di battaglia celesti. Ucciderlo con un unico, precisissimo colpo di gladio era stato facile. Il sangue nero aveva imbevuto la terra, là dove cresceva una pianticella dalle foglie pelose e maculate. Per uno sciocco impulso, Aurelio l’aveva raccolta, attento a conservarle attorno il suo pane di melma fecondata dalla morte. Ma non era riuscito a riportarla a casa, a perenne monito di quell’attimo fatale della sua esistenza: era seccata nel corso del viaggio e dopo c’erano stati altri scontri, altri duelli, altre sfide, altre guerre, altre uccisioni. Troppe per ricordarle tutte.
Trascurando la via principale, più larga ma anche più esposta agli sguardi indiscreti, Aurelio percorse di buon passo un quarto di miglio lungo il viottolo circondato da un folto querceto – mulattiera piuttosto che sentiero – che ormai nessuno percorreva, salvo qualche cinghiale, la cui presenza era intuibile dalla corteccia divelta dei tronchi su cui i possenti suini sdrusciavano il mantello.
Distante, ma presente in sottofondo, si sentiva il boato sordo del salto d’acqua creato quasi duecento anni prima dal console romano Manio Curio Dentato attraverso una straordinaria opera di ingegneria, deviando il corso del Velino e facendolo precipitare in un’immensa cateratta artificiale nel sottostante Nera, affluente del Tevere. Come spesso accade, tuttavia, la brillante risoluzione di un problema ne aveva creato uno diverso, ovvero l’impaludamento non più a monte, ma a valle della cascata. Le due città coinvolte nella bonifica, Reate e Interamna, avevano infatti iniziato un interminabile contenzioso legale, coinvolgendovi persino Cicerone. A dire il vero Aurelio non ricordava bene come fosse finita la disputa, né si sarebbe meravigliato – messi in conto i tempi lunghissimi della giustizia, l’inesauribile ingordigia degli avvocati e l’altissimo tasso di litigiosità dei municipi di provincia – se avesse appreso che era ancora in corso. Tuttavia andava ugualmente fiero dell’enorme cascata, l’unica che poteva paragonarsi al grande salto del Reno nel paese degli elvezi, da lui raggiunto partendo da Augusta Raurica dopo un faticosissimo viaggio. Mentre però le acque del fiume nordico sprofondavano da millenni per volere del Fato – o del caso o della natura o degli Dei –, a creare l’incredibile meraviglia italica erano stati uomini come lui, e come lui romani, pensava ascoltando il possente ruggito che risuonava in lontananza.
Il rombo dei flutti però non era certo l’unico rumore, né il più inquietante, che giungeva alle sue orecchie: dal bosco infatti provenivano vari grugniti, intervallati da un fischio debole ma insistente, che il patrizio sperò dovuto a un istrice suscettibile, piuttosto che a una serpe velenosa.
Nondimeno il grufolio suonava pochissimo convincente, quasi la goffa imitazione del verso animale prodotto da un’ugola umana. Aurelio aguzzò l’udito: no, non era un falso allarme, qualcuno tentava davvero di intavolare una conversazione con i voraci suini per determinare il luogo preciso dove pasturavano, vuoi per raggiungerli, se si trattava di un cacciatore, vuoi per evitarli, se si trattava di qualcun altro. E siccome nessun cacciatore solitario con un minimo di senno si sarebbe mai inoltrato solo soletto in una foresta per dilettarsi nella cattura di un cinghiale – bestia temibile, infida e decisamente pericolosa –, era ragionevole presumere di trovarsi di fronte al secondo caso.
Eppure tutto il terreno attorno era appartenuto ai Velthinii fin dai tempi del console Dentato, come testimoniavano gli atti di proprietà che il senatore si era fatto scrupolo di controllare per interposta persona, mediante un paio di nummularii residenti a Interamna e alcuni dei selezionatissimi piccioni viaggiatori che facevano la spola tra l’Urbe e i suoi numerosi uffici in provincia.
Chi poteva essere, allora? Un eventuale porcaro, regolarmente autorizzato a percorrere il sentiero, sarebbe stato riconoscibile dal trapestio degli zoccoli e dal mugolare soddisfatto dei suoi maiali alle prese con il ricco bottino di ghiande del sottobosco, così come un taglialegna avrebbe rivelato la sua presenza mediante il baccano prodotto dall’ascia o dalla sega. Dunque non erano proprio minime le probabilità che tra le frasche ci fosse un clandestino diretto alla sua stessa meta e col suo stesso scopo, alla ricerca cioè dei vecchi segreti dell’Avvoltoio. E doveva essere anche molto vicino, si disse Aurelio rintanandosi per spiare l’intruso dietro al massiccio affioramento roccioso che rompeva subitaneamente il rigoglio della vegetazione, simile alla sommità di un grosso cranio pelato circondato da una folta corona di boccoli fluenti.
Silenziosamente il patrizio cominciò ad avanzare verso il punto al di là del macigno da cui aveva udito provenire il richiamo sospetto.
Sul lato opposto della roccia, un’altra forma umana si era acquattata con grande rapidità non appena udito il tipico scricchiolare delle foglie secche calpestate da un paio di calzari di cuoio. La miniera non era lontana, ma ecco un maledetto impiccione che rischiava di interferire proprio in vista del traguardo. Chi era il fastidioso ficcanaso e come avrebbe potuto seminarlo?, si chiese il senatore mentre retrocedeva attorno all’imponente ammasso pietroso con tutti i sensi all’erta.
Ora, non occorre aver sudato per anni sui testi di geometria per sapere che il perimetro di un cerchio è un cammino ricorsivo, ed è possibile percorrerlo all’infinito, tornando sempre al punto di partenza. È appunto ciò che aveva intenzione di fare Aurelio, circumnavigando cautamente il masso per scoprire chi si celasse dall’altra parte.
Perlustrò quindi la metà del circolo, senza peraltro trovarvi nessuno: la stessa idea, infatti, aveva attraversato anche la mente pronta del secondo frequentatore del bosco, per cui i due si erano ritrovati a scambiare le reciproche posizioni, senza riuscire affatto a incontrarsi.
Fu allora che, per una di quelle bizzarre coincidenze che accadono più spesso di quanto si pensi, decisero entrambi e nello stesso momento di proseguire a ritroso, invertendo pure il senso di marcia, nella speranza di tenere meglio d’occhio l’eventuale avversario. E poiché ambedue si muovevano silenziosi come felini e ambedue procedevano all’indietro, il cozzo divenne inevitabile.
L’impatto fu duro ma non devastante, in quanto le parti che ebbero a collidere erano le più morbide dell’intero corpo umano: agili e compatti i glutei del senatore, soffici ma sode le natiche femminili con cui urtarono nell’ineluttabile scontro.
«Chi va là?» chiesero i due a una sola voce, prima che la donna lasciasse esplodere tutto il suo disappunto.
«Di nuovo tu!» esclamò Lavinia inviperita, agitando il piccolo pugium che aveva brandito a sua difesa. «Che ci fai qui, sciaguratissimo intrigante?»
«Che ci fai tu, piuttosto?» la rimbeccò il senatore.
«Io sono sulle terre di mio nonno, Velthur l’Avvoltoio, della gens Fastia Velthinia» precisò lei con fare altezzoso.
«Terre che non appartengono affatto a te, ma a tuo cugino Quinto!»
«Su queste colline io ci sono cresciuta!» ribadì lei con una smorfia sprezzante.
«Già! Dimenticavo che ti sei aggirata abbastanza tempo da queste parti da ricordare le fantasiose leggende che circolano in giro... non ti basta quanto ti ha concesso Fastia nel testamento? Eppure sei stata trattata meglio di Lucio, che pure era il figlio primogenito del suo unico rampollo maschio. Forse però pretendevi di più, forse ambivi a mettere le mani su un mucchio di oro e di gemme!»
«Dunque sai del tesoro, mio astutissimo ficcanaso. Be’, quella roba è mia, sono io l’unica erede diretta dell’Avvoltoio!» mise in chiaro la ragazza.
«Nata dalla figlia che lui diseredò» ribatté seccamente il patrizio.
«E tuttavia sua parente di sangue, mentre i miei cugini non sono che nipoti di una sorella!»
«Istanza legale alquanto dubbia, quella che sostieni. Immagino comunque che tu non abbia alcuna intenzione di affrontare una regolare causa in tribunale, ma solo quella di appropriarti furtivamente delle ricchezze di Velthur, sempre che esistano.»
«Ora non saprei, ma sospetto che un tempo siano esistite. Ero appena arrivata a Roma quando gli schiavi di casa cominciarono a parlare di oggetti antichi e preziosi che comparivano da un momento all’altro nella casa, per poi sparire con rapidità alquanto sospetta. E poiché nessun altro personaggio nella storia della famiglia, se non mio nonno, si era mostrato abbastanza audace e intraprendente da venire associato a un misterioso tesoro, era ovvio che lo attribuissero a lui.»
«La versione ufficiale vuole che sia stato mandato a riscuotere il riscatto di alcuni ostaggi presso i barbari, dai quali venne ucciso a tradimento» obiettò il patrizio.
«E che significa riscatto se non denaro, mio scaltro senatore? Soldi, oro, gemme, gioielli, roba di valore! I perfidi barbari rifiutarono lo scambio e uccisero l’eroico mediatore. Così almeno si dice. Ma se invece avessero accettato lo scambio?»
La mente fervida del senatore fu lesta ad allacciare i nodi, congiungendo le voci confuse dei servi su ingenti risorse nascoste nelle viscere della terra con le vicende militari ben conosciute – e non sempre limpide – del fratello di Fastia, il cui corpo non era mai stato trovato.
«Se Velthur l’Avvoltoio invece di far ritorno alla guarnigione si fosse intascato il bottino per poi scomparire nel nulla, intendi?» chiese Aurelio.
«Appunto!» confermò la ragazza stringendo le labbra volitive.
«Avrebbe dunque inscenato una finta dipartita, simile a quella di tuo cugino, per godersi in pace il maltolto? Due casi di morte simulata nella stessa famiglia, a così breve distanza l’uno dall’altro, mi sembrano davvero eccessivi» osservò il patrizio.
«Io stessa stento a credervi, anche perché mio nonno nutriva ambizioni molto diverse da quelle di Lucio» scosse la testa Lavinia, alla quale l’ipotesi su cui tanto aveva astrologato appariva ora improvvisamente in tutta la sua fiabesca improbabilità.
«Voleva gloria e potere, non avventure stravaganti o esotiche peripezie, e non c’è gloria o potere lontano da Roma! L’Avvoltoio progettava senza dubbio di tornare, non di sparire nel nulla» concluse il senatore.
Per un attimo i due si fissarono, con reciproca intesa. Ma l’incanto durò poco.
«Bene, adesso che hai portato a termine le tue brillanti deduzioni, che ne diresti di tornartene a casa, mio prode padre coscritto?» propose Lavinia.
«Visto che sono arrivato fin qui, intendo guardarmi un po’ attorno. E avrei l’insano desiderio di farlo da solo!» dichiarò il patrizio.
«Gli Dei nella loro sublime indifferenza raramente esaudiscono le aspirazioni dei mortali, mio baldo Publio. Ci sono iugeri e iugeri di bosco qui attorno, e ogni forra può nascondere un tesoro sepolto: se vuoi metterti a scavare alla sua ricerca, fai pure, ma dubito che ti capiterà di trovare qualcosa.»
«Non mi depisterai tanto facilmente, piccola serpe! Se i documenti di proprietà da me consultati non sbagliano, tuo nonno possedeva una carbonaia proprio da queste parti: perché mai avrebbe dovuto mettere sottosopra una foresta per seppellirvi un oggetto prezioso, a rischio di non ritrovare mai più il punto esatto, quando c’era a disposizione un rifugio ben più protetto?»
«Perché si trattava di una vena a cielo aperto, dismessa da tempo, quindi non sarebbe stata un ricovero molto accorto, mio scaltrissimo segugio» si lasciò scappare Lavinia, pur di avere l’ultima parola. Chiacchiera, chiacchiera, colombella, e mi porterai dove voglio, pensò il patrizio dissimulando la soddisfazione.
«Il carbone di queste parti non è granché, infatti. Ma fra tutto ciò che Fastia ha comprato e venduto in questi ultimi anni, da sola o con l’aiuto di Quinto, soltanto le miniere in Sardinia e questi terreni, con la villa padronale, gli ergastula dei servi e la relativa vecchia cava in disuso non sono mai stati toccati.»
«Tiri a indovinare!» alzò le spalle Lavinia.
«Non più, visto che ti ho trovata qui, quasi con le mani nel sacco. Il che mi fa pensare che tu abbia ascoltato qualcosa di più circa il covo dell’Avvoltoio. Tuttavia anche se adesso ti riuscisse di arrivarci, non ti sarebbe facile accedervi, né trasportare da sola l’eventuale malloppo.»
«Bah, voi maschi credete sempre di essere indispensabili» storse la bocca Lavinia.
«In effetti in talune circostanze, come ad esempio la riproduzione, abbiamo una certa utilità» ribatté Aurelio piccato.
«Vado errata o stai proponendomi un’...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Pallida mors
  3. Personaggi principali
  4. I. giorno
  5. II. giorno
  6. III. giorno
  7. IV. giorno
  8. V. giorno
  9. VI. giorno
  10. VII. giorno
  11. VIII. giorno
  12. IX. giorno
  13. X. giorno
  14. XI. giorno
  15. XII. giorno
  16. XIII. giorno
  17. XV. giorno
  18. XVI. giorno
  19. XVII. giorno
  20. XVIII. giorno
  21. XIX. giorno
  22. XXII. giorno
  23. XXIII. giorno
  24. XXIX. giorno
  25. XXX. giorno
  26. Glossario
  27. Luoghi principali
  28. Copyright