Nuovi Argomenti (63)
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Nuovi Argomenti (63)

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Nuovi Argomenti (63)

Dettagli del libro
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Indice dei contenuti
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Informazioni sul libro

Hanno collaborato: Giancarlo Liviano D'Arcangelo, Cristiano de Majo, Gianluigi Ricuperati, Paola Soriga, Daniele Manusia, Arnaldo Greco, Simona Vinci, Antonio Pascale, Maria Grazia Calandrone, Lodovico Terzi, Massimo Rizzante, Cecilia Mazzeo, Aurelio Picca, Simona Dolce, Antonino Penna, Giorgio Nisini, Geoffrey Brock, Federica Manzon, Eugenia Roccella, Giuseppe Conte.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852043642
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SCRITTURE

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LO STUPORE DI CUI ERAVAMO
FATTI

DIECI FRAMMENTI SULL’EVOLUZIONE

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di Maria Grazia Calandrone

1. verbo
originariamente la parola aiutò una delle diverse specie preumane
[a formare piccole società e a orientarsi nel mondo:
fu un gesto di compassione che agiva sulla biologia
fissando nella laringe di una specie due bianche pliche vocali
originariamente la parola fu un gesto morale della biologia
nel punto dove la scimmia si è staccata dall’albero non c’è
[sangue
né dolore
ma l’impronta morale di una parola
2. elevazione
vedo una prevalenza di grano e gioia
e un commosso desiderio di vivere
nella carne che pascola
tra grandi rettili
al fondo del cratere
o sta a galla sui posatoi del cielo
con veli di calcare
sulla pagina inferiore delle ali
certe figure carponi
assumono la posizione eretta per vedere il pericolo oltre
[l’erba alta
certe altre figure meno superbe
certi tranquilli animali bianchi
simili a capre, continuano a ruminare
e la natura li lavora dentro come il sangue terrestre lavora
le vene del marmo. mentre appaiono
distratti, essi comunicano attraverso il sangue
la loro obbedienza consiste
nell’appartenenza alla neve
che esalta il sapore del sangue
quelli che si alzano in piedi nella preistoria saranno
umani: snaturati e avulsi
essi sono la specie
conscia del tempo
che urge fuori dall’erba
vedo quanto somigliavamo alla terra. poi
alle capre. infine
eccoci storia, eccoci tempo
e crimine
3. crimine
io vedo sollevarsi la mia specie e vedo sollevarsi
la scheggia d’osso
mentre una vibrazione diversa
dalla parola trema dentro la mano di quello
che la solleva
e la vibra: la prima idea di crimine
un nuovo bivio della specie
tra bene e male
staccati come figurine di fango
dal fondo secco della terra
dopo,
nella storia, saremo
le uniche creature
affette da un disturbo
di specie: eliminare i simili
a causa di astrazioni,
contravvenire alla nostra origine
4. amore
vedo il proseguire nella stazione eretta e vedo il flettersi di uno
sul corpo dell’altra come su un campo arato, su una messe
[biondissima
lui dissipa la sua anima tutta nuova e tutto
il suo piccolo ambiente spirituale su un corpo di sonnambula
lui s’inchina al cospetto
di una creatura bianca dove quella
è immensa
e piena
di illusione e di grazia
è fatta
di futuro
ma quello teme d’essere punito per avere goduto la nudità di
[una dea –
bruciò
ma il cuore rimaneva intatto – freddo
come l’avvento
e la statua era immensa, finiva
dove l’aria conduceva
i suoni cardinali di uccelli anch’essi
dal cuore incombustibile
che volavano nitidi
e contrari all’azzurro
e ancora una volta – oltre
l’umana sopportazione
del dolore, ancora
una volta – amore – a questa
che ti viene consegnata da un dio selvaggio
che le divarica le vertebre, apre
la sua cassa toracica come un ventaglio, una rosa dei venti,
[già pronta
a fare un’altra carne con la sua carne
come un essere in volo ma decaduto nella forma chiusa
di un corpo (sì, lei era tutta inerme
dopo, scivolava
in un sonno artificiale
con corone di ghiaccio sulle ciglia)
5. parla la statua preverbale
io depongo ai tuoi piedi la mia corona e con essa
depongo ai tuoi piedi la mia sommossa
la commossa
mia fronte
e dai tuoi occhi mi guardano di nuovo
tutti i morti di tutte le ere, inconsapevoli di tanto amore
sei così vigile e meraviglioso nella massa del sole sei la preda
reversibile,
cacciatore con
urna, freccia e scure
tra felci bianche
fino alla muta forma
di tutte le persone che non sono state
amore è lo struggente desiderio di non finire
esalato
da corpi riversi
nella dolce imperfezione del tempo
6. cittadinanza
vederti in questa inerme prospettiva, Roma, la lacca gialla
del sole sul marmo dei mausolei e tu aperta
come una sposa
sei una faccenda stregata
una insubordinazione
del passato
sulla piana dei fori,
dove l’opera dell’uomo scintilla
come scintillano le stelle sul mare
e i volumi di tutte le arcate depositano
la loro gloria seria, appena
sgretolata, sul manto nero della nera terra
il Tempo qui non è lineare, ha la grazia dell’ultimo volo
di un gabbiano sul mare capovolto
di Massenzio, con le cinghie
che ne tengono eretta la rovina
sul fondale di fuoco della terra
poi ci siamo assuefatti ai gabbiani, a questa contraddizione
[ricevuta
dal mare, a questa muta
foce
sui celesti ricorsi
metropolitani e le lune chiare
della consolare
7. focus: materiali virtuali
je pense à toi, mia Cara, al cuore de la notte, sei Nessuno
Creatura della mente, la tua figura
non impressionerebbe la pellicola. Pure
la tua pupilla è l’ovulo dei morti
ha un colore di latte
purissimo, l’occhio
che possiede il mio cuore come il mio cuore
possiede
l’opacità del bronzo, non riflette
che la volta stellata della mente
Tu che ne sai del giorno mi diceva
guarda la gru che provvisoriamente oscura il sole le ciminiere
[lo slancio verticale della figura
ma è di me che parlava, anzi di come
lei m’immaginava. Così
rimango, vinto da quello
che sono quando vengo creato dalla sua mente
sono metallico come sangue umano
ovvero un’emissione razionale, eretta
del sangue umano della terra lanciata
fuori dal Tempo per raggiungerti, amore, chiunque tu sia
8. in uno spazio esiguo come il cuore umano
pur essendo la stella madre di un sistema, il Sole ha ricevuto dalla nostra specie un nome maschile: essendo l’oggetto più evidente e vitale del cielo, essa è stata classificata dalla mente degli abitanti della preistoria sotto specie divina – e dio, secondo la preistorica immaginazione, coltiva la felice consuetudine d’essere maschio
cani bianchi – assediati dal sole
cani quasi
fatti di sole
nella segala amara
crudi e regali e
biancosommersi
in campi di pallone
come nel primo cielo
del paradiso
cara luna, ambra bianca modificata
dalla radiazione di una stella, faglia bianca
che si è aperta nel cuore del tramonto
se il tramonto
è un cigolio di giunti e di trivelle
enormi, un trascinio di astri per i raggi ventosi efferati
affondati nel fondo profondo
del mare e se il mare
è tuttavia più piccolo del tuo dolore, cara luna
torna a essere ovale
come l’impeto della generazione, torna
come ritorna la rondella
sulla punta dell’asse terrestre
– o la terra si storce, si rovescia – o cade o vola – è lo stesso –
verso i mari di fuoco del sole, che è deserto,
inabitabile come la tua vita quando cadi di lato da un cielo
di terra e maestrale sulla malva e la polvere di Circo Massimo
mentre l’impronta di una scarpa umana
calca la bianca cenere lunare
e qualcosa si scioglie
in uno spazio esiguo come il cuore umano ed è simile
all’amore – ma corale
9. genere umano
ecco i risultati del lavoro espresso da un corpo
dopo i fenomeni dell’evoluzione della specie, ecco a che
[punto di astrazione arriva
la forza dei muscoli e l’impiego
dell’intelligenza, applicata
alle forme del mondo.
ecco come si muove la vita di un essere umano, che segni
[lascia nel suo fine
sulle bandelle di cemento e i canoni
delle belle bandiere
– e sempre quella serratura
messa a difesa
della sua messa privata, nel suo nucleo
familiare-periodico
10. scimmia lunare
la poesia non è che questo
rimbalzare del suono tra angoli bianchi
di crateri preistorici – un vuoto calcinato avvitato al fondo
dell’orecchio umano
come pelle con osso
il cantiere è la vita, l’oro della pazzia, tutta l’umana gioia
il poeta è la scimmia lunare. il suo corpo
non è mai solo: traslocato
dal favo fiottante
della parola nella cella vuota
della parola, il suo corpo
prende in sé
– fisicamente tra i suoi occhi divisi –
il centro della terra, metallo liquido
composto
dalla pena e dalla gioia
di tutti
sebbene il suo corpo sia una comune
entità chiusa, in trasparenza la sua massa risulta
sciolta all’interno per un fenomeno di combustione
mentre attinge
alla lingua comune
della specie, a quella lingua in allontanamento
come un arcobaleno lunare
che risorge dai luoghi dell’origine,
dove la lingua serve a stare insieme
per dire le cose, è solo
compassione
Roma, 22-24.11.2012

AMICA SAFFO

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di Lodovico Terzi

Parte prima. Al mare.
Vorrei veramente essere morta.
Essa lasciandomi piangendo forte
mi disse: «Quanto ci è dato soffrire,
o Saffo: contro mia voglia
io devo abbandonarti».
«Allontanati felice – risposi –
ma ricorda che fui di te
sempre amorosa.
Ma se tu dimenticherai
(e tu dimentichi!) io voglio ricordare
i nostri celesti patimenti …»
Mi fermo qui, non voglio commuovermi. E poi così diceva Saffo, non io; ma non perché lo strazio non fosse lo stesso, la perdita non fosse altrettanto dolorosa, l’estremo gesto d’amore – sii felice, «allontanati felice» – non fosse richiesto anche a me, e dovessi compierlo con tutta la generosità di cui il mio cuore fosse capace. Sì, il sentimento era lo stesso, e sarebbe bello se anche le parole lo fossero state. Ma una cosa è il canto appassionato di Saffo – quando il ricordo si fa poesia, guardando il mare o le ombre della notte – e un’altra è la scarna prosa a cui bisogna far ricorso per dirsi addio, guardandosi negli occhi, con tutto il pudore e l’imbarazzo di doversi parlare con cautela, dopo un dialogo così libero e felice com’era stato il nostro per tanti anni. Otto anni. Eravamo ancora al liceo quando ci innamorammo, Giuditta e io, e diventammo amanti.
Io ho sempre saputo, fin dalla prima adolescenza, di essere come sono: una donna attratta non dagli uomini, ma dalle altre donne. Questo è il mio eros, per cui gioisco e soffro. Naturalmente, l’amicizia non è legata al sesso, e io sono amica anche degli uomini, se sono buoni e intelligenti, così come sono amica di molte donne buone e intelligenti. Ma l’eros va oltre l’amicizia, anche se si giova dell’amicizia. Giuditta e io eravamo amiche, grandi amiche per tutti: per le nostre compagne di scuola, per i genitori di lei che mi ospitavano e mi trattavano con simpatia, per i miei fratelli, uno dei quali ebbe anche per lei un amore infelice. Eravamo le grandi amiche per antonomasia: Sofia e Giuditta. L’eros era il nostro segreto.
E forse qualcosa del nostro segreto già cominciava a trapelare, quando nella tua vita successe un fatto nuovo, ci fu un nuovo segreto. Amica mia inquieta, io intuivo, sapevo che tu non eri fatta per amare necessariamente una donna; eri fatta per amare, ed era capitato che tu amassi me. Questo rendeva ancora più prezioso, per me, il nostro incontro. Ma d’altra parte lo rendeva più fragile, mi faceva temere che un incontro diverso potesse separarci, prima o poi. Ora il momento che temevo era venuto: il tuo incontro con un uomo.
Forse chiamarlo uomo è esagerato: Marzio era ancora un ragazzo, un efebo. Giuditta lo conosceva da quando era un bambino, le loro famiglie erano amiche da molto tempo, si incontravano tutti gli anni al mare insieme a tanti altri ragazzi e ragazze di diverse età e facevano gruppo. Negli ultimi otto anni anch’io mi ero trovata spesso con loro, ospite della famiglia di Giuditta, e avevo conosciuto quel ragazzo proprio nel periodo del suo sviluppo fisico e intellettuale, dalla prima adolescenza alla prima rigogliosa giovinezza. Era asciutto, di media statura, con un viso dai lineamenti delicati, e un’espressione dolce e ironica nello stesso tempo. In conversazione era vivace e spiritoso, e aveva un modo originale di pensare e di ved...

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