L'ultimo distretto
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L'ultimo distretto

  1. 406 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

La caccia al deforme e sanguinario Jean-Baptiste Chandonne, il "lupo mannaro" accusato dell'omicidio di nove donne, sembra essersi conclusa con il suo arresto. Chandonne, però, continua a dichiararsi innocente. E se fosse vero? Se esistesse un secondo uomo? Una sottile inquietudine inizia a farsi strada in Kay Scarpetta. Mentre i vecchi amici sembrano abbandonarla, e il procuratore Jaime Berger pare addirittura sospettarla dell'assassinio dell'ultima vittima attribuita a Chandonne. Kay dovrà affrontare molti interrogativi, professionali ed esistenziali. Inizia infatti a indagare sulla morte di due sconosciuti i cui cadaveri portano i segni di orribili ustioni, tra indizi che sembrano riportarla sulle tracce del lupo mannaro e altri che la conducono altrove. La famosa patologa dovrà fare appello a tutta la sua forza interiore per non cadere nel baratro che le si è spalancato davanti e fare i conti con i fantasmi di un passato che continuano a tormentarla.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852041877

1

Capisco dal tono di voce che Lucy è spaventata. La mia brillante nipote è una donna forte, pilota gli elicotteri, fa palestra con ossessiva regolarità, lavora nelle forze dell’ordine e non si spaventa facilmente.
«Mi sento malissimo» continua a ripetere al telefono. Marino resta seduto sul letto e io non riesco a smettere di camminare.
«Non devi» le dico. «La polizia non vuole nessuno fra i piedi e ti assicuro che non vorresti essere qui nemmeno tu. Immagino che tu sia con Jo e fai bene a starci.» Glielo dico come se a me non facesse né caldo né freddo, come se non mi dispiacesse che lei non c’è, che non l’ho vista tutto il giorno. Invece mi dispiace, ma tendo a tenere lontana la gente. Non amo essere respinta, e meno che mai da Lucy Farinelli, che per me è come una figlia.
Dopo un attimo di esitazione, risponde: «In realtà sono al Jefferson».
Cerco di capire: il Jefferson è il miglior albergo della città e non vedo perché Lucy debba stare in un hotel, oltretutto tanto elegante e costoso. Mi vengono le lacrime agli occhi, ma cerco di non mettermi a piangere e mi schiarisco la voce per liberarmi del groppo che ho in gola. «Oh» mi limito a dire. «Bene. C’è anche Jo, immagino.»
«No, è dai suoi. Senti, sono appena arrivata. Ho preso una stanza per te. Ti vengo a prendere?»
«Non mi sembra che stare in hotel sia una buona idea, in questo momento.» Ha pensato a me, ha voglia di stare con me. Mi sento un po’ meglio. «Anna mi ha proposto di andare a casa sua. E penso che sia la cosa migliore. Ha invitato anche te. Ma forse ti sei già sistemata.»
«Come fa a saperlo?» mi chiede. «L’ha sentito al telegiornale?»
Dal momento che è successo tutto molto tardi, sui quotidiani la notizia non è ancora uscita, ma immagino che sia stata diffusa da radio e televisione. Non so come abbia fatto Anna a saperlo, ora che ci penso. Lucy preferisce restare in albergo, ma passerà a trovarmi più tardi. Riattacchiamo.
«Ci manca solo che la stampa scopra che sei in un albergo. Saranno tutti in allerta» mi avverte Marino corrucciato. «Dove sta Lucy?»
Gli ripeto quello che mi ha detto e rimpiango quasi di averle parlato. Mi sento ancora peggio, in trappola, come se fossi chiusa in una campana subacquea in fondo all’oceano, con la testa che mi gira, fuori da un mondo improvvisamente irriconoscibile e surreale. Sono intontita e al tempo stesso ho i nervi a fior di pelle.
«Al Jefferson?» esclama Marino. «Ma scherzi?! Ha vinto alla lotteria o cosa? Non ci pensa ai giornalisti? Che cazzo ha nella testa?»
Riprendo a fare i bagagli. Non so rispondere. Sono stufa di tante domande.
«Allora non è andata a casa di Jo» riprende Marino. «Interessante. Già. In realtà, lo sapevo che non sarebbe durata.» Sbadiglia e si passa la mano sul mento mal rasato, guardandomi mentre prendo i vestiti che mi servono per lavorare e li appoggio su una sedia. Devo riconoscere che Marino è sempre stato equilibrato e comprensivo, da quando sono uscita dall’ospedale. Per lui è difficile comportarsi bene anche nelle circostanze migliori e certamente queste non sono fra le più favorevoli. È teso come una corda di violino, non ha dormito, ha preso troppi caffè e mangiato male. In più, io gli impedisco di fumare in casa. Era prevedibile che cominciasse a dare segni di cedimento, prima o poi, e che ritornasse irascibile e scontroso come suo solito. Osservo la metamorfosi e stranamente mi sento sollevata: ho bisogno di normalità, bella o brutta che sia. Comincia a parlare di Lucy e di come ha reagito ieri sera, quando mi ha trovato davanti a casa mia con Jean-Baptiste Chandonne.
«Guarda che trovo più che comprensibile che le sia venuta voglia di ammazzarlo» commenta. «Ma è proprio per questo che fai l’addestramento. Non importa se hai davanti tua zia o tuo figlio: devi regolarti come ti hanno insegnato. Lei invece non l’ha fatto. Ma proprio per niente. È uscita di testa.»
«Anche tu esci di testa, in certe situazioni. Ti ho visto con i miei occhi» gli ricordo.
«Be’, secondo me a Miami hanno sbagliato a farla lavorare sotto copertura.» Lucy lavora a Miami ed è qui, fra l’altro, per le vacanze di Natale. «A volte, a furia di stare con gentaglia, si diventa come loro. Lucy ha sete di sangue. Ha il grilletto facile, capo.»
«Non dire così.» Mi accorgo di aver messo in valigia troppe paia di scarpe. «Come ti saresti comportato tu se fossi arrivato per primo, ieri sera?» Mi interrompo e lo guardo in faccia.
«Almeno per un nanosecondo avrei cercato di capire come stavano le cose, prima di prendere la pistola e puntargliela addosso. Quel bastardo non vedeva più un cazzo perché gli avevi gettato la formalina negli occhi, gridava come un ossesso, non era armato e non era in grado di nuocere a nessuno. Questo era evidente. Come era evidente che tu ti eri fatta male. Perciò io, al suo posto, avrei chiamato un’ambulanza. Invece a Lucy non è nemmeno passato per l’anticamera del cervello. È troppo aggressiva, capo. E no, non l’ho voluta far entrare in casa, con tutto quello che era successo. Per questo l’abbiamo interrogata al commissariato. Abbiamo raccolto la sua deposizione in un luogo neutro, perché si calmasse.»
«Il commissariato non è un luogo neutro» preciso.
«Sempre meglio della casa in cui a momenti facevano fuori la zia Kay.»
Non ha torto, ma il suo sarcasmo mi innervosisce.
«Comunque sia, devo dirti che mi spaventa sapere che è sola in albergo» aggiunge, passandosi di nuovo la mano sulla faccia. Per quanto si atteggi a duro, so che vuole molto bene a Lucy e che farebbe qualunque cosa per lei. La conosce da quando aveva dieci anni e lui le parlava di camion, motori e armi, assecondando tanti suoi interessi, cosiddetti “maschili”, per cui adesso invece la critica. «Ti accompagno da Anna e poi magari passo a trovarla. Certo che, quando esprimo dei timori io, nessuno mi dà retta» dichiara seguendo linee di pensiero tutte sue. «Tipo Jay Talley. Naturalmente non sono affari miei, ma secondo me è un emerito stronzo.»
«Ma se mi ha aspettata in ospedale tutto il tempo!» Lo difendo per l’ennesima volta, nonostante l’aperta gelosia di Marino. Jay Talley è un agente dell’Atf che lavora per l’Interpol. Non lo conosco molto bene, ma ci sono andata a letto a Parigi quattro giorni fa. «Questo vuol dire che è rimasto lì tredici o quattordici ore» continuo, mentre Marino alza gli occhi al cielo. «Non mi sembra un comportamento da stronzi.»
«Ma sei fuori?» esclama Marino. «Cristo santo!» Ha lo sguardo pieno di risentimento. Disprezza Jay Talley dal primo momento che l’ha visto, in Francia. «È incredibile! Ti ha fatto credere che è restato in ospedale tutto il tempo? Guarda che non ti ha aspettata per niente: ti ha raccontato una balla. Ti ci ha portato sul suo bel cavallo bianco e poi è tornato qui. A un certo punto ha chiamato per chiedere quando ti dimettevano ed è venuto a prenderti.»
«Mi sembra più che ragionevole.» Non gli lascio capire che sono sconcertata. «Non era il caso di restare lì a far niente. Non mi ha detto che è rimasto tutto il tempo in ospedale: sono io che l’ho dato per scontato.»
«Sì, perché lui te l’ha fatto credere. Non ti dà fastidio che ti abbia lasciato pensare una cosa non vera? A casa mia, questo si chiama mentire. Che cosa c’è?» Cambia tono improvvisamente. C’è qualcuno sulla porta.
Entra una poliziotta in divisa, sulla targhetta di riconoscimento leggo “M.J. Calloway”. «Pardon.» Si rivolge a Marino. «Scusi tanto, capitano, non credevo che fosse qui.»
«Be’, adesso lo sa.» La guarda male.
«Dottoressa Scarpetta?» I suoi occhi sembrano palline da pingpong, che passano veloci da Marino a me e viceversa. «Le devo fare un paio di domande a proposito del barattolo di formulina…»
«Formalina» la correggo a bassa voce.
«Sì, certo» borbotta. «Okay, mi può dire esattamente dove si trovava il barattolo, quando l’ha preso in mano?»
Marino rimane sul letto, come se fosse normale per lui starci seduto sopra. Cerca il pacchetto di sigarette nel taschino.
«Sul tavolino del soggiorno» rispondo alla Calloway. «L’ho già detto.»
«Sì, ma dove di preciso? Ho visto che è un tavolino basso ma piuttosto grande. Mi dispiace disturbarla, mi creda, ma stiamo cercando di ricostruire l’accaduto, e più tempo passa più è difficile ricordare i dettagli.»
Marino si fa scivolare in mano una Lucky Strike. «Agente Calloway» non la guarda nemmeno in faccia «da quanto tempo è nell’Investigativa? Non mi pare di ricordarla nell’A Squad.» Marino è a capo di una squadra con questo nome che si occupa dei crimini violenti.
«Non sappiamo dove fosse esattamente il barattolo, capitano. Soltanto questo.» Ha le guance in fiamme.
Probabilmente hanno mandato lei a chiedermelo perché pensavano che mi disturbasse meno ricevere in camera mia una donna che un uomo. Forse l’hanno fatto per questo, o forse perché nessun altro aveva voglia di parlare con me.
«Guardando il tavolino, sull’angolo anteriore destro» le dico. Ci ho pensato e ripensato. Non ricordo niente con chiarezza: è tutto confuso e irreale.
«Più o meno dov’era lei quando gli ha buttato il liquido negli occhi?» mi domanda.
«No, io ero dall’altra parte del divano, vicino alla porta scorrevole. Mi inseguiva e io, a un certo punto, mi sono trovata lì» spiego.
«E subito dopo è uscita di casa?» mi chiede prendendo appunti sul taccuino.
«Sono passata per la sala da pranzo» preciso. «Dove avevo posato la pistola poco prima. Avevo fatto male a lasciarla lì, lo riconosco.» I pensieri vagano per conto loro. Mi sento come se fossi vittima del jet-lag. «Ho premuto il pulsante dell’allarme e sono uscita dalla porta principale con la pistola, la Glock. Sono scivolata sui gradini ghiacciati e mi sono fratturata il gomito. Con una mano sola non riuscivo a tirare indietro il carrello.»
La Calloway continua a prendere appunti. Il mio è un racconto stanco e sempre uguale. Sento che, a furia di ripeterlo, potrei diventare irrazionale e nessun poliziotto su questa terra mi ha mai visto irrazionale.
«Non ha sparato?» Mi guarda e si bagna le labbra.
«Non riuscivo a mettere il colpo in canna.»
«Non ha nemmeno provato a fare fuoco?»
«Non capisco. Le ho detto che non riuscivo a tirare indietro il carrello.»
«Ma ci ha provato?»
«In che lingua glielo deve spiegare?» sbotta Marino fulminandola con due occhi che mi fanno venire in mente i mirini laser. «Non riuscendo a tirare indietro il carrello, non poteva sparare. È chiaro?» Lo ripete in modo lento e arrogante. «Quanti colpi c’erano nel caricatore? Diciotto?» mi chiede. «È una Glock 17, diciotto colpi nel caricatore e uno in canna. Giusto?»
«Non lo so» rispondo. «Probabilmente, diciotto no. Anzi, sicuramente no. È difficile inserirli tutti perché la molla è dura. Quella del caricatore, intendo.»
«Okay, ho capito. Ti ricordi l’ultima volta che l’hai usata?» mi chiede.
«Quando sono andata al poligono a esercitarmi. Due o tre mesi fa.»
«Tu pulisci sempre la pistola dopo che vai al poligono, vero?» È un’affermazione, più che una domanda. Marino conosce le mie abitudini.
«Sì.» Sono in piedi al centro della mia camera e sbatto le palpebre. Ho un terribile mal di testa e la luce mi fa bruciare gli occhi.
«Lei ha visto la pistola, agente Calloway? L’ha esaminata, vero?» La fulmina con lo sguardo. «Allora, che problema c’è?» La tratta come una deficiente. «Mi dica che cosa ha trovato.»
La vedo esitante e capisco che non vuole rispondere davanti a me. La domanda aleggia nell’aria per un po’, incombente come un temporale. Decido di mettere nella borsa due gonne, una grigia e una blu.
«Quattordici colpi nel caricatore» risponde la Calloway in tono militaresco, da automa. «Nessuno in canna. Il carrello non era stato tirato. Sembra pulita.»
«Molto bene. Abbiamo accertato che la dottoressa Scarpetta non ha tirato indietro il carrello e non ha sparato. Adesso che cosa vogliamo fare? Continuiamo a menarcela con questa storia o possiamo passare ad altro?» È sudato e puzza.
«Senta, non ho altro da aggiungere» intervengo io sul punto di scoppiare a piangere. Tremo, ricordandomi improvvisamente l’odore nauseabondo di Chandonne.
«Ma come mai il barattolo era a casa sua? E di che sostanza si tratta, con esattezza? È roba che usa in obitorio, giusto?» L...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. L’ultimo distretto
  4. Prologo. Dopo il fatto
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Capitolo 12
  17. Capitolo 13
  18. Capitolo 14
  19. Capitolo 15
  20. Capitolo 16
  21. Capitolo 17
  22. Capitolo 18
  23. Capitolo 19
  24. Capitolo 20
  25. Capitolo 21
  26. Capitolo 22
  27. Capitolo 23
  28. Capitolo 24
  29. Capitolo 25
  30. Capitolo 26
  31. Capitolo 27
  32. Capitolo 28
  33. Capitolo 29
  34. Capitolo 30
  35. Capitolo 31
  36. Capitolo 32
  37. Capitolo 33
  38. Capitolo 34. Due settimane dopo
  39. Capitolo 35. Alcuni minuti dopo
  40. Copyright