Nuovi argomenti (23)
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  1. 352 pagine
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Nuovi argomenti (23)

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Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Andrea Manzella, Andrea Barzini, Attilio Scarpellini, Alessandro Piperno, Abbiamo cinquantanni, Arnaldo Colasanti, Raffaele Manica, Emanuele Trevi, Lorenzo Pavolini, Roberto Canò, Mario Desiati, Aurelio Picca, Gian Mario Villalta, Massimo Gezzi, Andrea Gibellini, Alberto Pellegatta, Flavio Santi, Riccardo D'Anna, Renzo Paris, Sebastiano Mondadori, Linda Giuva, Marzio Siracusa, Alexander Stille, Lucia Sgueglia, Franco Pinna, Luca Rossomando, Marco Archetti, Alessandro Leogrande.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852041969
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EUROPA:
NON PIÙ PENE D’AMOR PERDUTE

Andrea Manzella

1. Il 19 di giugno a Salonicco, il presidente Giscard ha presentato ai capi di Stato e di governo dell’Unione riuniti in Consiglio, il progetto di una Costituzione per l’Europa. È il progetto su cui dal 28 febbraio 2002 al giugno-luglio 2003 ha lavorato una “Convenzione” formata da 105 componenti. La maggioranza dei “convenzionali” era fatta di parlamentari, 62 : 16 del parlamento europeo; 36 dei parlamenti nazionali; 26 dei parlamenti dei 13 Stati che stanno per entrare nell’Unione. I rappresentanti dei governi erano 28 (15+13).
Questa prevalenza parlamentare, in diretta rappresentanza dei popoli europei, ha fatto parlare della Convenzione come di una “assemblea con poteri costituenti”. Certamente essa (che ha ripreso e confermato il modello e la denominazione della Convenzione che ha elaborato la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000) marca una forte discontinuità con il passato. La revisione dei Trattati dell’Unione – quelli che, secondo la Corte di giustizia di Lussemburgo, già ora contengono gli elementi di un vero e proprio ordinamento costituzionale – avveniva finora con il classico metodo diplomatico del diritto internazionale attraverso una Conferenza Intergovernativa. L’ingresso così consistente dei parlamenti nell’elaborazione del progetto segna il punto del tempo preciso del distacco dal diritto internazionale al diritto costituzionale.
Siamo tuttavia, è bene non dimenticarlo, in una fase sia pure “alta” per qualificazione politica e istituzionale, ma pur sempre istruttoria. Lo stesso progetto che pur istituzionalizza il “metodo Convenzione” come procedura normale nella revisione dei “trattati costituzionali”, non osa andare più avanti. La parola finale spetterà pur sempre ad una Conferenza Intergovernativa in cui, fuori parlamenti (che saranno ovviamente rimessi in campo alla fine, in sede di ratifica) decideranno appunto i governanti degli Stati.
Non meravigli dunque una contraddizione che è apparsa evidente a Salonicco. Il Consiglio ha, innanzitutto, riempito di elogi il progetto (“esso rappresenta un passo storico verso la realizzazione degli obiettivi dell’integrazione europea”). Ha, poi, minuziosamente elencati i risultati raggiunti (“avvicina la nostra Unione ai suoi cittadini; rafforza il carattere democratico della nostra Unione; agevola la capacità decisionale della nostra Unione specialmente dopo l’allargamento; potenzia la capacità della nostra Unione di agire come una forza coerente e unita sulla scena internazionale; risponde efficacemente alle sfide che la globalizzazione e l’interdipendenza creano”). Ma, alla fine, il Consiglio è arrivato a quattro conclusioni procedurali.
Primo: “licenziata” la Convenzione (c’era infatti qualche velleità, forse ragionevole, di un droit de suite dei successivi lavori).
Secondo: un po’ freddamente (ma agli inglesi sarebbe piaciuta una formula ancora più fredda) “ha deciso che il testo di progetto di trattato costituzionale è una buona base su cui avviare la Conferenza Intergovernativa”.
Terzo: richiamata la “normale” procedura di revisione del Trattato (art. 48) ha invitato la presidenza italiana a convocare la Conferenza entro l’ottobre 2003.
Infine, ha posto un termine elastico ma anche perentorio per l’approvazione del trattato costituzionale: “il più presto possibile e in tempo utile affinché sia conosciuto dai cittadini europei prima delle elezioni del Parlamento europeo del giugno 2004”.
Tutto come prima, allora? La Convenzione luogo shakespeariamente di “pene d’amor perdute”? No, nella storia politica e nell’esperienza giuridica dell’Unione tout se tient. E bisogna portare attenzione più ai processi evolutivi che ai risultati di conformità al passato.
La forte impronta interparlamentare della Convenzione; la negoziazione, anche essa di tipo parlamentare più che diplomatico, che in essa si è svolta; l’intenso dialogo pubblico che essa ha sviluppato in itinere con la società civile europea, e dentro di questa con l’opinione universitaria e dei centri di ricerca: tutto questo conduce ad assegnare ai lavori della Convenzione una qualificazione materialmente “costituente”. E dunque un valore democratico sicuramente superiore a quello della Conferenza Intergovernativa che la seguirà. Questa, certo, potrà “legalmente” contraddire i risultati raggiunti, ma a prezzo di violare la “legittimità” sostanziale di quel lavoro interparlamentare.
È la difesa del plusvalore democratico del progetto della Convenzione, più che della bontà tecnica dei compromessi raggiunti, che spetterà dunque alla presidenza italiana (1° luglio - 31 dicembre 2003).
2. Ma il progetto di Costituzione merita davvero gli elogi (sia pure “proceduralmente” precari, come si è visto) ricevuti a Salonicco o non piuttosto hanno ragione i tre principali ordini di critiche? Quelle di chi dice che il progetto non contiene nulla di nuovo, ma solo una sistemazione razionalizzata dell’esistente. Quelle di chi dice (come l’Economist, con clamorosa copertina) che questa Costituzione non stabilizza nulla ma si risolve al contrario in un perpetuo movimentismo costituzionale. Quelle di chi dice (esigua minoranza europea che solo in Italia ha attuale voce nel governo) che vi sono in questo progetto le fondamenta di un super-Stato federale.
Assai difficile dimostrare che queste critiche abbiano una qualche ragione.
La critica della “non novità” sembra straordinariamente incapace di cogliere le evidenti innovazioni istituzionali del progetto (basta ricordare le più vistose: la previsione di un ministro europeo degli affari esteri; di un Consiglio dei ministri legislativo, vera “seconda Camera” rispetto al parlamento europeo; l’attribuzione all’Unione di personalità giuridica; l’introduzione di un presidente del Consiglio di lunga durata…). Ma il vero punto è un altro. Ed è che il progetto è innovativo anche quando non crea nulla di nuovo… Questa apparente contraddizione è legata agli inevitabili effetti novativi di qualunque opera giuridica di razionalizzazione, di sgombero di sovrastrutture, di semplificazione di strumenti e procedure, persino di contenimento di materiali giuridici di diversa provenienza. Il progetto ha fatto questo: nell’ordine delle competenze (che chiarifica), della struttura a pilastri (che elimina), degli atti di decisione (che standardizza), delle politiche (che definisce). L’agnizione costituzionale ha sempre effetti liberatori. È infatti come se un principio di libera circolazione di concetti e di forme avesse ora libero campo in un ordinamento fin qui segmentato. E quindi con letture diverse di istituti in nuovo, più libero contesto. Ancora più notevole la possibilità di sviluppi innovativi nel recupero, nel progetto normativo, di istituti e principi fin qui di natura giurisprudenziale (come quello, basilare, del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale).
Semmai, su questo punto, il problema che già si pone in dottrina è quello di una possibile novazione negativa. Della implicita soppressione, cioè, di quanto – di giurisprudenziale, di consuetudinario – non recepito nella futura Costituzione scritta. Opinione eccessiva sia per la possibilità di coabitazione in ogni ordinamento del diritto scritto con quello non scritto; sia per il rispetto dovuto alle scelte del legislatore “costituente” delle norme da assumere nel paradigma costituzionale.
La seconda critica basata sulla “perpetual constitutional revolution” non può essere considerata, a ben vedere, una vera critica. Già nelle temperie della Repubblica di Weimar, Rudolf Smend aveva intuito che nel moto perpetuo delle moderne società complesse una Costituzione poteva assolvere solo al compito, apparentemente umile, ma in realtà ambizioso e difficile, di essere l’”ordinamento giuridico del processo di integrazione”. È assurdo pensare che questo concetto abbia perso validità nel mondo nostro delle interdipendenze globali, della “società liquida”. E, soprattutto, in un ambito giuridico, quale quello comunitario, che è marcato dall’idea di una unione progressiva, di un processo, appunto, di integrazione “sempre più stretto” ma destinato, forse, a non finire mai.
Il vero “settlement” costituzionale, in questo contesto può essere solo dato dalla stabilizzazione degli indirizzi di integrazione, delle guide-lines del suo dinamico andamento. La certezza del diritto comunitario può provenire più dalla certezza e chiarezza di tendenza di strategiche clausole evolutive che non dalla illusione di istituzionalizzare assetti fatalmente destinati a mutare.
Per quanto, infine, riguarda la terza critica: l’ossessione del “Super-Stato”, basti pensare a tre dati. Il primo è che le competenze esclusive dell’Unione sono solo quattro: politica monetaria, politica commerciale, unione doganale, conservazione delle risorse biologiche del mare (politica comune della pesca). Il secondo è che la competenza generale (ma, ovviamente, anche l’obbligo) per l’esecuzione amministrativa delle politiche dell’Unione spetta agli Stati membri. Il terzo è che è ora sancito nel progetto il diritto di ciascuno Stato membro di ritirarsi volontariamente dall’Unione.
Naturalmente, questi dati non significano che l’Unione è un profeta disarmato in balia dei capricci degli Stati membri. Significano soltanto che come è scritto nella stessa epigrafe principale del progetto: “l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri legata alla loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie regionali e locali”. E significano anche che le tre principali critiche al progetto sono prive di solide basi.
Gli elogi hanno dunque molte probabilità di sopravvivere a critiche di questo genere. Ma in che misura il progetto può dirsi un progetto di Costituzione?
3. Da sempre nelle tradizioni costituzionali europee chiediamo ad una Costituzione tre risultati: l’organizzazione del potere in una comunità politica; un sistema di garanzie dei diritti e dei doveri delle persone che compongono quella comunità; un legame tra l’uno e l’altro aspetto: quello del potere pubblico, quello delle libertà. È fatta di questi elementi l’unità politica di cui una Costituzione è allo stesso tempo espressione e anche ultimo collante.
Vediamo innanzitutto come si organizza il potere pubblico europeo. La specialità dell’ordinamento europeo, fin dalle sue prime origini, è quella di realizzare risultati costituzionali attraverso una tecnica di intarsio delle sue procedure e delle sue istituzioni sovrastatuali con le procedure e le istituzioni dei suoi Stati membri.
Il parlamento europeo, la Commissione, la Corte di Giustizia, il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo, il Consiglio dei ministri: insomma le istituzioni che formano quello che i Trattati chiamano il “quadro istituzionale unico”, sono istituzioni di un ordinamento posto ad un livello diverso ma non separato rispetto agli ordinamenti nazionali. Così accade per le fonti del diritto europeo che, per effetto diretto o indiretto, “entrano” con piena efficacia nei sistemi giuridici nazionali.
Si crea in questo modo un blocco di costituzionalità. Nel quale le costituzioni nazionali risultano ormai “zoppe” e illeggibili se non sono completate dalla cornice istituzionale sovrastatuale europea. E nel quale, però, le istituzioni europee sono sprovviste di vita autonoma se non si appoggiano agli ordinamenti costituzionali nazionali.
È la vicenda che si può facilmente constatare guardando alla maniera con cui lavora la Commissione europea in stretto contatto con una miriade di comitati rappresentativi delle amministrazioni pubbliche nazionali. O ai legami del parlamento europeo con i parlamenti nazionali, in una rete parlamentare europea che si va facendo sempre più coerente: e ora cerca interconnessioni con le assemblee elettive sub-statuali, regionali e locali. O ancora ai meccanismi di decisioni preventive che legano la Corte di giustizia di Lussemburgo con gli ordinamenti giudiziari nazionali e con gli stessi tribunali costituzionali degli Stati membri. O, per finire, ai ministri nei Consigli europei: che sono gli stessi che, nei Consigli dei ministri nazionali, devono poi attuare le politiche co-decise a Bruxelles…
Questa compenetrazione di ordinamenti è, per così dire, orizzontale. Non crea gerarchie e verticalità. Si spiegano così le difficoltà incontrate dalla Convenzione quando dall’ottimo lavoro svolto sul “corpo” dell’Unione (precisando competenze, eliminando barriere settoriali, semplificando e standardizzando strumenti e procedure) è passata alla “testa” dell’Unione immaginando risposta alla domanda: “chi comanda nell’Unione europea”?
Finora la migliore descrizione del fulcro decisionale dell’Unione era stato quello di “insieme sovrano”. Una combinazione, cioè, di un potere “neutro” sovrastatuale (la Commissione) cui spetta il monopolio dell’iniziativa normativa nell’interesse comune europeo; di un potere collegiale intergovernativo (il Consiglio dei ministri) cui spetta la rappresentanza degli Stati membri; di un potere di rappresentanza popolare diretta (il parlamento europeo) eletto pro quota dai popoli europei. È da questo “metodo comunitario” di insieme, sostanzialmente paritario, che scaturiscono le decisioni dell’Unione.
Nella Convenzione si è imposta l’esigenza di sciogliere in qualche modo questo “insieme” per farne emergere una figura di sintesi, di rappresentanza esterna, e anche di garanzia nelle crisi (commissaire aux crises). Nell’Unione aleggia infatti, da sempre, l’esigenza di diritto internazionale che fu un giorno ruvidamente sintetizzata da Henry Kissinger con la domanda: “quale numero di telefono devo fare se voglio parlare con l’Unione europea?”
Secondo la Convenzione, quel numero di telefono dovrà essere quello di un presidente-chairman eletto a maggioranza qualificata dal Consiglio europeo per un periodo di due anni e mezzo, rinnovabile una volta. Un presidente che non deve cumulare cariche nazionali. Finora, come si sa, il presidente del Consiglio europeo (che è il Consiglio dei capi di Stato e di governo che si riunisce solo quattro volte l’anno, da non confondersi con l’ordinario Consiglio dei ministri europei) era, a turno semestrale, per ordine alfabetico, il premier di uno Stato membro. Fu così che dal 1° luglio al 31 dicembre 2003 l’Unione ha la ventura di essere presieduta dall’on. Berlusconi. Fu così che questa coincidenza è stata da molti ambienti europei considerata come il miglior argomento a favore della scelta “elettiva” e di lunga durata che ha fatto la Convenzione.
In realtà – al netto dei rilievi europei sullo stile della presidenza italiana – si tratta di scelta assai discutibile per tre ragioni. Primo, perché si sovrappone alla presidenza della Commissione che ha già una prassi di rappresentanza dell’Unione in quanto “potere neutro”, di durata pari alla legislatura, sottratto di per sé alle varianti elettorali. Secondo, perché duplica in un certo senso, la figura del ministro degli esteri dell’Unione, a cavallo tra Consiglio e Commissione, forse l’innovazione istituzionale più interessante dell’intero progetto. Terzo, perché carica di compiti “continuativi” e “normali” quel Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo: la cui migliore caratteristica nell’ultimo decennio è stata invece quella di provocare salti in avanti, “rotture virtuose” dell’ordinamento dell’Unione (non organo, insomma, di ordinaria amministrazione).
Si aggiunge a questo una certa delusione per la persistenza nel progetto di alcune aree (politica estera, di difesa, di fiscalità) in cui gli Stati decidono all’unanimità. E dunque con un potere di veto implicito per ciascuno di essi, per piccolo che sia.
In realtà, per le materie economiche l’unanimità è ingiustificata (salvo che per la protezione di posizioni di privilegio di Stati piccoli e grandi…) se non inconciliabile con la stessa politica monetaria comune. Diverso è il discorso per la politica estera e di difesa dove come ha ben detto Giscard d’Estaing “la politica non si fa con i voti ma con la convergenza di iniziative”. È, insomma, velleitario immaginare un assolutismo maggioritario in un ordinamento che reca sul suo stesso frontespizio la formula “l’Unione rispetta l’identità nazionale dei suoi Stati membri”. Il che vuol dire che questo nucleo identitario potrà certamente essere ridotto e severamente definito (per esempio, dovrebbe essere reso difficile usare il diritto di veto per le “quote latte” o per il c.d. “mandato di cattura europeo”, come ha fatto l’attuale governo italiano). Ma esso non è di per sé eliminabile in forza della stessa concezione pluralistica dell’Europa.
Il secondo elemento fondante di una Costituzione è, si è detto, la garanzia dei diritti delle persone che compongono la comunità politica di riferimento. Il progetto della Convenzione ha dato pieno valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali degli europei, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, dopo essere stata elaborata, per la prima volta, con “metodo convenzionale” (appunto, dalla prima Convenzione, “inventata” nel vertice di Colonia del 3-4 giugno 1999).
Con questa carta, l’Unione ha compiuto un passaggio storico: dalla integrazione attraverso il mercato alla integrazione attraverso i diritti. Di più: è divenuta la prima regione multistatale del mondo fondata su valori “non commerciabili”. La sua stessa politica comune del commercio internazionale (una delle quattro competenze esclusive dell’Unione) ne è nettamente influenzata, in una sorta di scelta “etica” dei partner.
Ma il recepimento della Carta ha soprattutto risvolti profondi nella stessa concezione della cittadinanza europea. Sia per la ricchezza di profili garantiti di cui si arricchisce lo status individuale: “giustiziabili” di fronte alla Corte di Lussemburgo. Sia per la affermazione di diritti di cittadinanza collettiva da far valere contro gli Stati membri che violini i principi di democrazia, di pluralismo, di Stato di diritto. Una sorveglianza circolare, reciproca fra gli Stati è infatti concepita per “isolare” e sanzionare lo Stato che si renda colpevole di violazione di quei diritti e di quei principi.
Di fronte all’”insieme sovrano” di cui si è detto (potere pubblico europeo più potere pubblico nazionale) vi è dunque una sfera di posizioni soggettive, individuali e collettive, che il cittadino europeo può far valere sia nei confronti dell’Unione sia nei confronti del suo proprio Stato.
Il terzo elemento di integrazione costituzionale è nell’affermazione del legame tra potere pubblico e libertà. Questo legame è nell’affermazione del principio democratico che si trasmette all’Unione dagli Stati-nazione (fin qui considerati gli unici “contenitori” di democrazia). “Il funzionamento dell’Unione si fonda sul principio di democrazia rappresentativa”: dice, con formula nuovissima se applicata ad una Costituzione sovranazionale, il progetto di Costituzione europea. Il che significa che anche l’Unione si basa sul principio di sovranità popolare che nella democrazia rappresentativa trova la sua espressione storica più piena. Questa constatazione ne trascina con sé un’altra, essenziale. Ed è che il “popolo” europeo – quello di cui tanti negano la stessa esistenza politica – è in realtà quel “popolo-di-elettori” che si esprime nella rete di assemblee elettive dell’Unione (sempre più concatenate, come si è visto, tra di loro).
La stessa ultima decisione di “costituzionalizzare” la simbologia dell’Unione – la bandiera a 12 stelle, l’inno di Beethoven, la festa in ricordo della Dichiarazione Schuman-Monnet del 9 maggio 1950 – è la valorizzazione giuridica di segni ormai “popolari” non solo in Europa: nel senso giuridico di appartenenza alla comunità politica europea.
C’era scritto in quella dichiarazione dovuta alla geniale “invenzione comunitaria” di Jean Monnet e al coraggio istituzionale del ministro degli esteri Schuman che la fece propria: “L’Europa non si farà d’un tratto, né in una costruzione globale: essa si farà con delle realizzazioni concrete, creando anzitutto una solidarietà di fatto”.
Di quelle lontane parole tutto è attualissimo 53 anni dopo. E serve ad evitare precoci entusiasmi o ansiosi pessimismi su quella che sta per chiamarsi “costituzione europea”. Tre avvertenze sono in particolare da ricordare sempre. La prima è nel saper cogliere la natura processuale dell’integrazione europea: che non esclude il coraggio di salti in avanti ma neppure la pazienza di lenti consolidamenti. La seconda avvertenza è nel capire che una costituzione europea non può essere mai calata dall’alto, “octroyeé”: ma risolversi piuttosto in una agnizione giuridica di quelle “realizzazioni concrete”, di quelle “solidarietà di fatto” che già sono, implicite e sotterranee, nella quotidiana integrazione “non detta” dei ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi argomenti (23)
  3. DIARIO
  4. ARGOMENTI
  5. ABBIAMO CINQUANTANNI
  6. CRONACA DALLA CITTA` DI DIO
  7. SCRITTURE
  8. CANTIERE
  9. RITORNANO I BANDITI
  10. GIORNALI DI BORDO
  11. Copyright