Memorie del mio tempo
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Memorie del mio tempo

La mia gioventù

,
  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
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Memorie del mio tempo

La mia gioventù

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Informazioni sul libro

Come si arriva, a soli trentatré anni, a governare un importante paese del Medio Oriente? Muhammad al-Qasimi, sceicco dell'Emirato di Sharjah, racconta in queste pagine la sua formazione di uomo, di intellettuale, di politico, documentando dall'interno le congiure di palazzo e la difficile costruzione degli Emirati Arabi Uniti. Si scoprono in queste pagine frammenti affascinanti quanto sconosciuti della storia della Penisola Araba, dai sabotaggi antibritannici all'ascesa dei sultanati del petrolio. Fine letterato, l'autore racconta con ironia e partecipazione anche gli episodi più drammatici della propria vicenda umana pubblica e privata, come gli attentati che misero in pericolo la sua vita negli anni Sessanta, fino all'ascesa al potere. «Ho scritto questo libro per raccontare ventinove anni di storia dei miei cari e del mio Paese, per lasciare una testimonianza ora che sono arrivato a cogliere la vera essenza delle cose», «per rammentare quello che è davvero utile» dice l¿autore nella prefazione alle sue memorie. è davvero utile e anche piacevole leggere le sue parole, quasi si stesse ascoltando la sua voce suadente spiegare davanti agli occhi del lettore tre decenni di storia in gran parte ignorata, ma fondamentale nel dare forma al mondo in cui viviamo. Le memorie dello sceicco Muhammad al-Qasimi diventano così un documento eccezionale per comprendere le radici di tanti fenomeni geopolitici contemporanei e per conoscere un universo segreto, narrato con un insospettabile sense of humour.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852044694

1

L’INFANZIA

Vidi la luce una domenica, 14 Joumâdâ primo 1358 dell’egira1 (6 luglio 1939). Ancora prima di compiere 5 anni iniziai a prendere coscienza degli eventi che accadevano intorno a me. Era la primavera del 1944 e si era ancora in piena Seconda guerra mondiale. Le truppe britanniche e i loro aerei si trovavano allora nel campo militare che dipendeva dalla base aerea di Sharjah.
Le forze armate statunitensi avevano mandato i propri contingenti a Lydda (Lod) in Palestina, a Habbaniyyah in Iraq, nel Bahrein e, appunto, a Sharjah, per svolgere alcune esercitazioni militari prima di raggiungere l’Africa del Nord. All’inizio del 1944, una brigata del genio militare Usa sbarcò a Sharjah e costruì, a est del campo britannico, un centro di addestramento per le truppe, che arrivarono poi all’inizio di giugno. Mio padre era all’epoca il vicegovernatore di Sharjah. In assenza del governatore, suo fratello, al momento in viaggio in India, fece una visita di cortesia al comandante Lucien Clay, che rividi in seguito a New York, nel 1974, quando era direttore della Banca Lehman Brothers. Quest’ultimo ci fece visitare il campo, quindi ci invitò a salire con lui a bordo del DUKW, il suo veicolo anfibio. Mi sedetti tra mio padre e il comandante. Mio fratello maggiore Khalid, il suo amico ‘Umrân ibn Taryam e un soldato americano presero posto nel retro. Il veicolo attraversò la città di Sharjah, scese nella cala ed entrò nel mare, quindi tornò alle ruote e tagliò la terra d’al-Shûsh, una lingua di sabbia che divide la cala dal mare aperto. Poi, di nuovo nel mare mosso: sbatteva contro le onde a ritmo frenetico. Una volta raggiunto il largo, ebbi un attacco improvviso di mal di mare e vomitai sull’uniforme del comandante, che si infastidì e invertì la rotta verso Sharjah, rinunciando così a proseguire «la crociera».
L’8 settembre 1944, un bombardiere Liberator II serie AL 550 della Royal Air Force (l’aeronautica britannica) si schiantò in mare nelle vicinanze del villaggio di Al-Layyah a Sharjah mentre tentava di prendere quota. L’equipaggio si salvò. Mi recai sulla spiaggia con mio fratello Khalid. Le onde avevano trasportato matite colorate che provenivano dall’aereo e lui le raccolse per farmene dono.
La nostra casa
Nella casa di fianco alla nostra c’era quella che lo zio, lo sceicco Sultan ibn Saqr al-Qasimi, aveva riservato a sua moglie, Latifah bint Said. I due edifici erano separati da una siepe in rami di palma, con una porta comune. Non mi ricordo però né dello zio né della sua famiglia, e neppure della morte delle sue due figlie, ‘Azzah e ‘Alyâ’. È invece ancora chiarissimo nella mia memoria il varco che io e i miei due cugini, Abdallah, il maggiore, e Su,ûd, il minore, avevamo aperto nella siepe e utilizzavamo per passare da una casa all’altra. Lo guardavo sempre con timore, aspettandomi, forse, di vedere spuntare dai bagni posti sul lato della casa il djinn2 dalle lunghe gambe, sottili come degli attizzatoi mahâmîs, che correva verso la camera delle mie cugine per ucciderle. Mio zio, per andarsene via al più presto da quella casa infestata, ne fece costruire un’altra con rami di palma.
Mio padre aveva un seguito imponente che comprendeva membri della sua famiglia, vicini, schiavi e domestici. Gli ospiti affluivano per assistere alle sue due riunioni (majlis): una per il grande pubblico e l’altra, più piccola, riservata ai notabili. Ogni giorno, a casa, venivano consumati abbondanti pasti. I domestici entravano e uscivano da tre porte, servendo piatti colmi di cibo; sulle panche esterne dell’assemblea pubblica, altri piatti venivano distribuiti ai molti bisognosi, prostrati dalla carestia dovuta alla guerra.
La porta sul lato ovest della nostra casa si apriva su una piazza intorno alla quale si ergevano le case dei miei zii. Nelle vicinanze, si trovava una vecchia dimora il cui muro di cinta era ormai in rovina, lasciando apparire un grande magazzino con la porta sempre aperta sulla piazza. La chiamavano la casa d’al-Duwaysh. Mio zio Mâjid aveva legato lì a una roccia un giovane instabile di mente. Ogni volta che percepiva il passaggio di qualcuno vicino al magazzino, si precipitava verso la porta urlando. Tutti lo credevano libero, fino al momento in cui si accorgevano che era legato e non si poteva allontanare dal magazzino. La strada che attraversava la piazza e passava in prossimità del magazzino, e quindi della persona legata, conduceva alla Moschea, al mercato e alla casa del Mutawwa. L’insegnante, Fâris ibn ‘Abd al-Rahmân, nativo della provincia di Nedjd in Arabia Saudita, era l’imam della Moschea e insegnava anche ai bambini a casa sua.
Il Mutawwa Fâris abitava vicino alla nostra famiglia, ma la paura di vedere il pazzo fuggire mi impediva di andarci. Da un giorno all’altro, poi, quell’uomo sparì: il muro di cinta della casa d’al-Duwaysh fu ricostruito e l’abitazione venne annessa a quella di mio zio Mâjid. Dopodiché gli spiriti ritrovarono la loro quiete e potemmo di nuovo percorrere la strada che portava dal Mutawwa. Ero ancora piccolo; avevo imparato solo una parte del Corano, fino alla sezione ‘Amma. Allora si studiava a memoria solo quella parte ma, in compenso, si imparava a recitare il Corano interamente. Era quindi indispensabile studiarne la lettura completa con precisione. Gli allievi del Mutawwa, ragazzi e ragazze, la terminavano uno dopo l’altro.
Si festeggiava questo evento con una festa per ciascuno studente, a testimonianza della fine del ciclo. In questa occasione, il Mutawwa o la Mutawwa,ah rendevano lode a Dio. Se il diplomato era un ragazzo, veniva vestito con abiti puliti, talvolta nuovi. Ai figli degli sceicchi o dei ricchi veniva regalata una spada in oro (khanjar), che indossavano insieme a copricapo e banda per i capelli. Poi, il Mutawwa o il suo sostituto portavano il giovane e i suoi amici per le strade della città. Camminando davanti a loro, recitava una preghiera mentre i bambini rispondevano dicendo «Âmîn» (Amen). Andavano di casa in casa e si fermavano davanti a ciascuna porta in modo che il Mutawwa o il suo sostituto raccogliesse doni. Le figlie degli sceicchi e dei ricchi avevano la testa e il petto ricoperti d’oro e le mani dipinte con l’henné.
La porta sul lato est della nostra casa, invece, si apriva su una piazza, dove ai bambini piaceva giocare fino a tarda notte.
La casa abbandonata di mio zio
Un giorno, la siepe che divideva la casa abbandonata di mio zio dalla nostra crollò. Era talmente in cattivo stato che era inutile sperare di aggiustarla. Dunque, mio padre decise di toglierla. Anni dopo, fu deciso di aprire una porta nella stanza principale della casa abbandonata per unirla alla nostra: di conseguenza venne chiusa la porta d’ingresso principale. In questa stanza viveva Jumay,ah, la governante di mia sorella Nâ,imah. Il secondo locale fu invece utilizzato come deposito per il foraggio del bestiame, ovino e bovino, e Indinghi, lo schiavo affrancato da mio padre, era incaricato di custodirlo. Era un uomo alto, di origine africana, che mi portava spesso in spalla. Jumay,ah si ammalò e morì nel deposito perché non fu possibile trovare un trattamento medico adeguato. Un giorno, mentre cercavo Indinghi, lo trovai morto nella seconda stanza, su un mucchio di fieno per gli animali.
Nel corso di questo periodo, ‘Îd ibn Khasîf, la guardia armata di mio padre, sposò una donna chiamata Maryam. Fece costruire per lei una casa con rami di palma nel cortile della porta orientale della nostra abitazione, e fece combaciare il muro della sua casa con quella abbandonata di mio zio, lo sceicco Sultan, proprio dalla parte di quei bagni dove abitava, almeno secondo noi bambini, il djinn. Ed ecco che questa donna, di cui non avevamo mai sentito la voce, si trasformò un giorno quasi in un demone: capelli scoperti, arruffati, occhi stravolti, urlava, con la schiuma agli angoli della bocca! Due uomini le tenevano le braccia aperte con forza, come se la volessero crocifiggere, mentre un altro le frustava violentemente la schiena, ordinando al demone di uscire dal suo corpo.
Sgranava gli occhi e, quando il suo sguardo si fissò su di me, tremai temendo che il demonio lasciasse i suoi occhi per entrare nei miei. Poi chiuse le palpebre e la testa le cadde sul petto, mentre l’uomo continuava a frustarla e a gridare: «Esci!… Esci!… Esci!…». Ma la frusta colpiva ora un corpo inanimato, un corpo senza vita.
Un’altra volta, di notte, un incendio divampò in quella casa ormai vuota. La gente accorreva da tutte le parti per spegnerlo. Improvvisamente, scoppiarono dei colpi di arma da fuoco, provenienti dalla casa in fiamme. A quel punto tutti si allontanarono fino a quando non fu completamente distrutta.
‘Îd ibn Khasîf arrivò di corsa e fu redarguito duramente.
«Perché hai lasciato in casa le munizioni della tua arma?»
«Ho le munizioni con me, non le ho lasciate in casa» rispose lui.
Solo in seguito si scoprì che le esplosioni erano dovute a qualche limone essiccato.
Il forte di Sharjah
A sud di casa nostra c’era il forte, separato da noi soltanto da una larga strada che conduceva ai mercati della città. Dalle finestre del nostro salotto (majlis) si potevano vedere i viavai delle carovane cariche di mercanzie e i passanti.
Ecco un uomo condotto al forte: una guardia con il fucile lo spinge in avanti ogni volta che si ferma; un altro è di ritorno, sta singhiozzando; un altro ancora, vestito elegantemente, cammina pavoneggiandosi con l’aria pensierosa, cesellando le parole del discorso che deve pronunciare davanti allo Sceicco. Se ritorna sorridendo, vorrà dire che è stato generosamente gratificato, ma se ritorna con aria accigliata, significherà che non ha ottenuto nulla. Ogni giorno, mattina e sera, osservavamo queste scene.
Il forte di Sharjah era un edificio quadrato composto da quattro parti principali. La prima, situata a sud-est, era utilizzata come sala riunioni (majlis) e riservata ai dignitari. A sud-ovest e nordovest c’erano al-Mashraf e al-kubs, una torre quadrata e una circolare, entrambe destinate alle guardie. Il quarto elemento del forte si chiamava invece al-Mahlûsah: la torre maestra. Era un’enorme costruzione quadrata con una singolare architettura, come d’altronde indica il suo nome. Il livello superiore di questa torre era assegnato alla guardia, quello inferiore era adibito a prigione. Era spaventosa.
La facciata del forte, dove c’era la porta d’entrata, si apriva sulla piazza sâhat al-hisn. Il cancello era decorato da teste di chiodo in bronzo lucido. Tra il cancello e al-Mahlûsah, nell’ombra che la torre proiettava nel pomeriggio, si trovava una panchina a cui si poteva accedere dai due lati salendo alcuni gradini. Era tutto rigorosamente in legno. C’erano due cannoni, montati su ruote di legno, e quello più grande veniva chiamato al-Raqqâs.
A sinistra del cancello si trovava una sala di detenzione con una grata attraverso la quale il prigioniero poteva conversare con i suoi familiari: tra grata e soffitto c’era un condotto di aerazione. La porta della prigione dava su un corridoio chiamato al-Isbâh, strettamente sorvegliato. All’interno della cella c’era un uomo sospettato di furto, cui era già stata tranciata la mano destra per alcuni precedenti. Aveva rubato un piccolo cannone di bronzo. Sembrava quasi impossibile che quell’uomo, così gracile e senza una mano, fosse riuscito a rubare il cannone fuggendo dal condotto di aerazione… La polizia, sguinzagliata alla sua ricerca, lo ritrovò nascosto in un mucchio di fieno, con il cannone stretto tra le braccia.
Dopo la prigione, c’era il negozio dei rifornimenti gestito da uno schiavo affrancato dello sceicco, un certo Ibn Kalbân. Distribuiva cherosene, carbone e viveri ai membri della famiglia del principe. Infine il parcheggio, la cui porta si apriva sulle scuderie.
Al piano superiore c’era il salotto dello sceicco, con un grande terrazzo scoperto seguito da una galleria. Il tutto affacciava sul piazzale, davanti al forte.
Ogni sera, quando i fratelli dello sceicco Sultan si riunivano con i loro figli per cenare, la gente si radunava davanti al forte. Arrivavano alla spicciolata o in gruppi per ascoltare dalla radio del piano superiore il notiziario sulla guerra che, nel 1945, stava per finire.
Il pubblico si divideva in due fazioni di pari importanza: uno a favore degli Alleati, l’altro dell’Asse Roma-Berlino. Le notizie trasmesse dalla radio dell’Asse a Berlino, riportate dalla voce del presentatore iracheno Yûnus Bahrî con tono duro, contrariavano i sostenitori degli Alleati, mentre quelle diffuse dalla sezione Medio Oriente della BBC, scandite dal presentatore siriano Munîr Shammâ, facevano infuriare i partigiani dell’Asse. Dalle finestre che davano sul piazzale davanti al forte osservavamo i due gruppi litigare.
La parte sud del forte ospitava l’appartamento della madre dello sceicco Saqr ibn Sultan al-Qasimi, mentre i locali della parte nord erano riservati allo sceicco Saqr, sua moglie e i suoi figli.
Di fronte si ergeva un grande edificio non ancora ultimato detto al-Sâbât (galleria), dove alloggiavano numerosi beduini, ospiti dello sceicco. La parte terminata di questa costruzione aveva le finestre, l’altra metà consisteva soltanto in un’ampia stanza. A nord della galleria si trovava un pozzo utilizzato per lavarsi; a sud, una zona riservata al riposo dei cammelli. Tra il forte e la galleria c’era un grosso palo piantato nel terreno, con la parte superiore carbonizzata, al quale venivano legati i criminali. Si chiamava hatabat at-tawbah (palo di penitenza). Quando qualcuno veniva legato lì per essere flagellato, ci sedevamo attorno al palo per discutere del mistero di quella parte carbonizzata. Certi ragazzi dicevano: «Incendiando la cima del palo, il fuoco scende verso il ladro e, quando quello lo sente troppo vicino, confessa subito!».
Ma io rispondevo: «Assistiamo ogni giorno a questa punizione e, da quando siamo consapevoli delle cose della vita, non abbiamo mai visto qualcuno incendiare il palo».
Poi lo chiesi a mio padre, che mi raccontò questa storia:
«All’epoca di mio padre, lo sceicco Saqr ibn Khalid al-Qasimi, governatore di Sharjah, c’era un uomo scuro, cieco, chiamato Basiduh. Abitava nel quartiere di Âl‘Alî a Sharjah, in una tenda consumata, fatta di rami di palma e teloni di iuta. Un giorno, infastidito da un vento torrido del sud chiamato as-sahîlî, una specie di scirocco, Basiduh abbandonò la sua tenda e, brancolando con il suo bastone, cercò la strada per il mercato del pesce per comprare qualcosa da alcuni pescatori. Una volta tornato, accese un fuoco per grigliare il cibo, ma la tenda prese fuoco e fu ridotta in cenere: Basiduh morì nell’incendio! Il fuoco non si limitò però a divorare Basiduh e la sua tenda, ma continuò a propagarsi, devastando le capanne confinanti. Cocci di ogni tipo volteggiavano, si sollevavano in alto nel cielo. L’incendio distrusse tutto, lasciando dietro di sé solo i cadaveri bruciati del bestiame nel recinto. Il forte vento spinse i detriti in fiamme o carbonizzati verso la cala di Sharjah dove ormeggiava il Ghalib, un’imbarcazione per la pesca delle perle, proprietà di Ibn Madhkûr. Un tizzone toccò la cima dell’albero e iniziò a consumarlo dall’alto in basso. Quando il fuoco si avvicinò al ponte della barca, lo sceicco Saqr ibn Khalid al-Qasimi, arrivato per la strada che costeggia la riva, ordinò di tagliare le corde che trattenevano l’albero e di gettare in mare la parte rimanente. Poi chiese di trasportarlo e di piantarlo davanti al forte per legare i criminali. E da allora si chiama hatabat at-tawbah».
Non molto tempo fa, venivano attaccati a questo palo i tuffatori che, per timore degli squali o per mancanza di fiato, fingevano di essere ammalati nella speranza di non doversi immergere per pescare le ostriche. A volte, quando risalivano, vaneggiavano parlando dei djinn del fondale o si lamentavano della forte pressione dell’acqua per i loro timpani. In questo caso, erano marchiati sotto le orecchie!
Successivamente, venivano legati al palo gli imputati per essere frustati e quindi costretti a confessare.
A sud del palo di penitenza c’era qualche vecchio cannone fuori uso, appoggiato ai tronchi di alcune palme. Il piccolo cannone con le ruote di legno, invece, serviva a salutare l’arrivo di un ospite di riguardo, o ad annunciare l’inizio dell’Aïd, il rito religioso che celebra la fine del mese sacro del Ramadan o segna la fine del pellegrinaggio alla Mecca (Hajj). Un giorno, il governatore di Sharjah, lo sceicco Sultan ibn Saqr al-Qasimi, ricevette l’Emiro Su,ud ibn Abd al-Aziz Âl Su,ûd, di passaggio nel corso di un viaggio verso l’India. Lo sceicco Sultan lo accolse all’aeroporto e lo invitò a prendere un caffè nel majlis del forte. La guardia aveva l’ordine di sparare un colpo di cannone quando l’ospite sarebbe sceso dalla macchina. Ma non riusciva a spostare il piccolo cannone per allontanarlo della porta del forte, così ci chiese aiuto.
C’erano, accanto a noi, due uomini: uno si chiamava Al-Hâs, l’altro Jumay; accompagnavano un ospite di mio padre, lo sceicco Muhammad ibn Hamad al-Shâmisî, fratello dello sceicco Râshid ibn Hamad al-Shâmisî, sindaco di Hamâsah. Tutti e tre soggiornavano nel majlis privato di casa nostra. Al-Hâs e Jumay si unirono a noi per spingere il cannone, ma non c’era niente da fare; allora, la guardia decise di utilizzare uno dei vecchi cannoni in disuso. Eravamo stretti attorno a lui, quando cominciò a caricarlo, riempiendo quell’arnese di polvere e di stracci mentre la ruggine che lo corrodeva si disgregava, cadeva e si accumulava al suolo. Una volta terminato, mise una gran quantità di polvere da sparo nella stretta apertura sul retro dell’arma. Quando l’ospite arrivò, la guardia accese una brace all’estremità di un ramo di palma e ci chiese di allontanarci. Non appena la introdusse nel retro del cannone, questo esplose e andò in mille pezzi in una nuvola di fumo! Jumay crollò, colpito da una s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Memorie del mio tempo
  3. Prefazione
  4. 1. L’INFANZIA
  5. 2. LO SCEICCO SULTAN IBN SAQR AL-QASIMI
  6. 3. Il VICEGOVERNATORE DI SHARJAH
  7. 4. L’EVOLUZIONE DELL’ISTRUZIONE A SHARJAH
  8. 5. IL PELLEGRINAGGIO
  9. 6. LA TRIPLICE AGGRESSIONE CONTRO L’EGITTO
  10. 7. EVENTI ACCADUTI A SHARJAH, 1958-1959
  11. 8. VIAGGIO IN IRAN
  12. 9. IL PARTITO BA’TH
  13. 10. INSEGNANTE ALLA SCUOLA DI COMMERCIO DI SHARJAH
  14. 11. L’ASCESA DEL NAZIONALISMO A SHARJAH
  15. 12. GLI STUDI UNIVERSITARI - Prima parte
  16. 13. GLI STUDI UNIVERSITARI - Seconda parte
  17. 14. LA PATRIA
  18. INSERTO FOTOGRAFICO
  19. Copyright