L'Italia del silenzio
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L'Italia del silenzio

8 settembre 1943: storia del paese che non ha fatto i conti con il proprio passato

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  1. 204 pagine
  2. Italian
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L'Italia del silenzio

8 settembre 1943: storia del paese che non ha fatto i conti con il proprio passato

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8 settembre 1943: giorno della scelta e inizio del riscatto? Oppure fine di una stagione e "morte della patria"? Dopo la firma dell'armistizio di Cassibile - Mussolini e` ancora prigioniero sul Gran Sasso - il re e Badoglio fuggono verso Pescara, l'Italia continua a essere in guerra ma non si sa bene contro chi. Il paese e` allo sbando. I partiti, ridotti alla clandestinita` durante il Ventennio, si riorganizzano attorno al Cln (Comitato di liberazione nazionale). E i partigiani danno vita ai primi nuclei della Resistenza. Si lotta per cacciare il tedesco occupante, per abbattere la monarchia di Vittorio Emanuele III e istituire la democrazia. Per decenni abbiamo guardato a quel periodo come al retroterra ideale, etico e storico della cultura antifascista della nazione. Ma una simile ricostruzione, mescolando celebrazione e rimozione, ha davvero raccontato i fatti per come si sono svolti? Oppure ha finito per alimentare una "vulgata" che ha resistito per anni sia alle crepe del tempo, sia alle domande scomode che gli studiosi hanno cominciato a porsi? Con un libro provocatorio sin dal titolo, Gianni Oliva racconta un altro 8 settembre: il giorno del silenzio, silenzio della morale, della ragione, della volonta`. Anche la` dove brulicava la confusione di soldati che si muovevano senz'ordini o di cittadini che arraffavano nei depositi abbandonati, la scena era dominata dalla paralisi delle energie e dall'esaurimento psicologico. Ricostruendo ora per ora gli eventi drammatici del 1943-45 che "sconvolsero" l'Italia, Oliva racconta di un'atmosfera antieroica, dove l'elemento dominante fu in larga misura quello dell'attesa, "eterna psicologia italiana che aspetta dagli stranieri la salvezza" scrivera` Piero Calamandrei. Fu infatti la letteratura del dopoguerra - ancora prima che la storiografia - a maturare una lucida e concreta consapevolezza di quanto accaduto e a elaborare una memoria "piu` veritiera": scrittori e intellettuali come Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Curzio Malaparte, Mario Tobino, Corrado Alvaro, Italo Calvino fissarono con realismo tenace i tratti salienti di una frattura etica e generazionale. Agli occhi del lettore contemporaneo, che non interpreta piu` i fatti con la sola lente deformante dell'ideologia, sono loro i testimoni "dissacranti" di una pagina livida e amara del nostro passato.
Per questo dobbiamo continuare a domandarci se la Resistenza e` stata davvero un'esperienza palingenetica della nostra storia o non, piuttosto, l'alibi attraverso cui l'Italia e gli italiani hanno evitato di fare i conti con le proprie responsabilita`. Ma non solo: la nostra democrazia repubblicana e` ancora abbastanza solida per non avere piu` bisogno di legittimazioni storiche? Oppure e` cosi` disorientata e confusa proprio perché si e` fondata su legittimazioni estremamente fragili? Sulla base di queste premesse Gianni Oliva ridisegna con scrupolo e attenzione i termini di un dibattito storiografico e culturale che non smette di alimentare accese polemiche e sterili contrapposizioni ideologiche. Che, come sempre accade, allontanano dalla verita`.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852042294
Argomento
Storia

Parte prima

GLI AVVENIMENTI DIPLOMATICI E MILITARI

I

LA GIORNATA PIÙ LUNGA

L’Italia del potere
Mercoledì 8 settembre è una giornata a doppia velocità: per l’Italia del «potere» (un gruppo sin troppo ristretto di uomini raccolti attorno a Vittorio Emanuele III e al maresciallo Badoglio) è una giornata lunghissima, che scorre convulsa dall’inizio della notte precedente alla fine di quella successiva; per l’Italia della gente comune è un’ordinaria giornata di guerra, sino a quando, verso sera, la voce rauca del maresciallo annuncia l’armistizio e sul paese si stende l’inquietudine di un silenzio greve di dubbi e di presagi.
Il primo fotogramma risale alle 0.15 e ha per sfondo l’abitazione privata di Badoglio a Roma, in via Bruxelles. Il generale americano Maxwell Taylor, vicecomandante dell’82ª Divisione aviotrasportata, giunto clandestinamente in città1 per verificare l’agibilità degli aeroporti attorno alla capitale, ottiene dopo dure insistenze di parlare con il capo del governo. Il generale è a Roma da tre ore, ma non è riuscito a incontrare né il Comandante supremo, generale Ambrosio, né il capo di stato maggiore dell’Esercito, Roatta, né alcun esponente del governo. Ad accoglierlo a Palazzo Caprara, davanti al ministero della Guerra, si è presentato solo il generale Giacomo Carboni, capo del Servizio informazioni militari, che ha rinviato all’indomani mattina l’incontro con Ambrosio, ha tergiversato sulla possibilità di ispezionare immediatamente gli aeroporti e ha denunciato le momentanee carenze di armamento e di carburante delle truppe stanziate nella capitale. L’iniziale stupore del generale americano si è progressivamente trasformato in collera per l’atmosfera surreale dalla quale si trova circondato: i dirigenti italiani si negano e gli ufficiali presenti frappongono difficoltà logistiche mentre l’operazione «Giant 2» (l’aviolancio dell’82ª Divisione, che secondo gli accordi armistiziali dovrebbe salvare Roma dall’occupazione germanica) è fissato per la sera successiva! Solo quando Taylor esplode dicendo che l’annuncio dell’armistizio è stato stabilito da Eisenhower per l’indomani, Carboni capisce l’urgenza e si decide ad accompagnare il suo interlocutore da Badoglio, attraversando le vie antiche della città oscurate dal timore dei bombardamenti.
L’incontro è drammatico. Il maresciallo si presenta in veste da camera, invecchiato e stanco: secondo una versione ha interrotto la lettura di un libro, secondo un’altra è stato svegliato nel primo sonno. Certamente non ha l’atteggiamento di un capo di governo che sta per affrontare il rovesciamento del fronte e l’uscita unilaterale dall’alleanza con la Germania nazista. Taylor viene introdotto nella sala di ricevimento e con tono asciutto informa il maresciallo che l’annuncio dell’armistizio è previsto per la giornata successiva: occorre dunque avere informazioni precise sulla situazione militare attorno a Roma in vista dell’aviosbarco della sua divisione.
Badoglio appare sorpreso, disorientato, confuso: quale che sia la fondatezza delle sue supposizioni, non ha comunque previsto l’imminenza dell’armistizio: nessun piano strategico è ancora stato predisposto, i reparti non hanno indicazioni chiare su come operare, la situazione a Roma è fortemente compromessa dalla presenza tedesca. Superato lo smarrimento iniziale, il maresciallo oppone una serie di controindicazioni che riprendono gli argomenti di Carboni, dalla mancanza di forze sufficienti a sostenere da terra l’aviolancio, alla presenza capillare di truppe tedesche nella capitale, al rischio di esporre governo e famiglia reale alle ritorsioni della Wehrmacht; Taylor, che ha sempre nutrito perplessità sull’operazione Giant 2 ritenendola troppo rischiosa, si convince che l’aviolancio è impraticabile e che gli italiani sono interlocutori inaffidabili. I suoi dubbi si rafforzano nel prosieguo del colloquio: Badoglio, pur essendo il capo di governo di un paese sconfitto che non ha potere contrattuale rispetto ai termini armistiziali firmati qualche giorno prima, conclude le sue considerazioni con l’improbabile richiesta al generale di partire subito alla volta di Algeri per spiegare a Eisenhower la nuova situazione e chiedere un rinvio della proclamazione dell’armistizio.
Poiché Taylor, venuto a Roma come comandante militare alleato incaricato di una missione operativa, rifiuta di trasformarsi in ambasciatore del governo italiano, il maresciallo decide di formulare la richiesta direttamente a Eisenhower attraverso un radiomessaggio che viene dettato a Carboni: «Dati cambiamenti et precipitare situazione et esistenza forze tedesche nella zona di Roma non è più possibile accettare armistizio immediato. Operazione Giant 2 non è possibile la notte dell’8 settembre perché io non ho forze sufficienti per garantire gli aeroporti».2 Taylor scrive a sua volta un messaggio al suo comandante in cui chiede istruzioni sul da farsi ma precisa anche che, dopo aver verificato la situazione militare e politica a Roma, ritiene che l’operazione Giant 2 debba essere annullata. Nel confronto notturno tra un capo del governo italiano impreparato all’emergenza e un generale americano legittimamente preoccupato per la sicurezza del proprio reparto, si brucia così la possibilità di difendere la capitale con l’aiuto angloamericano.
Alle due di notte, il colloquio a Villa Badoglio ha termine e Carboni riaccompagna Taylor a Palazzo Caprara: i due messaggi sono consegnati al maggiore Luigi Marchesi (ottimo conoscitore della lingua inglese) perché provveda alla cifratura e alla diramazione al comando angloamericano di Algeri.
Il secondo fotogramma ha sempre per sfondo la villa di via Bruxelles ma è spostato all’inizio della mattinata. Badoglio, che ha trascorso una notte agitata dai dubbi senza tuttavia confrontarsi con nessuno, convoca il generale Roatta e gli riferisce i particolari dell’incontro con Taylor. Il capo di stato maggiore dell’Esercito concorda sull’impossibilità di sostenere l’aviolancio e sulla necessità di rinviare l’annuncio dell’armistizio, ma ritiene che un semplice radiomessaggio di richiesta non sia mezzo adeguato all’emergenza: egli propone che venga mandato ad Algeri un alto ufficiale per spiegare la situazione a Eisenhower e concordare con lui modalità e tempistiche diverse. La proposta, che si fonda sulla presunzione di poter trattare con il comando angloamericano da una posizione di parità, si scontra con difficoltà oggettive, perché la visita deve essere prima autorizzata e il governo italiano non dispone di una linea di comunicazione immediata con Algeri. Inoltre, dai comandi militari e dai punti di osservazione marittimi dislocati nell’Italia del Sud giungono continue segnalazioni di convogli alleati partiti dalla Sicilia e in navigazione nel Tirreno meridionale, dimostrazione palese che le operazioni legate all’annuncio dell’armistizio sono ormai avviate. Badoglio e Roatta sembrano comunque convinti di poter ottenere un rinvio e il maresciallo stabilisce che, per legittimare la missione ai massimi livelli, sia lo stesso Roatta a recarsi ad Algeri: questi rientra al ministero della Guerra e con il suo sottocapo di stato maggiore, generale Francesco Rossi, prepara un promemoria per Eisenhower, mentre gli operatori cercano di stabilire un nuovo contatto.
Il terzo fotogramma è ambientato alla stazione Termini, dove alle 10.00 giunge in treno da Torino il generale Vittorio Ambrosio, comandante supremo delle forze armate italiane. La più alta autorità militare ha lasciato la capitale la sera del 6 settembre in vagone letto, adducendo motivazioni personali, e ha raggiunto la sua città natale nella mattinata del 7; da qui si è poi diretto a Pinerolo, dove ha incontrato il figlio minore in servizio alla Scuola di applicazione di cavalleria, e nel tardo pomeriggio ha ripreso il treno per Roma. Si tratta di un viaggio avvolto dal mistero, su cui nessuno è riuscito a fare chiarezza. Certo è che appare poco lineare il comportamento di un comandante supremo che alla vigilia di un rovesciamento del fronte abbandona la capitale per trentasei ore, utilizzando il treno anziché l’aereo; a maggior ragione, se si considera che Ambrosio conosce perfettamente i termini armistiziali e sa dell’imminente arrivo a Roma di un alto ufficiale alleato per concordare l’aviosbarco.
Quando il comandante scende dal treno (che oltretutto giunge alla stazione Termini con quattro ore di ritardo sull’orario previsto) trova ad attenderlo il generale Rossi e il maggiore Marchesi, che lo aggiornano preoccupati sugli sviluppi della situazione. Rispetto agli scenari che si delineano, Ambrosio non assume decisioni e non ritiene di dover dare comunicazioni ai comandi periferici di quanto accade: la sola iniziativa è trattenere a Roma Roatta per non insospettire i tedeschi e destinare invece il generale Rossi alla trattativa con Eisenhower.
Il resto della mattinata e del primo pomeriggio trascorrono tra colloqui: Badoglio, Roatta, Ambrosio, Carboni, Rossi si consultano frenetici, attendendo da Algeri una risposta che non giunge: lo stato d’animo oscilla tra la fiducia nel rinvio, ostentata da Carboni, i silenzi impenetrabili di Ambrosio, i dubbi di Badoglio. Il denominatore comune è che nessuno si pone il problema di allertare i comandi periferici: al contrario, si cerca di tacere la notizia il più a lungo possibile per non scatenare la reazione tedesca.
Il quarto fotogramma è l’immagine di Frascati bombardata: la cittadina, dove hanno sede il quartier generale del feldmaresciallo Albert Kesselring e quello della Luftwaffe, viene attaccata poco dopo mezzogiorno da quattro gruppi da bombardamento della 12ª Air Force americana, in totale centotrenta fortezze volanti B-17 che scaricano oltre quattrocento tonnellate di bombe. Poiché «si sospetta che il comando tedesco occupi alcune ville ma non se ne conosce l’esatta dislocazione, il bombardamento viene esteso a tutto il centro abitato. L’intenzione è esplicita: nell’ordine operativo del giorno precedente è scritto testualmente che “i bombardieri pesanti distruggeranno Frascati alle 12.30”».3 L’obiettivo strategico degli Alleati fallisce, perché la sede degli alti comandi germanici in Italia non viene colpita, ma gli effetti dell’attacco sono drammatici per la popolazione e per la città: si parla di cinquecento morti e della distruzione di oltre metà degli edifici. Quando la notizia giunge a Roma, le ultime illusioni sul rinvio dell’armistizio cadono: è evidente che la macchina da guerra angloamericana è in moto e non è più possibile arrestarla.
Il quinto fotogramma coglie la rabbia di Eisenhower, quando viene decodificato il messaggio di Badoglio della sera precedente. Le indecisioni italiane e la richiesta di procrastinare l’annuncio sono considerate indizio di malafede e inducono il generale americano a una risposta perentoria: «Parte I: io intendo radiodiffondere l’esistenza dell’armistizio all’ora originariamente stabilita. Se voi o qualche parte delle vostre forze armate mancate alla cooperazione come precedentemente concordata, io renderò pubblica al mondo l’intera registrazione di questo affare. Parte II: io non accetto il vostro messaggio che posticipa l’armistizio. Il vostro rappresentante accreditato ha firmato un accordo con me e la sola speranza dell’Italia sta nella vostra osservanza di quell’accordo. Voi avete truppe sufficienti vicino a Roma per garantire la temporanea sicurezza della città, ma io ho bisogno di esaurienti informazioni in base alle quali si possa preparare l’operazione aviotrasportata. Mandate subito il generale Taylor a Biserta in aereo e notificate in anticipo l’arrivo e la rotta dell’apparecchio. Parte III: i piani erano stati fatti nella persuasione che voi agiste in buona fede e noi siamo pronti a portare avanti le operazioni militari su queste basi. Ogni deficienza da parte vostra nell’assolvere tutti gli obblighi dell’accordo sottoscritto avrà le più gravi conseguenze per il vostro paese. Nessuna futura azione vostra potrà allora ristabilire alcuna fiducia nella vostra buona fede, e conseguentemente ne seguirebbe la dissoluzione del vostro Governo e della vostra nazione».4
Quando il documento giunge nelle mani dei vertici italiani, è ormai pomeriggio inoltrato. Dall’arrivo di Taylor, nel cuore della notte precedente, sono trascorse diciotto ore, un tempo preziosissimo nelle situazioni di emergenza: né Badoglio, né il re, né i comandi militari hanno però saputo muoversi di conseguenza e l’appuntamento con la storia sta per trasformarsi in un precipizio.
Il sesto fotogramma è un ritratto di gruppo dell’Italia del potere, riunita al Quirinale da Vittorio Emanuele III alle 18.00 per il Consiglio della Corona: oltre al re, al ministro della Real Casa, Pietro Acquarone, e al primo aiutante di campo, Paolo Puntoni, sono presenti il maresciallo Badoglio, il ministro degli Esteri Raffaele Guariglia, i ministri militari Raffaele De Courten (Marina), Renato Sandalli (Aeronautica) e Antonio Sorice (Guerra), i generali Ambrosio e Carboni e due ufficiali che hanno avuto contatti con gli Alleati, il generale Giacomo Zanussi e il maggiore Luigi Marchesi. Il generale Roatta, che si è recato a Frascati presso il capo di stato maggiore di Kesselring, Siegfrid Westphal, giunge a Consiglio iniziato.
Dopo l’introduzione di Ambrosio, che ricostruisce gli ultimi avvenimenti, l’atmosfera si carica di un senso di panico che sembra crescere a ogni intervento e che si accende ancor più quando il maggiore Marchesi fa sapere che la notizia dell’armistizio è già stata comunicata da Radio Algeri e ripresa dall’agenzia britannica «Reuter». La ricostruzione del generale Puntoni, anche se prudente nella forma, non nasconde le radicalizzazioni del dibattito: «Nel corso della discussione si delinea una corrente che, ammessa l’impossibilità di trovare una via d’uscita, insiste perché la Corona sconfessi pubblicamente Badoglio, additandolo al paese come responsabile dei contatti presi con gli Alleati e di conseguenza della firma della resa, e riconfermi l’intenzione dell’Italia di continuare la guerra a fianco dei tedeschi».5 Si tratta di una soluzione dettata dalla paura della reazione germanica ma di difficile praticabilità, perché non persuaderebbe i tedeschi sulla buona fede del re e, nel contempo, esaspererebbe gli angloamericani. Altri interventi sollecitano invece a dare attuazione ai piani di trasferimento della famiglia reale in Sardegna, già predisposti nei giorni precedenti per evitare i rischi di cattura; altri ancora si limitano a recriminare contro la decisione alleata. Esauriti gli interventi, Vittorio Emanuele III chiede una pausa, poi comunica di aver deciso di accettare le clausole armistiziali: l’annuncio radiofonico letto direttamente da Eisenhower è un fatto compiuto e l’Italia non ha alternative. Il sovrano non lascia consegne specifiche, ma l’indicazione sottintesa è di rimanere nella capitale in attesa dell’evolversi della situazione: c’è la possibilità (o l’illusione) che lo sbarco alleato induca i tedeschi a ritirarsi a nord di Roma.
Verso le 19.00 il Consiglio è sciolto e i protagonisti rientrano nei rispettivi palazzi: si ritroveranno più tardi nei locali del ministero della Guerra in via XX Settembre, dove c’è un ricovero antiaereo a prova di qualsiasi bomba.
L’Italia della gente comune
Le due Italie dell’8 settembre si incontrano alle 19.42, quando la radio interrompe bruscamente i programmi e la voce del maresciallo Badoglio incisa su disco annuncia a tutti gli italiani la firma della resa. Il testo, ripetuto ogni cinque minuti per tutta la sera, è pesante come un macigno e conciso come una condanna, poche righe redatte nello stile dell’ufficialità di Stato, a mezza strada tra l’impersonalità e la retorica: «Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze angloamericane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza».
I quotidiani del giorno successivo, nello sforzo di temperare il dramma del paese con l’appello a un improbabile orgoglio guerriero, richiamano il Badoglio comandante al Sabotino e a Vittorio Veneto e parlano di «una voce maschia eppure attraversata d’angoscia» («Corriere della Sera»), «una voce energica e ferma che ci è parsa in qualche istante velarsi di tristezza» («La Stampa»). «Il Messaggero», con tono grave eppure tranquillizzante, spiega che «il grande soldato che con fermezza e coraggio si è assunto la responsabilità del governo e, in poche settimane, ha avviato la vita pubblica italiana a un regime di libertà e dignità, non poteva non trarre dalla situazione le inevitabili conseguenze»; la «Gazzetta del Popolo» descrive «una voce maschia, che si è formata comandando sui campi di battaglia, grave ma indomita».
Molto più realistica appare la ricostruzione di Cesare Pavese, che in una pagina de Prima che il gallo canti coglie l’emozione sospesa di quella notte: «Alla radio la voce monotona, rauca, incredibile, ripeteva macchinalmente ogni cinque minuti la notizia. Cessava e riprendeva, ogni volta con uno schianto di minaccia. Non mutava, non cadeva, non aggiungeva mai nulla. C’era dentro l’ostinazione di un vecchio, di un bambino che sa la lezione».6 Ad ascoltare il radiomessaggio, esaurita e attonita, l’Italia del silenzio: «Che diceva la gente a Roma? Pochi commenti abbiamo udito per le vie, quasi che nessuno sapesse tradurre in parole l’effetto profondo ma confuso che la notizia suscitava nel cuore: sollievo sì, ma anche consapevolezza di un castigo gravissimo e ben lungo da scontare, imposto da un’ingiusta fatalità. Le strade in silenzio si facevano sempre più deserte»;7 «quando abbiamo sentito la notizia, siamo stati zitti, zitti tutti, noi e quelli più vecchi, perché era una notizia da fare abbassare la testa e pensare ognuno per conto proprio a chissà che cosa»;8 «poco dopo le 20.00 su corso Umberto [a Roma] passò ordinato come per una rivista un reparto di artiglieria campale a cavallo. Non un applauso. Non una parola. I pochi che c’er...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'Italia del silenzio
  3. Dello stesso autore
  4. Introduzione
  5. Parte prima - GLI AVVENIMENTI DIPLOMATICI E MILITARI
  6. Seconda parte - RIFLESSIONI SULLA «MEMORIA»
  7. Note
  8. Copyright