L'albero di Halloween
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L'albero di Halloween

  1. 126 pagine
  2. Italian
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L'albero di Halloween

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Informazioni sul libro

Nella serata che precede Ognissanti qualcosa di stupefacente è accaduto: un enorme albero è apparso e, dai suoi rami, pendono centinaia di zucche. Zucche in cui sono intagliati sorrisi inquietanti e occhi luminescenti che fissano otto ragazzini mascherati per l'occasione: Tom è vestito da scheletro, Henry da strega, Ralph è fasciato come una mummia, Georg è diventato uno spettro, J.J. scompigliato come un cavernicolo, Fred stracciato come un accattone, Wally indossa una maschera da grottesca, Pipkin... «Ehi, dov'è finito Pipkin?»... Indossava una maschera bianca e portava una lunga falce. Ma ora è sparito! Che fine ha fatto? Scortati da Mr Moundshroud, una guida davvero particolare, i sette ragazzi partono alla ricerca dell'amico e strada facendo si imbatteranno in una fitta serie di avventure grottesche e allucinanti. E... riusciranno a salvare Pipkin?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852040115

1

Era una piccola città, con un piccolo fiume e un piccolo lago, in una piccola regione dell’America del Nord. Il bosco non era così folto da non lasciar vedere la città e la città non era così grande da non poter vedere, sentire, toccare, odorare il bosco. La piccola città era piena di alberi, ma, ora che l’autunno era alle porte, anche di erba secca e di fiori appassiti. C’erano tanti steccati da scavalcare, tanti marciapiedi su cui pattinare e anche una grande cava dove si poteva ruzzolare e udire l’eco dei propri strilli. E la piccola città era anche piena di...
... ragazzi.
Ed era il pomeriggio della vigilia di Halloween.
E tutte le case erano serrate contro il vento freddo.
E un pallido sole illuminava la città.
Ma improvvisamente il giorno svanì.
La notte uscì dagli alberi e allargò il suo manto.
Dietro le porte delle case si udivano grida soffocate, uno scalpiccio leggero di passi e s’intravedeva un tremolare di luci.
Dietro la porta della propria casa Tom Skelton, anni tredici, si fermò in ascolto.
Il vento si appollaiava fra gli alberi, poi spazzava i marciapiedi con gli artigli sottili di un gatto.
Tom Skelton rabbrividì. Tutti sapevano che il vento, quella sera, era un vento insolito; anche l’oscurità era insolita perché era Halloween, la vigilia di Ognissanti. Tutto pareva tagliato in un morbido velluto nero, dorato, arancione. Il fumo si arricciolava fuori da mille camini, come i pennacchi di un corteo funebre. Dalle cucine esalava il profumo delle zucche; quelle svuotate della polpa e quelle che cuocevano dentro il forno.
Il chiasso dietro le porte chiuse delle case crebbe in maniera impossibile, mentre ombre di ragazzi si stagliavano alle finestre. Ragazzi semisvestiti, con la faccia truccata; qua un gobbo, là un piccolo gigante. Si frugava nelle soffitte, si forzavano chiavistelli, si buttavano all’aria vecchi bauli alla ricerca dei costumi.
Tom Skelton si mascherò da scheletro.
Sghignazzò soddisfatto ammirando la colonna vertebrale, le costole, le rotule che spiccavano candide sulla stoffa nera.
Che fortuna il mio nome! pensava. Tom Skelton. Fantastico per Halloween! Tutti ti chiamano Scheletro per canzonarti! Quindi come mi travesto?
Da scheletro.
Wham. Otto porte sbatterono.
Otto ragazzi con una serie di bei salti oltrepassarono i vasi da fiori, i parapetti, le felci avvizzite e i cespugli, atterrando sui praticelli ben tenuti delle proprie case. Sempre di corsa afferrarono l’ultimo lenzuolo steso ad asciugare, accomodarono per l’ultima volta la maschera, abbassarono sulle orecchie cappucci e parrucche, urlando assieme al vento che correndo li spingeva; felici per il vento o sbraitanti se per caso cadeva la maschera, tappandosi il naso con la mussolina che aveva l’odore del fiato caldo di un cane. Sfogarono la gioia di essere vivi e all’aperto in quella sera spalancando gola e polmoni in grida, urli, schiamazzi... yeeelll!
Otto ragazzi si scontrarono fra di loro svoltando l’angolo.
«Eccomi: la Strega!»
«Il Cavernicolo!»
«Lo Scheletro!» Tom squassava le sue ossa per il gran ridere.
«La Grottesca!»1
«L’Accattone!»
«La Morte!»
Bang! Rinvennero dallo sconquasso in un disordinato, felice groviglio alla luce del lampione. Il fanale ondeggiava nel vento come una campana. Il selciato divenne la tolda di una nave ubriaca che rullava e beccheggiava tra ombre e luci.
Dietro ogni maschera era un ragazzo.
«Chi sei?» chiese Tom Skelton.
«Non te lo dico. Segreto!» gridò la Strega deformando la voce.
Tutti scoppiarono a ridere.
«Chi sei?»
«La Mummia!» gridò il ragazzo fasciato in bende ingiallite dal tempo, che sembrava un grosso sigaro a passeggio.
«E tu...?»
«Non c’è tempo!» disse Qualcuno-Nascosto-Dietro-un-Altro-Mistero-di-Mussolina-e-Cerone. «È ora di “Scherzetto o dolcetto”!»
Pazzi di gioia corsero dappertutto, eccetto che sui marciapiedi, saltando sopra i cespugli e quasi cadendo sui cani da guardia. Ma nel bel mezzo della corsa, fra scoppi di risa e latrati, come se la grande mano della notte e del vento li avesse arrestati, si fermarono bruscamente fiutando il pericolo.
«Sei, sette, otto.»
«Impossibile! Conta ancora.»
«Dovremmo essere nove! Manca qualcuno!»
Si annusarono l’un l’altro, come animaletti paurosi. «Pipkin non c’è!»
Come lo sapevano? Erano tutti celati dietro le maschere. Eppure, eppure... Sentivano che non c’era.
«Pipkin! Non è mai mancato a una festa di Halloween, mai. Ragazzi, è un disastro. Andiamo!»
Compiendo un ampio semicerchio, al trotto e al galoppo corsero giù per la strada dal selciato di mattoni, come uno stormo di foglie spinto dalla bufera.
«Ecco la sua casa!»
Si arrestarono di colpo. La casa di Pipkin era là, ma con poche zucche ai davanzali, poche pannocchie di granturco sulla veranda, pochi spettri che spiavano attraverso i vetri scuri dell’abbaino.
«Accidenti» disse uno. «Che facciamo se Pipkin è ammalato?»
«Non sarebbe Halloween senza Pipkin.»
«Non sarebbe Halloween» fu il lamento generale.
Uno di loro lanciò una mela contro la porta. Rintoccò debolmente, come il calcio di un coniglio sul legno. Aspettarono, tristi senza motivo, sperduti senza un perché. Pensavano a Pipkin e alla brutta, triste, noiosa Halloween che avrebbero passato senza di lui.
Dai, Pipkin. Vieni fuori e salva la serata!
1 Si chiamano “grottesche” quelle sculture in pietra che, a forma di mostri, diavoli o animali feroci, adornano le antiche cattedrali e a volte anche le antiche ville principesche. (NdT)

2

Perché aspettavano con tanta ansia uno di loro?
Perché...
Joe Pipkin era la fine del mondo. Il ragazzo più in gamba, capace di cadere da un albero e ridere per lo scherzo. Il più simpatico, quello che correndo in gara con gli amici distanziati di un chilometro, inciampava, cadeva, aspettava di essere raggiunto per rialzarsi e correre di nuovo, gomito a gomito, sino a tagliare il traguardo per primo. Il più coraggioso, quello che scopriva le dimore infestate dai fantasmi (così difficili da trovare) e tornava a prendere gli amici per guidarli a esplorare le cantine, arrampicarsi sui muri cinti di edera, affacciarsi ai camini, pisciare sulle gronde, ululando e dimenandosi come scimpanzé. Il giorno in cui Joe Pipkin era nato tutte le bottiglie di Coca-Cola e di aranciata avevano spumeggiato di gioia. Il giorno del suo compleanno, nel cuore dell’estate, il lago si ritraeva dalle sponde e rifluiva in una risacca di ragazzini, fra schiuma, corpi e risate.
All’alba, sotto le lenzuola, udivi un uccello beccare contro i vetri.
Pipkin.
Sporgevi fuori il capo nell’aria fresca di un mattino d’estate.
Sulla rugiada del prato spiccavano le impronte che non una dozzina di conigli ma un coniglio solo aveva lasciato in frenetica esultanza, saltando fra i cespugli, mordicchiando le felci, calpestando il trifoglio. L’erba era intersecata da nitidi solchi più numerosi dei binari di una stazione. Un milione di solchi...
Pipkin.
Eccolo spuntare dall’aiuola come un girasole selvatico. La bella faccia rotonda bruciata dal sole. Gli occhi balenavano segnali Morse:
«Presto! È quasi finito!»
«Cosa?»
«Il giorno! Oggi! Sono già le sei del mattino! Scendi! Vola!»
Oppure: «L’estate! Bang! – è finita prima che te ne sia accorto! Svelto!».
E sprofondava nei girasoli per rispuntare fra le cipolle.
Pipkin, caro Pipkin, il migliore, il più simpatico dei ragazzi.
Come facesse a correre così veloce nessuno lo ha mai saputo. Le sue scarpe da tennis erano vecchie, verdi delle foreste che aveva attraversato, brune dei lunghi percorsi fra le messi di settembre, incatramate sui moli e sulle spiagge dove attraccavano le chiatte di carbone, gialle delle intemperanze dei cani, piene di schegge di steccati. Gli abiti erano quelli dello spaventapasseri, su cui i cani di Pipkin dormivano o giocavano, consumati alle maniche e strappati sul sedere. I capelli? Un porcospino dalle setole biondo-scure, puntate come daghe in tutte le direzioni. Le orecchie? Pura peluria di pesca. Le mani? Impastate di polvere, del buon odore dei terrier, di caramelle di menta e pesche rubate in lontani frutteti.
Pipkin. Un connubio di odori, sapori, velocità, di tutti i ragazzi che mai corsero, caddero per rialzarsi e corsero ancora.
Nessuno, mai, lo aveva visto fermo. Era difficile ricordarlo seduto per più di un’ora a scuola. Era l’ultimo a entrare e il primo a esplodere dall’aula al primo suono di campanella.
Pipkin, buon Pipkin.
Che sapeva modulare lo yodel e suonare il kazoo e detestava le bambine più di chiunque altro nella banda.
Pipkin, il cui braccio intorno al collo e i sussurri segreti di meravigliose avventure ti proteggevano dal mondo.
Pipkin.
Dio si svegliava per vederlo uscire presto di casa come l’omino dell’orologio a cucù. E il tempo era sempre bello dov’era Pipkin.
Pipkin.
Erano fermi di fronte alla sua casa.
La porta si sarebbe spalancata da un momento all’altro.
Pipkin sarebbe saltato fuori in una vampata di fiamme e di fumo.
E allora Halloween sarebbe veramente cominciata!
«Forza Joe, forza Pipkin!» mormoravano. «Vieni fuori!»

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Ray Bradbury
  3. L'albero di Halloween
  4. 1
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  22. 19
  23. Copyright