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La sindrome rancorosa del Beneficato

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  1. 252 pagine
  2. Italian
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La sindrome rancorosa del Beneficato

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Informazioni sul libro

Che cos'è la "sindrome rancorosa del Beneficato"? Si tratta di quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio che non riesce ad accettare. Al punto di arrivare a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi. Maria Rita Parsi, attraverso una serie di storie esemplari, insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e i dolori che può provocarla e usarla addirittura per rafforzarsi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852043574

BENEFICATI INGRATI
BENEFICATI INVIDIOSI
ovvero
L’INGRATITUDINE CHE AMMALA
L’INGRATITUDINE CHE FA CRESCERE

LE STORIE
a cura di Raffaella Ceglia

Storia di un rancore plastico

“Io albergai nell’animo un grande rancore
che stranamente s’avvinse al mio dolore e lo falsificò.”
ITALO SVEVO
A quel tempo non avevo ancora uno studio privato. Lavoravo solo in ospedale, quasi sempre di notte, alle urgenze. Certe volte non succedeva niente, il silenzio invadeva tutto quanto, ed era allora che i pensieri cominciavano a scorrere nella mia mente. Non era passato molto tempo da quando ero tornato dall’Africa. Quello sì che era stato un vero inferno, un incubo pieno di grida di dolore, di corse disperate, un incubo fatto di occhi che volevano speranza. Occhi spalancati, nonostante il sangue che sporcava tutto il volto; occhi neri attaccati alla vita. Occhi che non ricordo perché ne ho visti troppi, ma rivedo uno sguardo, un unico sguardo che non potrò mai dimenticare.
Non è facile fare questo lavoro: la chirurgia plastica non è legata solo alla vanità. Solitamente, le persone pensano che il nostro sia un mestiere superficiale, che si occupa di risolvere i problemi estetici più semplici, un po’ come se il nostro fosse un capriccio più che un lavoro. Ma, in realtà, io ho conosciuto tutt’altro: nella mia vita non si era mai trattato di risolvere complessi adolescenziali, di limitarsi a limare nasi o ad aggiustare piccoli difetti. Io avevo operato persone sfigurate, distrutte dalle bombe, sfregiate dalle mine.
L’Africa era stata una mia scelta. Avevo ventinove anni: tutto quello che volevo era crescere professionalmente, imparare e fuggire da mio padre.
Si può dire che sono un figlio d’arte. Mio padre era un uomo piccolo di statura, severo e distante; è stato uno dei chirurghi plastici più affermati del nostro paese. Quando mi decisi per la facoltà di medicina, dentro di me sognavo di poter diventare come lui. Non trovai, però, nessun aiuto da parte sua, anzi, da quel giorno il rapporto con mio padre cambiò per sempre. Non mi perdonò mai di aver scelto la sua stessa professione. Fece di tutto per scoraggiarmi: mi diceva che non ero portato per questo mestiere, che mi sarei presto accorto di tutte le difficoltà e che, lui ne era certo, la mia intera vita sarebbe stata un fallimento. Ma io decisi di proseguire gli studi di medicina e, vedendo che non accennavo ad ascoltare i suoi consigli, un giorno mi disse: «Fai quello che vuoi, ma ricorda, io non ti aiuterò. Non chiedermi nulla, non pensare di appoggiarti al mio studio per trovare lavoro. Ti avevo avvertito, questa non è la tua strada!».
Non ho mai compreso la rabbia di mio padre. Molto spesso ho pensato che potesse nascere da una profonda insicurezza o addirittura da un’invidia acutissima, ma non ho mai capito perché la provasse proprio verso di me, che ero suo figlio; un figlio che lo ammirava, che voleva essere come lui.
Capii che dovevo farcela da solo: più passava il tempo più mi convincevo di aver compiuto la scelta giusta, di aver trovato la mia vocazione. Quello che mi ossessionava era la ricerca di un maestro, di una guida da seguire per trarre forza e insegnamento. Il professor Bettarini mi prese sotto la sua ala protettiva e mi aiutò molto: semplicemente, a differenza di mio padre, credeva avessi il talento necessario. Feci con lui la mia tesi di laurea: duecento pagine di sudore sullo studio di un nuovo intervento per correggere il labbro leporino.
Mio padre non fu presente il giorno della mia laurea, si presentò solo mia madre. La vidi ferma, in piedi, appoggiata alla porta. Quando finii di discutere la tesi, la cercai ovunque ma era scomparsa. Negò sempre di essere passata a vedermi.
La mia situazione familiare e l’indifferenza di mio padre cominciavano a farmi meno male: ero molto giovane, e quando si è giovani ci si abitua facilmente. Ero felice così, orgoglioso di me stesso: con grande sorpresa appresi che la mia tesi sarebbe stata pubblicata. Continuavo a incontrare il professor Bettarini e ogni tanto mi fermavo a cena da lui. Aveva due bambini, due maschi. Il più piccolo, Andrea, raccontava spesso di voler diventare medico, da grande. Suo padre ne sembrava entusiasta.
Mi sentivo protetto in quel gruppo: il professore mi considerava il suo miglior allievo. La mia vita era pienissima, lavoravo tutto il giorno in ospedale per la specializzazione; di sera partecipavo alle riunioni organizzate dal professore. A differenza di tutti gli altri insegnanti, e soprattutto diversamente da mio padre, Bettarini era un uomo affascinato dai giovani, aveva sempre tutti i suoi studenti attorno e non mancava mai di coinvolgerci nei suoi casi, nei suoi progetti.
Un giorno, mi invitò a pranzo fuori, in un ristorante di viale Parioli. Ricordo ancora che era un freddissimo giorno di gennaio, uno di quei giorni limpidi e gelati in cui il cielo sembra uno specchio e i raggi del sole non si distinguono, ma formano un’unica lastra di luce che illumina tutto.
Ci sedemmo vicino alla vetrata; fuori il parcheggiatore sistemava macchine lussuosissime.
Bettarini mi chiese a un tratto se sarei stato disposto a lasciare tutto per andare in Africa.
Nella vita di un giovane arriva un momento in cui devi imparare ad arrangiarti da solo. Il primo giorno di lavoro non è mai veramente il primo, perché, inizialmente, hai sempre qualcuno che ti sostiene, che ti segue, qualcuno che ti dice cosa devi fare, che ti dà ordini. Ma poi, un giorno, ti ritrovi solo: un faccia a faccia con te stesso, davanti alla prova di tutto quello che hai imparato. Il riscontro reale dei tuoi sogni.
Quel momento arrivò per me a Kigali, in un ospedale semidistrutto e pieno ovunque, dai corridoi al cortile, di corpi ammassati. Quando arriva, quello è un momento in cui non c’è tempo per pensare, devi agire, credere in te stesso. Le operazioni di plastica ricostruttiva che realizzai in Rwanda furono innumerevoli: il lavoro era privo di soste ed erano tutti casi gravissimi. Imparai molto da quel paese distrutto dalle assurdità di due etnie impazzite; quando tornai a Roma ero un altro, un uomo diverso, più sicuro: un chirurgo consapevole della sua professione.
La mia vita riprese a scorrere normalmente: il policlinico era molto diverso dall’ospedale africano. Operavo su casi di tumore, cercando di restituire un aspetto normale soprattutto alle pazienti affette dal cancro al seno.
Poi, un giorno, incontrai una donna. Mi fermò lungo le scale; avevo appena terminato la guardia e stavo rientrando a casa da mia moglie e dal primo figlio, che era nato da poco.
«Lei è il dottor Corsi?» mi chiese senza alzare la testa.
«Sì, sono io» e le tesi la mano.
Si chiamava Melina e il suo volto era totalmente sfigurato.
Quando ci sedemmo nel mio studio e si tolse gli enormi occhiali da sole che usava come maschera, mi resi conto immediatamente che si trattava di un caso grave, se non addirittura impossibile.
Melina mi raccontò tutta la sua storia. Aveva subito un incidente automobilistico e c’erano voluti mesi per rimettere a posto i suoi arti. La fisioterapia aveva occupato tutto il suo tempo, ma quello che adesso le premeva di più era ricostruire il suo volto, rimasto schiacciato fra le lamiere. Gli zigomi erano spezzati, le ossa facciali frantumate e aveva perso quasi tutta la dentatura, ma dai suoi occhi, chiari e limpidi, si capiva che era stata bella e che a tutti i costi voleva tornare a esserlo.
Quella che avevo davanti era una donna distrutta psicologicamente che stava subendo lo shock di quello schianto, causato dal suo stesso amante. Un uomo vigliacco, che l’aveva abbandonata così, quasi in fin di vita. Mentre mi raccontava la sua storia, Melina però non sembrava perdersi d’animo: aveva fretta di rimettere in piedi la sua vita.
Io ero perplesso, avrei voluto aiutarla ma avevo paura di non poterci riuscire con successo. Fu in quel momento che lo sconforto prese, per un attimo, il sopravvento su di lei.
«Lo sapevo, anche suo padre ha rifiutato il mio caso! Me lo dica lei, cosa devo fare, allora?»
Fu in quel momento, dicevo, che i miei occhi dovettero cambiare espressione.
«Accetto» dissi. «Farò il possibile, ma non le prometto niente.»
Lo ammetto, la mia accettazione iniziale fu un atto dettato esclusivamente dalla competizione con mio padre: volevo dimostrargli che dopo dieci anni di lavoro ed esperienza sarei riuscito in quest’impresa che lui stesso aveva rifiutato. Avevo bisogno di una conferma, bisogno di valere ai suoi occhi.
Fu così che iniziai a conoscere più a fondo Melina. Le sue qualità più sorprendenti erano la forza d’animo e l’ottimismo. Mentre le spiegavo tutte le problematiche del caso e la scarsa possibilità di riuscita, lei non smetteva mai di incoraggiarmi. Il suo era un atteggiamento di fiducia assoluta nei miei confronti: qualunque sarebbe stato poi l’esito finale, meglio provare, meglio tentare.
Delegai tutti gli altri casi del mio studio; mi concentrai unicamente su di lei. La nostra stima era reciproca, l’ammiravo per il coraggio.
Più passava il tempo, più mi accorgevo di aver dimenticato la competizione con mio padre. Era lei che volevo aiutare, perché Melina, più di tutto, aveva bisogno di ritornare alla sua vita normale, quella di prima dell’incidente, quella di quando faceva la consulente immobiliare in una delle agenzie più prestigiose del centro. Doveva assolutamente riconquistare un aspetto normale perché la sua immagine altrimenti, così devastata com’era, avrebbe interrotto per sempre la sua carriera. E lei questo non poteva proprio permetterselo. Aveva il cuore spezzato da quell’uomo che aveva messo così violentemente a repentaglio la sua vita, e che si era limitato a versare una piccola cifra dopo l’incidente per poi non farsi più trovare. L’assicurazione aveva preso il suo posto ma rifiutava di rimborsare delle spese così alte. Tutto dipendeva dal processo, un processo che sarebbe durato anni e che per molto tempo le avrebbe riaperto le ferite di questo dolore. La sua situazione economica non era un problema per me, accettai senza esitazioni di effettuare tutti gli interventi, al limite della gratuità.
Era maggio, era un giorno assolato e perfetto per starsene all’aperto: Melina e io entravamo in sala operatoria. Lei era serena; io avevo trovato, dentro di me, quella determinazione necessaria a portare avanti un’impresa così ardua, una scommessa così pericolosa.
I primi risultati che portò quella primavera erano buoni, anzi, quasi sorprendenti: superavano ogni aspettativa. Questo incoraggiò entrambi e restituì a Melina l’ombra di un sorriso che assomigliava alla speranza.
Bastarono altri cinque interventi per ottenere un risultato che sfiorava la perfezione: Melina uscì dall’ospedale con un volto risanato e addirittura bellissimo.
Mi occupai di lei fino alla fine, seguendo personalmente tutte le medicazioni, prendendo le precauzioni necessarie: andavo perfino a trovarla a casa; lei mi telefonava per qualunque necessità.
Era passato già parecchio tempo da quando avevamo srotolato le prime bende e Melina cominciò a riprendere la sua vita di prima, le sue amicizie, la sua carriera.
Questo è stato senza dubbio l’intervento più importante della mia vita, un lavoro per il quale avevo dato anima e cuore. Quando cominciai ad accorgermi che le sue visite e le sue telefonate si facevano sempre più rare, immaginai felice che finalmente fosse guarita e che avesse ripreso in mano la sua vita.
Un giorno provai a telefonarle: volevo avere tutta la documentazione relativa al lavoro che avevo fatto su di lei. I risultati ottenuti erano preziosi per la mia carriera di chirurgo; senza sperarlo avevo portato innovazioni importanti nel settore della plastica ricostruttiva: adesso ero impaziente di mostrarle. Fu durante la nostra conversazione che capii che in realtà qualcosa era cambiato: Melina sembrava strana, la sua voce non era più quella di una volta e non si dimostrò in alcun modo disponibile a restituire il materiale di cui avevo bisogno. Improvvisamente, mi ritrovai coinvolto in una conversazione astiosa che seguivo con grande difficoltà. Decisi di lasciare perdere per un po’ e mi convinsi che quello che stava attraversando doveva essere un periodo di transizione, un normale percorso di assestamento, come spesso capita dopo interventi simili. Eppure, le cose andarono solo peggiorando.
Non avendo chiesto nessuna retribuzione per gli interventi che avevo effettuato su Melina, consideravo la documentazione di questo caso un bagaglio di estrema rilevanza per la mia referenza scientifica: mi sembrò giusto, quindi, tentare un altro approccio con lei.
Era passato quasi un mese da quella strana telefonata e speravo di poter ritrovare quella donna così disponibile e fiduciosa che avevo conosciuto. All’inizio le sue parole sembrarono più rassicuranti, la sua voce mi giunse più pacata. In realtà, fu solo con più calma, formalità e falsità che mi spiegò che non aveva alcuna intenzione di darmi il permesso di divulgare i risultati della sua operazione. Soprattutto, non voleva che li mostrassi a mio padre, perché proprio da lui si era sentita rifiutare ogni genere di aiuto. Mi sembrò, da parte sua, una penalizzazione violentissima, una forma acuta di ingratitudine che non mi aspettavo, un impedimento tale che mise in moto, dentro di me, un sentimento di grande rabbia. Più cercavo di convincerla, più lei si dimostrava ostile.
«Non mi riconosco in questo nuovo viso! Quando mi guardo allo specchio è terribile, non sono più io, ma sono un’altra e mi spaventa!» mi disse con provocazione.
Le sue ultime parole mi lasciarono profondamente sconvolto.
«Proprio lei, dottor Corsi, trova il coraggio di venirmi a disturbare! Con tutti i problemi che devo risolvere, la sua documentazione è l’ultimo dei miei pensieri! E non si sorprenda se non mi sento di fare un favore a un medico, che non è stato neanche in grado di svolgere adeguatamente il suo lavoro!» e riagganciò.
Sprofondai in un abisso, avvertendo quella sensazione di vuoto allo stomaco che si prova quando veniamo accusati ingiustamente di qualcosa che non abbiamo commesso. Un abisso che inizialmente ci porta a reagire, a combattere, a urlare al mondo le nostre ragioni. Ma un abisso che poi ci schiaccia, ci costringe al silenzio e alla riflessione. Mi sentivo inutile, fallito da ogni punto di vista. Quel lavoro, così difficile, che avevo portato a termine con successo, sarebbe rimasto per sempre soltanto un tesoro nascosto, un sarcofago impolverato, sepolto nella terra e perduto: dimenticato.
La stranezza, poi, di quando si viene delusi è proprio la solitudine. Analizziamo i fatti, rifacciamo i calcoli, ci rimettiamo in discussione per vedere se qualcosa è cambiato, se forse qualcosa può esserci sfuggito, se per caso non siamo noi i colpevoli.
È questo che ossessiona quando qualcuno ti riversa addosso tutto il rancore che ha covato nel cuore. Non si dorme più, perfino nei sogni si cerca una spiegazione valida, un motivo qualunque a cui aggrapparsi per non precipitare in quell’abisso profondissimo. Perché Melina era cambiata così? Perché all’inizio mi aveva dimostrato fiducia e disponibilità e adesso, invece, era accecata dall’odio?
Non trovai dentro di me le risposte. Tutto mi appariva un enigma irrisolvibile.
Niente mi aveva mai ferito a tal punto, neanche il rancore di mio padre e la sua assenza totale nella mia vita. Ero depresso e insicuro: avevo rinunciato all’idea di dimostrare a lui quello che ero stato in grado di realizzare. E, poi, avevo veramente portato a termine con successo quell’intervento?
Improvvisamente non lo sapevo più. Momenti bui in cui avevo difficoltà a ricordare, in cui perdevo il filo di tutta questa storia fino a togliermi i meriti. Meriti che invece mi spettavano.
Ero io adesso quello che stava attraversando un periodo di transizione; sapevo che la delusione sarebbe passata, così cercai di rimettere entusiasmo e passione nel mio lavoro. Poi un giorno, mi giunse voce che una donna aveva persuaso alcuni dei miei pazienti a cambiare medico. Venni a scoprire che era stata Melina. Accecato dalla rabbia decisi di affrontarla.
Lasciai lo studio e mi precipitai a casa sua per chiedere spiegazioni. La trovai seduta sul divano, con lo sguardo assente e superiore, come se mi stesse aspettando da tempo.
La cosa più sconcertante che ebbi modo di sapere da lei fu che, non avendo i mezzi necessari per pagarsi l’intervento, riteneva che l’avessi usata a mio piacimento, per sperimentare. Melina sentiva di essere stata trattata come una cavia, come un topolino bianco da laboratorio. Era stata sottoposta a tutto questo, mentre, secondo lei, io avevo solamente sperimentato, come se fosse un divertimento o un gioco. Mi accusò di non averle restituito i tratti di quel viso che inizialmente era stato il suo. Ne restai sconvolto.
«Come può chiedermi la documentazione del mio interve...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ingrati
  3. Della stessa autrice
  4. Frasi celebri
  5. Dedica agli ingrati
  6. Prefazione
  7. Invidia e gratitudine
  8. Invidia dell’essere o invidia dell’avere?
  9. La gratitudine si deve ai maestri
  10. La sindrome rancorosa del Beneficato
  11. Tipologie di Benefattore
  12. Tipologie di Beneficato
  13. Beneficati ingrati Beneficati invidiosi
  14. L’invidia del benefattore
  15. Il Benefattore grato
  16. Beneficato-Benefattore
  17. Decalogo del buon Benefattore
  18. Decalogo del Beneficato riconoscente
  19. Ontogenesi dell’irriconoscenza
  20. Postfazione
  21. Copyright