Letteratura palestra di libertà
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Letteratura palestra di libertà

Saggi su libri, librerie, scrittori e sigarette

  1. 280 pagine
  2. Italian
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Letteratura palestra di libertà

Saggi su libri, librerie, scrittori e sigarette

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Che cosa spinge gli uomini a scrivere? Leggere è davvero un hobby costoso, destinato alle élite e non alle masse? E ancora: qual è il legame tra linguaggio e azione politica, quale il confine tra arte e propaganda? Letteratura palestra di libertà raccoglie numerosi scritti degli anni Trenta e Quaranta - alcuni tradotti per la prima volta in italiano - nei quali Orwell affronta, da un originalissimo punto di vista, il senso della letteratura e del rapporto con i libri: dalla propria "vocazione" per la scrittura ai ricordi di un'esperienza di lavoro in libreria, all'analisi dell'opera di grandi scrittori quali Dickens, Kipling, Eliot, Greene. In queste pagine Orwell unisce l'esegesi dei testi alla rievocazione di episodi personali, a riflessioni più generali sulla propria opera e quella di altri artisti, regalandoci tra l'altro un non convenzionale ritratto di sé e dei propri gusti. Con uno stile inimitabile, tra il saggio e il giornalismo, che sa essere insieme limpido e brillante, piano e profondo, mostra al lettore l'inestricabile connessione che lega la letteratura alla vita e alla libertà dell'individuo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852043567

Letteratura palestra di libertà

Ricordi di libreria

Nel periodo in cui lavorai in un negozio di libri usati – un luogo che, finché non ci si lavora, è facile immaginare come una specie di paradiso dove affascinanti gentiluomini d’età scartabellano eternamente tra in-folio rilegati in pelle di vitello – mi colpì soprattutto la rarità delle persone davvero interessate ai libri. La nostra libreria offriva anche volumi eccezionalmente interessanti, ma dubito che uno su dieci dei nostri clienti fosse in grado di distinguere un buon libro da uno brutto. Gli snob a caccia di prime edizioni erano molto più frequenti degli amanti della letteratura; gli studenti orientali che tiravano sul prezzo dei libri di testo economici erano anche più numerosi; ma i clienti più comuni erano le signore dalle idee confuse che cercavano regali di compleanno per i nipotini.
Molti dei nostri acquirenti appartenevano a quella categoria di persone che, pur essendo capaci di rendersi insopportabili ovunque, riescono a farlo particolarmente bene in una libreria. Per esempio, l’adorabile vecchietta che «vuole un libro per un malato» (richiesta frequentissima), o quella che nel 1897 ha letto un libro tanto ma tanto bello e vi chiede se potete procurargliene una copia. Peccato che abbia dimenticato sia il titolo sia il nome dell’autore: in cambio, però, si ricorda che aveva la copertina rossa. Oltre a questi, altri due ben noti flagelli imperversano nelle librerie dell’usato. Uno è il tipo del signore decaduto che puzza di croste di pane raffermo e che ogni giorno, spesso anche più volte al giorno, tenta di vendervi dei volumi che non valgono proprio nulla; l’altro è quello che fa grandi ordinazioni di libri senza avere però la minima intenzione di pagarli. Da noi non si faceva credito, però tenevamo da parte i libri, oppure li ordinavamo, se qualcuno ci chiedeva di venire a prenderli in un secondo momento. Non tornava mai neanche la metà di chi aveva fatto le ordinazioni. Nei primi tempi questo mi sconcertava. Cosa spingeva quelle persone a comportarsi così? Entravano, chiedevano qualche libro raro e costoso, si facevano promettere più e più volte che glielo avremmo conservato, dopodiché sparivano per non tornare più. Molti di questi clienti, certo, erano palesemente da ricovero. Parlavano di sé con aria solenne e ci raccontavano le storie più fantasiose (storie a cui, in molti casi, giurerei che erano i primi a credere) per spiegare come mai fossero accidentalmente usciti di casa senza soldi. In una città come Londra ci sono sempre un sacco di pazzi non ufficialmente accertati che vagano per le strade e tendono a gravitare intorno alle librerie, rari posti in cui si può perdere tempo a ciondolare senza spendere un quattrino. Alla fine le persone di quel tipo le riconosci al volo. Nonostante i grandi discorsi, c’è in loro qualcosa di tarlato e inconcludente. Spesso, quando manifestamente avevamo davanti un paranoico, gli mettevamo da parte i libri richiesti e poi li risistemavamo sugli scaffali nel momento stesso in cui usciva. Però ho notato che in nessun caso questi personaggi tentavano di portar via la merce senza pagarla. Era come se si accontentassero di ordinarla: credo che così avessero la sensazione di spendere davvero del denaro.
Anche la nostra, come la maggior parte delle librerie dell’usato, aveva diverse attività collaterali. Per esempio vendevamo macchine da scrivere di seconda mano e francobolli (usati, dico). I collezionisti di francobolli sono una genia strana, taciturna, che ricorda i pesci; se ne trovano d’ogni età, ma esclusivamente di sesso maschile. Pare che le donne siano insensibili all’affascinante occupazione di incollare pezzetti di carta colorata sopra un album. Vendevamo anche oroscopi da sei penny compilati da un tale che si vantava di aver previsto il terremoto del Giappone. Erano in busta chiusa, e personalmente non ne ho mai aperta una; ma chi li comprava tornava spesso a dirci quanto il suo oroscopo si fosse dimostrato «azzeccato». (Non ho dubbi che qualunque oroscopo sembri «azzeccato» quando ci dice che esercitiamo un fascino irresistibile sull’altro sesso e che il nostro peggior difetto è la generosità.) I libri per l’infanzia, soprattutto giacenze a prezzo ridotto, si vendevano bene. I moderni libri per bambini sono oggetti piuttosto orridi, soprattutto quando li vedi in gran quantità. Personalmente metterei in mano a un bambino una copia di Petronio Arbitro piuttosto che Peter Pan; ma persino Barrie sembra sano e virile in confronto ad alcuni dei suoi ultimi epigoni. Sotto Natale trascorrevamo dieci giorni di passione a combattere con biglietti d’auguri e calendari, articoli noiosi da vendere ma molto redditizi finché durano le feste. Mi affascinava il brutale cinismo con cui si sfrutta il sentimento cristiano. I piazzisti delle ditte produttrici di biglietti natalizi cominciavano a portarci i cataloghi fin da giugno. Una frase scritta su una fattura mi è rimasta impressa: «2 dozzine di Gesù Bambini con coniglietti».
Ma la più importante delle nostre attività collaterali era il servizio prestiti, una biblioteca circolante di cinque-seicento volumi, tutti di narrativa. La formula era la solita: «due penny e niente deposito». I ladri di libri devono amare svisceratamente queste biblioteche. Non esiste al mondo reato più semplice di quello di pagare due penny per prendere un libro in prestito, staccarne l’etichetta e venderlo a un altro esercente per uno scellino. Ciononostante i librai trovano in genere più remunerativo farsi rubare una certa percentuale di libri (a noi ne rubavano una dozzina al mese) piuttosto che scoraggiare i clienti richiedendo loro un deposito.
Il nostro negozio si trovava esattamente alla convergenza fra Hampstead e Camden Town ed era frequentato da individui di ogni categoria, dal baronetto al bigliettaio d’autobus. Probabilmente i nostri abbonati costituivano un campione significativo dei lettori di Londra. Per questo vale la pena di notare che fra tutti gli autori della nostra biblioteca quello che «era fuori» con maggiore frequenza era… Priestley? Hemingway? Walpole? Wodehouse? No: Ethel M. Dell, con Warwick Deeping buon secondo, e terzo, direi, Jeffery Farnol.1 I romanzi della Dell, naturalmente, li leggono solo le donne, però si tratta di donne di ogni genere e di ogni età e non solo, come forse si presume, di zitelle frustrate o corpulente mogli di tabaccai. Non è vero che gli uomini non leggano romanzi; è vero però che evitano in blocco alcuni generi narrativi. Grosso modo, quello che può definirsi il romanzo medio (roba abbastanza comune, la buona brutta narrativa, quella specie di Galsworthy annacquato che costituisce la norma nel romanzo inglese) sembra esistere esclusivamente per le donne. Gli uomini leggono romanzi che si possono considerare rispettabili oppure libri polizieschi. Questi ultimi, però, li consumano in quantità terrificanti. Mi risulta che, per più di un anno, uno dei nostri abbonati abbia letto quattro o cinque romanzi polizieschi a settimana, oltre a quelli che prendeva in un’altra biblioteca. Ciò che più di tutto mi stupiva era che non rileggeva mai lo stesso libro. A quanto pareva, quella pazzesca massa di boiate su cui faceva scorrere gli occhi (calcolai che con le pagine lette da quell’uomo in un anno si sarebbe potuta coprire una superficie di tremila metri quadri) gli rimaneva indelebilmente impressa nella memoria. Non guardava neppure il titolo o il nome dell’autore: gli bastava un’occhiata a una delle pagine interne per capire se quel libro «ce l’aveva già».
In una biblioteca circolante è possibile capire i gusti veri del pubblico, non quelli che pretende di avere; e stupisce constatare quanto siano caduti in disgrazia i romanzieri inglesi «classici». È del tutto inutile mettere Dickens, Thackeray, Jane Austen, Trollope, eccetera in una normale biblioteca circolante: non li prende nessuno. Basta che la gente posi gli occhi su un romanzo dell’Ottocento per dire: «Oh, ma è roba vecchia!» e lo scarta immediatamente. In cambio è sempre piuttosto facile vendere Dickens, così come è sempre facile vendere Shakespeare. Dickens è uno di quegli autori che la gente sta sempre «lì lì per leggere» e, come la Bibbia, è generalmente conosciuto di riporto. La gente sa per sentito dire che Bill Sikes era uno scassinatore e che Mr Micawber aveva la testa pelata, così come sa per sentito dire che Mosè è stato trovato in un cesto di giunchi e ha visto il Signore «di spalle».2 Un altro fenomeno assai rilevante è la crescente impopolarità dei libri americani. E un altro – ogni due o tre anni gli editori si scaldano molto su questo problema – è il discredito in cui è caduto il racconto. Quel tipo di lettore che chiede al libraio di scegliergli un libro esordisce quasi sempre con un «Non voglio racconti», oppure «Io non ho desiderio di piccole storie», come ci diceva un nostro cliente tedesco. Se gliene chiedete il motivo, spesso vi spiegherà che è una vera sfacchinata abituarsi a una nuova serie di personaggi a ogni inizio di racconto; dirà che vuole «immergersi» in un romanzo che dopo il primo capitolo non affatichi troppo la mente. Io credo, però, che la colpa di questa situazione sia da attribuirsi più agli scrittori che ai lettori. In Inghilterra e in America buona parte dei racconti moderni mancano, molto più dei romanzi, di vigore e validità. I racconti che davvero raccontano qualcosa sono ancora abbastanza popolari, come dimostrano quelli di D.H. Lawrence, che godono dello stesso favore dei suoi romanzi.
Mi piacerebbe fare il libraio di professione? Tutto sommato – nonostante il proprietario mi trattasse gentilmente e nonostante alcuni giorni felici trascorsi in quella libreria – direi di no.
Con un buon lancio e un adeguato capitale iniziale, qualunque persona istruita dovrebbe essere in grado di trarre un piccolo reddito fisso da una libreria. A meno che non si scelga di specializzarsi in libri «rari» non è difficile imparare il mestiere, e si parte piuttosto avvantaggiati se si sa anche qualcosa del contenuto dei libri. (Ciò non avviene per la maggior parte dei librai. Potrete farvi un’idea di quanto valga un libraio se date uno sguardo alle inserzioni con cui cerca i libri. Se non trovate una richiesta di Decline and Fall di Boswell ne troverete certamente una di The Mill on the Floss di T.S. Eliot.)3 Ma si tratta anche di un lavoro abbastanza umano, che non può involgarirsi oltre un certo limite. I grandi gruppi commerciali non potranno mai schiacciare il piccolo libraio indipendente così come hanno schiacciato il droghiere e il lattaio. L’orario di lavoro è però molto lungo (io ero un impiegato part-time, ma il mio principale lavorava settanta ore a settimana, per non parlare delle frequenti spedizioni fuori orario che dedicava all’acquisto dei libri); e poi è una vita malsana. Di norma una libreria è freddissima d’inverno: se è troppo calda le vetrine si appannano, e un libraio vive delle sue vetrine. Non solo: rispetto a qualunque altra categoria di oggetti fin qui inventata dall’uomo, i libri producono una polvere peggiore per quantità e qualità, e il taglio superiore di un libro è il luogo che ogni buon moscone predilige per andarvi a morire.
Ma il vero motivo per cui non mi piacerebbe lavorare in una libreria è che in quel periodo avevo perso l’amore per i libri. Un libraio deve mentire sui libri e questo glieli rende disgustosi; ancora peggio è l’obbligo di spolverarli e spostarli continuamente di qua e di là. C’è stato un tempo in cui i libri li amavo davvero: se avevano cinquant’anni o più, ne amavo l’aspetto, l’odore, la consistenza. Niente mi rendeva così felice come acquistarne un’intera partita per uno scellino a qualche asta di campagna. C’è un gusto particolare nei libri sgangherati e inattesi che ti procuri in quel modo: poeti minori del Settecento, dizionari geografici ampiamente superati, tomi spaiati di romanzi che nessuno ricorda più, annate rilegate di riviste femminili degli anni Sessanta del secolo scorso. Per una lettura non impegnativa – nella vasca da bagno, per esempio, o a tarda notte quando si è troppo stanchi per andare a letto, oppure in quel quarto d’ora libero prima dei pasti – non c’è niente di meglio di un vecchio numero del «Giornale della Fanciulla».4 Ma non appena cominciai a lavorare in libreria smisi di comprare libri. Visti in quelle dosi, cinquemila o diecimila tutti insieme, mi annoiavano, persino mi nauseavano un po’. Oggi ne compro uno ogni tanto, ma solo se si tratta di un testo che voglio leggere e che non riesco a ottenere in prestito. E ho finito di comprare roba vecchia. L’odore dolciastro della carta in putrefazione non mi attira più. Lo collego troppo al ricordo di clienti paranoici e mosconi morti.

Charles Dickens

1

Dickens è uno di quegli scrittori di cui vale davvero la pena di appropriarsi. Persino il fatto che il suo corpo sia sepolto nell’Abbazia di Westminster è stato, se ci pensate, una specie di furto.
Quando Chesterton scrisse l’introduzione alla Everyman Edition delle sue opere, gli sembrò del tutto naturale attribuirgli la propria personalissima variante del medievalismo, e più di recente uno scrittore marxista, T.A. Jackson,1 ha fatto i salti mortali per trasformare Dickens in un rivoluzionario assetato di sangue. Il marxista lo rivendica come «quasi» marxista; il cattolico lo rivendica come «quasi» cattolico, ed entrambi lo rivendicano come campione del proletariato (o «dei poveri», per dirla al modo di Chesterton). D’altro canto, però, nel suo libriccino su Lenin2 Nadežda Krupskaja riferisce che verso la fine della vita Lenin andò ad assistere a una versione teatrale del Grillo del focolare3 e trovò tanto intollerabile il «sentimentalismo borghese» di Dickens da abbandonare la sala nel bel mezzo di una scena.
Assumendo che «borghese» abbia il significato che ci aspettiamo gli attribuisca la Krupskaja, probabilmente questo giudizio era più vicino al vero rispetto a quelli di Chesterton e Jackson. Ma vale la pena di notare che l’avversione per Dickens insita in questa osservazione è un fatto inconsueto. Molti lo hanno trovato illeggibile ma pochi sembrano aver provato una qualche ostilità per lo spirito generale della sua opera. Qualche anno più tardi, Bechhofer Roberts pubblicò in forma di romanzo (This Side Idolatry)4 un lungo attacco a Dickens; ma era un attacco puramente personale, basato soprattutto sul modo in cui lo scrittore trattava la moglie. Presentava episodi di cui neanche uno su mille dei lettori di Dickens sarebbe mai venuto a conoscenza e che non inficiano la sua opera più di quanto la storia del secondo miglior letto5 infici Amleto. Tutto ciò che in effetti il libro dimostrava era che la personalità letteraria di uno scrittore ha poco o niente a che vedere col suo carattere privato. È del tutto possibile che nella vita privata Dickens fosse proprio quell’insensibile egoista che Bechhofer Roberts lo fa sembrare. Ma in ciò che ha pubblicato è implicita una personalità completamente diversa, una personalità che gli ha conquistato molti più amici che nemici. Poteva benissimo succedere il contrario perché, quantunque fosse un borghese, Dickens fu certamente uno scrittore sovversivo, un radicale, si potrebbe in verità dire un ribelle. Chiunque abbia ampiamente letto la sua opera avverte che è così. Gissing,6 per esempio, il migliore fra gli scrittori che si siano occupati di lui, era tutt’altro che un radicale e disapprovava questa vena in Dickens, si augurava che non ci fosse, ma non gli saltò mai in testa di negarla. In Oliver Twist, Casa desolata, La piccola Dorrit, Dickens ha attaccato le istituzioni inglesi con una ferocia dopo di lui ineguagliata. Tuttavia è riuscito a farlo senza farsi odiare per questo; non solo, ma le stesse persone con cui se la prende lo hanno assimilato a tal pu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. ‘Lo scrittore e il Ministero’ di Guido Bulla
  4. Letteratura palestra di libertà
  5. Abbreviazioni
  6. Note e notizie sui testi
  7. Nota bibliografica
  8. Copyright