Europa: sovranità dimezzata
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Europa: sovranità dimezzata

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Europa: sovranità dimezzata

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Da almeno cinque anni, ovvero dall'inizio della grave crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo, l'Europa è diventata l'anello debole dell'economia mondiale e, dietro la facciata idealista dipinta dai media, si rivela profondamente disunita anche sulle questioni politiche essenziali. Come abbiamo fatto a ridurci così? A perderci tra i codicilli sprecando quell'enorme occasione storica che è stato il 1989? Perché, di fronte all'imponente accelerazione che ha segnato il mondo degli ultimi trent'anni (rivoluzione digitale, globalizzazione dei mercati, turbofinanza), non abbiamo saputo reagire con energie innovative? Per capire le origini della situazione attuale, e soprattutto per indicare una via per uscirne, Antonio Pilati indaga, in undici illuminanti capitoli, le questioni più controverse: dall'equivoco sul debito pubblico allo strano ruolo della Germania, fino all'inedito scontro di classe che va delineandosi. Aiuta a comprendere, per risolvere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852041525
1

Introduzione

Da almeno un lustro, in coincidenza con l’avvitarsi della crisi, l’Europa è diventata l’anello debole dell’economia mondiale, l’area incapace di crescita che, in un sistema di scambi sempre più integrato, condiziona al ribasso gli altri principali Paesi. Anche sul piano politico l’Europa, disunita sulle questioni essenziali, agisce come fattore di divisione: il maldestro intervento di Sarkozy e Cameron in Libia favorisce l’insediamento armato dei terroristi negli Stati falliti del Sahel; la relazione speciale della Germania, Stato egemone del continente, con la Cina, che manda segnali molto aggressivi nella sua proiezione economico-militare verso l’esterno, indebolisce la strategia di contenimento che con qualche sbandata gli Stati Uniti cercano di mettere in piedi; la dipendenza energetica e la cacofonia delle relazioni con Putin aumentano per mano europea l’incertezza dell’Occidente sul tema-chiave della politica verso la Russia. La stessa predilezione per le cause di alto valore simbolico e i fori di buona volontà che ne costituiscono l’ideale vetrina manda – in un’epoca di interessi sempre più divergenti che alimentano conflitti a intensità variabile – segnali di labilità strategica e vaghezza morale. L’Europa sembra oggi «the sick man» del mondo, un po’ come l’impero ottomano, a inizio Novecento, era il malato d’Europa.
Perché ci siamo ridotti così? Come ha fatto la Fortezza Europa, il blocco di Paesi che voleva contendere agli Stati Uniti il primato economico e morale dell’Occidente divulgando nel mondo un esempio di politica cooperativa, a perdersi tra le lotte intestine dei corridoi di Bruxelles e a precipitare nella miseria – senza un moto di solidarietà – una nazione simbolo come la Grecia? Perché si è svilita nella routine dei codicilli comunitari quell’enorme occasione storica che fu il 1989: la fine incruenta della dittatura che aveva sequestrato per quarant’anni metà del continente e duecento milioni di persone in un terribile sequel della guerra civile combattuta nella prima parte del Novecento?
Ci sono molte ragioni contingenti, dalla crisi finanziaria del Welfare State che costituisce la base materiale del patto sociale fra cittadini e classi dirigenti d’Europa alla demografia sfavorevole fino ai difetti d’impianto del modello di integrazione fra le nazioni del continente, ma il motivo-base, che unisce e intensifica tutti gli altri, si può condensare in una constatazione: di fronte alla sconvolgente accelerazione della storia che nell’ultimo terzo di secolo ha cambiato fisionomia al mondo (rivoluzione digitale, mercati globali, assetti di potenza multipolari, turbofinanza), l’Europa ha reagito con più fatica politica e meno energia innovativa delle altre grandi aree socioeconomiche con cui vive in competizione: Anglosfera, Paesi emergenti del Sud e dell’Est asiatico, America Latina, Russia.
Il cambiamento che si apre alla fine degli anni Settanta è un crinale storico, segna una svolta d’epoca. All’inizio del decennio cessa la spinta espansiva di quel modello economico che per un quarto di secolo – dal Piano Marshall agli shock petroliferi – aveva scatenato la grande crescita delle economie capitaliste: quasi un miliardo di persone (Stati Uniti, Canada, Europa occidentale, Giappone, Australia) aveva ottenuto con la crescita postbellica consumi di massa che davano alle famiglie un’infrastruttura strumentale (automobili, elettrodomestici, media in grande assortimento, supermercati) capace di agevolare la vita quotidiana e alle imprese sbocchi commerciali in apparenza inesauribili. A cadere sono anzitutto i presupposti politici del modello: le convulsioni del mondo arabo eliminano i vantaggi del petrolio a basso prezzo; i costi crescenti della difesa militare – estesa su scala planetaria a causa della Guerra Fredda – mettono in tensione il dollaro che Nixon, chiudendo un’epoca di cambi stabili, dichiara (agosto 1971) non convertibile in oro; l’aumento della pressione fiscale, richiesto in vari Paesi per sostenere un welfare in espansione, riduce la propensione delle famiglie a spendere per rinnovare – e non più per acquisire – il parco strumentale domestico.
La fase di ripiegamento dura poco: quasi all’improvviso un getto innovativo si sprigiona dal profondo della vita sociale rendendo flessibile e di uso quasi universale la tecnologia digitale che amplifica le prestazioni cognitive della mente – quanto e più di quel che avevano fatto le invenzioni della scrittura e dell’alfabeto – e riorganizza uno in fila all’altro, dopo averli scompaginati, tutti i settori dell’economia; in modo non tanto diverso il sentimento collettivo – con Wojtyla, Thatcher, Reagan e anche Deng – rompe, cambiando le coordinate politiche di fondo, sia l’abitudine consolidata al primato concettuale dello Stato sulla società sia la staticità strategica della Guerra Fredda.
Come una piega della storia che concentra energia creativa, il triennio 1978-1980 addensa eventi e processi di portata dirompente per le figure dell’economia e della politica cristallizzate nel lungo ventennio della crescita. Fra il 1977, quando è introdotto Apple II (20.000 pezzi venduti a fine 1978), e il 1981, quando Ibm in agosto lancia su scala di massa il primo computer che si dichiara «personal» e nel giro di un anno vende due milioni di unità, il nuovo congegno – flessibile, facile da usare, con architettura aperta tanto che nella primavera 1982 è già in commercio il primo di una lunga serie di cloni – rimodella assetti delle organizzazioni e vita pratica, annettendosi un’ampia gamma di funzioni della mente (calcolo, memoria, esecuzione, anche progetto) e tagliando in molti processi operativi tempi e costi. Nel tempo l’espansione quale protesi cerebrale si combina con lo sviluppo delle reti di connessione che aumentano rapidamente potenza trasmissiva e varietà di prestazioni: nel 1991 debutta il World Wide Web che sancisce la congiunzione tra calcolo e reti promuovendo l’esordio del computer come mezzo di comunicazione (la posta elettronica). Da allora la rivoluzione digitale estende in fretta raggio ed efficacia: conquista la mobilità per una serie crescente di media e di strumenti operativi, dà accesso universale a una massa sterminata di conoscenze, riqualifica le relazioni personali, potenzia in misura straordinaria, riorganizzandole alla radice, le prestazioni di attività come la finanza e la medicina.
Nell’ottobre 1978 diventa pontefice Karol Wojtyla, polacco, che riporta al centro della vita collettiva, con un’enorme scossa di energia, l’azione della Chiesa di Roma: si riattivano le basi cristiane dell’immagine di società che l’Occidente proietta nel mondo e riprende vigore il contrasto di coscienza e di mezzi nei confronti della declinante dittatura comunista. Nel gennaio 1979 Deng, che nell’anno precedente è divenuto leader della Cina, fa una lunga visita negli Stati Uniti: è l’avvio della trasformazione economica in patria e insieme la premessa di quell’integrazione fra le due sponde del Pacifico che dagli anni Novanta costituirà il perno finanziario del commercio mondiale. Cadono su scala globale barriere tecniche e normative che da secoli separavano Stati e regioni facilitando così l’ingresso nell’economia mondiale di grandi nazioni da tempo ai margini: la Cina, che entra a far parte del Wto nel 2001, il Sudest asiatico, l’India, il Brasile soprattutto traggono vantaggio dall’apertura dei mercati e più degli altri innescano una poderosa fase di crescita. Una nuova estesa base produttiva si aggiunge in breve tempo a quella consolidata dell’Occidente e del Giappone: molto flessibile, poco costosa e in alcuni settori, quelli meno sofisticati dove all’inizio si concentra, quasi imbattibile.
Nel maggio 1979 Margaret Thatcher vince le elezioni britanniche e, diciotto mesi più tardi, Ronald Reagan quelle americane: entrambi cercano di limitare il raggio d’azione dello Stato e di dare respiro all’iniziativa degli individui e delle imprese, cambiando in ciò gli obiettivi e il profilo dell’attività politica. Nel dicembre 1979 l’Urss invade l’Afghanistan scommettendo sulla simultanea fragilità politica degli Stati Uniti di Carter, ancora segnati da Vietnam e Watergate, e della Cina postmaoista. In realtà dietro lo sfoggio di potenza si cela, come si scoprirà subito dopo, un azzardo autodistruttivo che non coglie i sintomi del grande rilancio postcrisi ormai evidenti in entrambi i Paesi e anzi accelera il fallimento economico e morale di chi fa la puntata a rischio. Negli anni Ottanta l’Unione Sovietica non è più in grado di aggiornare l’apparato militare, sviluppare la produzione materiale con i ritmi imposti dalla rivoluzione digitale e neppure reggere la pressione morale che con Wojtyla si acutizza nella fascia europea del suo impero: alla fine, con uno spasmo che dura dieci anni, va in pezzi. In Iran, tra gennaio e aprile 1979, una rivolta popolare a egemonia religiosa caccia lo scià, rompe una collaudata alleanza con gli Stati Uniti e riporta dall’esilio un carismatico chierico che proclama la repubblica islamica. Per la prima volta dopo Mao una fazione che si dichiara radicale, guidando un vasto moto popolare, si impadronisce di uno Stato grande e potente: le conseguenze sono di ampia portata, dalla feroce guerra con l’Iraq all’impulso fornito ai programmi atomici della regione più bellicosa del globo, ma la principale è forse l’incremento di intensità che il regime khomeinista – in parallelo con le schegge sunnite derivate dalla guerra afgana – imprime al terrorismo mondiale.
Oggi, dopo oltre trent’anni, siamo ancora immersi nella corrente storica anticipata e resa in parte visibile da quegli eventi. La rivoluzione digitale continua a estendersi, traina da anni l’economia mondiale e ha creato dal nulla i grandi campioni di profitto del periodo attuale: ora forma l’ambiente sociale ormai naturalizzato entro cui per molti anni vivrà il mondo intero. I mercati espandono senza sosta la dimensione globale che coinvolge un numero crescente di Paesi e di settori industriali: il vincolo internazionale influisce sempre di più sulle politiche interne e, soprattutto in Asia, istituzioni e procedure decisionali si conformano con grande frequenza agli standard di apertura e concorrenza graditi dai mercati. Il riflesso sociale di questa evoluzione è l’uscita di almeno un miliardo di persone dalla miseria e la progressiva formazione in varie parti del mondo di un’ingente classe media che nel 2030 si prevede toccherà i tre miliardi di individui: un fenomeno mai visto in tali dimensioni nella storia delle civiltà. Alla grande divergenza che dalla rivoluzione scientifica del Seicento ha separato la traiettoria di sviluppo dell’Occidente da quella del resto del mondo ora sta forse per succedere una altrettanto vasta riconvergenza.
Diversamente dalla rivoluzione digitale e dall’ascesa dei mercati globali, le altre due correnti di fondo della fase economico-politica che si forma con la cesura di fine anni Settanta hanno un decorso contrastato, oscillante. L’evoluzione politica segue in linea generale un orientamento multipolare basato sulla rapida costituzione di più centri focali: in una prima fase è soprattutto lo sgretolamento della potenza sovietica che scardina lo schema rigido – bipolare, con scarse varianti strategiche disponibili a pochi soggetti, dotato di regole operative vincolanti per tutti – vigente durante la Guerra Fredda; in una seconda fase, negli ultimi anni del secolo scorso, ad alimentare l’impulso plurale, intaccando la contraria configurazione unipolare emersa nel 1990-1991, è la crescente forza politica degli Stati, Cina in primo luogo, che meglio riescono a sfruttare l’espansione globale dei mercati; infine, con il progresso del XXI secolo, si consolida una tendenza inedita che può avere grande rilievo in futuro: la formazione di centri non statuali che si dispongono in un’ampia gamma di figure, dalle agenzie sovranazionali (Fmi, Wto) alle società delocalizzate operanti in rete su scala mondiale, e riescono a vincolare il campo d’azione dei soggetti politici.
Il prevalente orientamento multipolare si basa su due principali fattori, confliggenti fra loro e in ciò responsabili delle forti oscillazioni visibili nel periodo. Il primo fattore si manifesta in un variegato complesso di impulsi postwestfaliani, tali cioè da rimettere in questione i due principi-chiave che reggono il sistema della politica internazionale dopo la pace del 1648: gli Stati non riconoscono soggetti paritari entro i propri confini e sono quindi gli unici attori riconosciuti sulla scena mondiale; non sono ammessi interventi di uno o più Stati negli affari interni di un altro Stato. In diversa misura agiscono come fattori controstatuali: la dottrina dell’ingerenza umanitaria di cui sono sempre più frequenti impieghi politici; il vincolo crescente che sull’azione degli Stati esercitano istituzioni sovranazionali potenziate, come la Bce o la Ue, da cessioni di sovranità certamente consapevoli ma non sempre avvertite del sempre più ampio raggio di conseguenze che ne deriva; la capillare penetrazione del diritto internazionale che estende senza sosta ambiti d’azione e strumenti operativi; l’intensa identità politica assunta da soggetti non convenzionali capaci di porsi con forza autonoma in relazioni di alleanza (attori finanziari in grado di mobilitare su scala globale enormi quantità di capitale), influenza (Ong), conflitto (terroristi) con gli Stati. Si assottigliano i confini e lo spazio perde importanza: da presupposto esclusivo (base fisica) per l’esercizio del potere declina a fattore polivalente che media la diffusione di altri strumenti di influenza. È da notare che i nuovi soggetti non statuali concentrano potere non perché legittimati da un nesso popolare ma in quanto detengono il controllo di risorse scarse e specializzate (capitali, conoscenza, armi distruttive, delega di potere).
La tendenza confliggente, che pure concorre a consolidare l’assetto policentrico, ha invece una forte radice popolare e consiste nella ripresa del sentimento nazionale che fa da complemento – talvolta veemente – all’ascesa politica degli Stati in rapido sviluppo. In questo modo l’espansione economica prelude, come spesso in passato, a un crescente tono assertivo nelle relazioni politiche: si consolida il tratto multipolare e crescono le situazioni di potenziale conflitto. La geografia prende una configurazione maculata, molto variabile: aree dove prevale il sistema di vincoli sovranazionali si alternano con aree dove la strategia nazionale non è condizionata da fattori giuridici esterni (contano solo i rapporti di potenza); al contempo i soggetti non convenzionali hanno aree di intervento privilegiate dove la complessità sistemica appare in netto incremento. L’evoluzione multipolare si esprime, in sintesi, come un addensamento di complessità: non aumentano solo gli attori in gioco entro un teatro d’azione immutato, cambiano anche le regole d’ingaggio (che variano da soggetto a soggetto) e gli scopi dei giocatori: si modifica lo stesso teatro d’azione che assume dimensioni multiple. Alla fine fare strategia diventa più complicato, le alleanze incorporano instabilità, i rischi crescono.
L’ultima corrente del periodo storico aperto alla fine degli anni Settanta è il grande aumento di potenza e di capacità operativa del sistema finanziario. Il fenomeno, che si sviluppa dalla metà degli anni Ottanta e ha caratteri dirompenti, è in diretta correlazione con l’incremento di complessità che domina l’epoca della rivoluzione digitale: più attori, più mercati, più chance operative, più transazioni economiche, più ricchezza, più rischi. La finanza dà connessione, con notevole efficacia, ai vari soggetti che l’innovazione dei mercati ha creato d’improvviso o ha spiazzato dalle precedenti collocazioni e con ciò costituisce circuiti funzionali inediti e di grande potenza. In passato, durante altre fasi di trasformazione, un simile ruolo era toccato alla politica, che conquistava manu militari i territori degli scambi o statuiva i rapporti di forza tra i vari soggetti impegnati nei mercati, oppure al sistema delle istituzioni che creava con grande fantasia giuridica strumenti tecnici e nessi organizzativi (banche centrali, forme di garanzia del debito pubblico) capaci di far funzionare in sincronia operatori diversi e distanti. Nell’epoca attuale l’erosione della sovranità statuale e la marcata instabilità degli assetti di potenza tolgono alla politica sia la capacità di indirizzare soggetti e attivare nessi sia la forza per incentivare e disciplinare la fantasia istituzionale. Per contro, la finanza gode di una congiuntura molto favorevole che allinea fattori attinenti alla politica internazionale, alla demografia, alla politica monetaria, alla dinamica dell’innovazione.
Al riguardo sono almeno cinque le tendenze da considerare. L’ascesa sui mercati mondiali delle economie emergenti amplifica gli squilibri commerciali e gonfia surplus di grandi dimensioni (Cina in particolare, ma anche Germania e Petrostati). Aumenta quasi ovunque il debito pubblico: in Europa e negli Stati Uniti la spesa per il welfare diventa – a causa dell’allungamento della vita e dell’incremento delle spese sanitarie – ogni anno più pesante; la fornitura di sicurezza alla gran parte del sistema occidentale costa ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Europa: sovranità dimezzata
  4. 1. Introduzione
  5. 2. Il grande equivoco sul debito
  6. 3. Perché parliamo tedesco
  7. 4. Il take over della Germania
  8. 5. L’anello debole dell’economia mondiale
  9. 6. La mutazione genetica del progetto europeo
  10. 7. Che fare con la Merkel
  11. 8. Comprare tempo non basta
  12. 9. Il peccato delle élite
  13. 10. Emerge un nuovo paradigma
  14. 11. Il nuovo scontro di classe
  15. 12. Appendice. Chi è responsabile della crisi?
  16. Copyright