Paura d'amare
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Paura d'amare

Come evitare e superare i fallimenti affettivi

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  1. 264 pagine
  2. Italian
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Paura d'amare

Come evitare e superare i fallimenti affettivi

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Perché si esaurisce un rapporto amoroso? Quali sono le cause nascoste che stanno alla base di uno dei traumi più dolorosi nella vita di una persona? Giacomo Dacquino cerca di dare una risposta a queste domande avvalendosi della sua ampia esperienza clinica e suffragando così la teoria con la ricerca sul campo. Attraverso l'analisi di numerosi casi seguiti personalmente fornisce una guida per superare i fallimenti affettivi e, raggiungendo una maggiore maturità psicologica, costruire validi legami di coppia. Una guida sempre più necessaria perché oggi, "in tempi di grande violenza e di grande crisi, l'amore è diventato l'unico bene-rifugio ". Le strade che vengono percorse, anche in modo trasgressivo, alla ricerca di questo bene "supremo" sono parecchie, ma spesso conducono in vicoli ciechi da cui è difficile uscire da soli: la frigidità affettiva, lo scambismo, il sesso telematico, il "cannibalismo erotico", le "ossessioni sataniche" sono soltanto alcuni dei molti problemi affrontati in Paura d'amare. Dacquino insegna a rivalutare il coinvolgimento e la sintonia emotiva nel legame di coppia, aiutandoci a riflettere con maggiore consapevolezza sulla nostra esistenza e a uscire dal clima di tensione in cui siamo quotidianamente immersi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852043048

I

La pendolare dell’amore

A volte ci si sposa per bisogni che vanno ben oltre le normali esigenze dell’amore. In certi casi, il matrimonio può essere soltanto un modo per colmare un’intensa necessità di avere accanto a sé qualcuno che rassicuri e protegga. Ci si lega cioè a un partner per un inconscio bisogno di sicurezza, per ricevere psicologicamente quella protezione che di norma dovrebbe essere data dal proprio padre. Ma con il passare degli anni alla bambina-moglie il padre non basta più: diventando adolescente necessita di un coetaneo con cui spartire l’amore.
Il doppio legame
La bigamia non è più un fenomeno tipicamente maschile, interessa anche le donne, le quali però raramente arrivano a costruirsi una seconda famiglia. Anch’esse possono vivere due relazioni fisse, entrambe importanti, capaci di durare per anni o per tutta la vita. Il vivere due rapporti affettivi contemporaneamente corrisponde alla situazione del «doppio legame», tipica di quel soggetto che, pur non potendo rinunciare alla prima relazione, non riesce neppure a fare a meno della seconda.
Monica, maestra trentaduenne, ha un marito e un amante. È una persona che non sta a proprio agio dentro la vita affettiva; da alcuni mesi è infatti legata a due uomini: al coetaneo Aldo con amore e passione e al quarantacinquenne marito Antonio con affetto, raziocinio e buon senso. Aldo è un artista, creativo, effervescente, divertente, dalle idee e dalle abitudini più strane, mentre Antonio è un serio ingegnere, tutto orari e metodicità, sicurezza ed equilibrio.
L’avere un compagno in parallelo con il marito ha molto nevrotizzato Monica, al punto di dover ricorrere a una psicoterapia di sostegno. Invitata fin dalle prime sedute a parlare di sé, subito racconta del suo matrimonio: «Prima di sposarmi vedevo il mio futuro marito come il Principe Azzurro. Avevo bisogno di un uomo, l’amore non era per me una necessità…
«Durante il corteggiamento Antonio mi parlava molto. Era sicuro della nostra felicità futura. Io ero rassicurata dalla sua certezza d’amore, che m’impediva di prendere le distanze da lui. Avrei voluto rimandare le nozze perché ero troppo giovane ma, a dire proprio tutta la verità, ero affascinata dal mito del matrimonio più che dal futuro coniuge, più propensa a vivere il ruolo di futura madre che quello di moglie…
«Dopo il matrimonio mio marito ha iniziato a parlare sempre meno, destando in me delusione, rabbia, depressione. Poco alla volta è comparsa la rivale Tv; anziché tra noi, si dialogava con il video, chiusi in una “fragorosa” solitudine…».
La televisione, quando diventa routine serale, aliena la relazione di coppia. Ma già fin dal matrimonio le motivazioni all’amore nella paziente erano caratterizzate da profonda immaturità. Lei stessa, e sono parole sue, «aveva bisogno» di un marito, il che non comporta una scelta matura.
Da piccoli la soddisfazione dei bisogni primari è impellente; negli anni successivi la crescita psicologica porta a controllare gli istinti, cioè a desiderare e non ad aver bisogno, quindi a dosare o dilazionare la soddisfazione. Infatti la capacità di desiderare, conquista della persona adulta e matura, comporta la possibilità di attendere, scegliere, accettare o rifiutare. È la stessa differenza che c’è tra fame e appetito: il bisogno è la fame che obbliga a entrare nel primo ristorante che capita; il desiderio è l’appetito che permette di scegliere il luogo dove si mangia meglio. Soltanto quando si possiede una certa dose di autonomia psicologica si passa dal bisogno al desiderio.
Le nostre nonne a volte si sposavano con mariti scelti dalle famiglie e probabilmente alla vigilia delle nozze si sentivano dire dalle loro madri, le nostre bisnonne: «Non ti preoccupare, l’amore verrà dopo…». L’amore probabilmente non è venuto, ma i matrimoni sono durati lo stesso perché c’erano tanti figli da allevare, perché si pensava che la donna non meritasse di più e perché, se si fuggiva da quella vita senza amore, probabilmente si sarebbe fatta la fine di Madame Bovary1 o di Anna Karenina2.
Monica si è sposata e, dopo qualche tempo, si è innamorata di un altro uomo. Con le sedute ha iniziato a costruire un ponte con il passato: «Mi sono sposata per un conformismo statistico, perché lo fanno tutti. Provenivo da una famiglia operaia. Mio padre ha sempre e solo lavorato, lasciando a mia madre tutto il resto; era un uomo fedele ma noioso, che non le dava stimoli. Come mio marito, un pantofolaio… mentre io, anche da sposata, volevo vivere con gli altri, frequentare gli amici. E le rare volte che restavamo a casa da soli, senza ospiti, avevamo ben poco da dirci perché soltanto attraverso il gruppo riuscivamo a comunicare. Infatti il più delle volte approfittavo della presenza degli altri per insultarlo con tutta la rabbia della “malscopata”…».
Sentiamo ancora dalla paziente un altro frammento della sua vita: «…Il colore azzurro del principe alla distanza ravvicinata del matrimonio si è scolorito… Prima lo avevo idealizzato ma, dopo averlo sposato, ho iniziato a percepirlo come un uomo freddo ed egoista. È vero che la mia sessualità non era delle più “calde”, ma che colpa ne avevo se mi faceva male a “farlo”. Va bene, ero una frigida, mi chiudevo tutta, ma lui non mi aiutava certo: cercava più il mio corpo che il mio cuore…
«Un giorno che ero più disponibile del solito, gli ho detto: “Guardami come sono fatta da quelle parti”. E lui, cieco come una talpa, mi ha risposto che ero come una fetta di lardo. Allora gli ho chiesto: “Ma c’è un grosso buco, vero?”. E lui, come Cristoforo Colombo quando avvistò la terra, ha guardato a lungo, seriamente, e poi mi ha risposto: “No, è piccolissimo, come una capocchia di spillo…” e mi ha prostrata del tutto. Potevo ben avere una vagina più sollazzevole e non così tragica! Io sentivo parlare di “voglia”, di passione, di godimenti all’ennesima potenza… Per me era soltanto un sentito dire…
«La prima volta che ho avvertito un po’ di piacere ho pianto d’imbarazzo e, nello stesso tempo, di gioia per la conquista conseguita. Finalmente ero quasi normale perché ero riuscita a raggiungere quel piccolo godimento. Purtroppo l’ho provato poche altre volte e soltanto se Antonio mi umiliava. Poi ho sempre e solamente finto…».
Una donna su due simula l’orgasmo, ma solo un uomo su cinque se ne accorge. Monica era una persona che viveva nella noia del sesso coniugale, della passione mai conosciuta. Con il marito aveva infatti consumato soltanto coiti genitali, monotoni, ripetitivi, a volte persino depressivi poiché staccati da ogni relazione amorosa profonda; quindi rapporti sessuali con scarso eccitamento, piacere e appagamento.
La passione sessuale invece va oltre il coito e l’orgasmo; significa immaginario, desiderio, eccitazione non soltanto per l’aspetto fisico dell’altro ma anche per quello affettivo, intellettivo e amoroso. Passione vuol dire evitare ogni difensiva regressione che allontani dal partner, significa superare i limiti del Sé senza perdere il senso d’identità per vivere un’unione con un’altra persona, abbandonandosi con amore all’amore dell’altro.
La passione sessuale comporta quindi anche dei rischi perché abbandonarsi al partner può equivalere, nel caso di un’identità fragile, a perdersi nell’altro in una fusione simbiotica per il superamento dei propri confini. Per questo l’immaturo psicoaffettivo, dall’identità insicura, non riuscirà mai a vivere un’autentica passione sessuale. Potrà soltanto provare un’eccitazione genitale, che è tutt’altra cosa.
Il termine passione deriva dal latino passio, tradotto a sua volta dal greco pathos, che significa soffrire, sopportare. Per Monica la passione amorosa era davvero sofferenza, quasi un martirio. Apparteneva a quella categoria di coniugi che testimoniano come nella sessualità ci sia più tensione che abbandono, più dolore che piacere, più pena che peccato. Da parte sua poi, la paziente presentava, almeno all’inizio del matrimonio, un certo desiderio anche se privo del piacere genitale.
Lo stesso orgasmo con chi si ama richiede una risoluzione dei conflitti edipici3, che permette il superamento di certe patologiche inibizioni sessuali. Monica aveva portato nel matrimonio, e particolarmente nei riguardi del marito, tutti quei conflitti che scatenano patologie del desiderio, blocco del piacere, colpevolizzazione profonda con conseguenti tattiche evasive, fughe dal coito, dolore se lo si deve fare almeno qualche volta. Ma soprattutto il rifiuto della sessualità coniugale aveva portato poco alla volta la paziente al rifiuto del proprio corpo, spegnendo ogni eccitazione e sensazione.
Sentiamolo da lei: «Abitavo in una casa perfetta, pulitissima, ordinatissima, ma io non ci vivevo bene perché era fredda. Allora non lavoravo, o meglio facevo soltanto la casalinga. Mi ero buttata nelle pulizie, più per disperazione che per amore d’igiene…
«Mio marito all’inizio mi piaceva quando non c’era; poi nemmeno quando non c’era… Continuava tra noi la solita incomprensione di pelle e certi rancori maturati “sotto le lenzuola” non favorivano un rapporto sereno… Anzi lui, credendo di aiutarmi, mi sgridava sempre; usava cioè la logica del contrario: trattava male chi amava. “Amava” a detta sua, beninteso!».
Per le persone che vivono in solitudine, le attività domestiche sono un modo per sentirsi meno sole. Se tutto è fatto, pronto e pulito si sente più acuto il vuoto affettivo in cui si vive e quindi si continua a pulire. Monica non aveva sposato un marito, ma un padre, e aveva scambiato il suo «innamoramento» per un bisogno di sicurezza, come probabilmente è stato per Jacqueline Kennedy con Aristotele Onassis, per Marilyn Monroe con Arthur Miller, per Sophia Loren con Carlo Ponti… Non è stato opportunismo, ma bisogno di rassicurazione da entrambe le parti. Per di più la paziente si era aggrappata disperatamente a un uomo idealizzato che, sfruttandone la dipendenza affettiva, l’aveva mantenuta bambina.
Quando la paziente, affamata di un uomo con caratteristiche paterne, ne ha incontrato uno che le dava anche l’impressione di proteggerla, si è legata a lui. Ma a determinare il suo innamoramento è stato un intenso «bisogno d’appoggio» da profonda insicurezza, che le ha fatto scambiare il partner per un genitore. È probabile che l’interessamento del marito non sia stato l’espressione di un desiderio altruistico di proteggerla, bensì di un intenso bisogno di potere per un’altrettanta insicurezza. L’assumere cioè il ruolo di padre di una moglie dipendente potrebbe essere stato per lui il massimo della gratificazione.
Non stupisce che a Monica il piacere sessuale venisse impedito da divieti inconsci relativi ai tabù edipici. È nel letto infatti, quando l’esercizio della sessualità è identificato con la colpa, che si gioca la guerra fredda indossando un «pigiamacorazza», evitando il contatto, relegandosi al bordo del letto. Di tutto questo la paziente si lamentava: «Era una sessualità stanca, ripetitiva, prevedibile, senza passione, senza fantasia; un sesso senza Eros come diceva una rivista, senza nemmeno l’attrattiva dell’abitudine… Ho letto che le scimmie e i topi si accoppiano una volta al mese, gli elefanti ogni quattro anni… Beati gli elefanti!».
È certamente faticoso vivere l’amore come un contenitore vuoto, quando si riduce ulteriormente il già povero respiro affettivo, quando si scopre che il vivere non è più così interessante, quando il ritorno della primavera diventa soltanto un intollerabile scherzo della natura. Conclude Monica: «È triste svegliarsi al mattino “spenti dentro”, senza entusiasmo, con la voglia di piangere. Beati coloro che possono piangere… Non si dovrebbe mai arrossire del proprio pianto…
«Vivere tutta la vita nel grigiore di un matrimonio fallito, sempre criticata da un marito “maestrino”… Chiudersi in casa e vegetare davanti a un tubo catodico, con il rischio di seccare come un ramo spezzato…».
Chi è solo si sente inutile, invisibile. Se poi a una persona incapace, perché disturbata, continuiamo a rinfacciare i suoi limiti, questa non migliorerà sicuramente poiché non acquisterà mai fiducia in se stessa; se invece evidenziamo il positivo che è in lei, anche se si tratta soltanto di poche e incerte qualità, la incoraggeremo a conquistare sicurezza e autonomia.
La disistima, proprio perché espropria dell’autofiducia, si evolve in insicurezza, vuoto interiore, solitudine; nei casi più gravi conduce alla paralisi del Sé4. Si può morire «dentro», anche se si gode di ottima salute all’esterno, quando l’amore da motore mobile della vita diventa motore immobile. Conosciamo tutti persone morte dentro, che non sognano più e si sono arrestate nel ghetto del disimpegno, della solitudine, della depressione.
Continua Monica: «Mi dicevo: “Non devi lasciarti andare. Non devi soccombere”. Avevo voglia d’amore. Avevo un’infinita sete di comunicare, di raccontare e nessuno voleva ascoltarmi, tanto meno lui. Avevo voglia di trasgredire, di uscire dagli schemi abituali del tutto prefissato, preordinato… Dentro di me, in un angolo riparato e segreto, sentivo che avevo bisogno di un vero uomo di cui essere orgogliosa, per me stessa, non per esibirlo agli altri.
«Con la speranza di trovare ciò per cui ero in credito con la vita, mi dicevo di guardarmi intorno alla ricerca di qualcuno che mi facesse rifiorire. Desiderare di amare non è peccato! Purtroppo, quando finisce un rapporto, non sempre fuori della porta c’è un altro amore che attende… Ma l’importante era non avere paura della paura. Purtroppo allora era tutto pigro in me, a partire dall’intestino…».
Monica prosegue la psicoterapia, commentando la sua vita: «Un giorno mi sono resa conto che la colpa non era mia. Avevo iniziato a insegnare e a conoscere persone nuove. Mi rendevo conto che dovevo cambiare uomo. Un collega mi faceva la corte. Per un po’ di tempo ho desiderato che mi abbracciasse e mi baciasse, ma non riuscivo a mettere insieme il desiderio e la persona. Quando si superano i trent’anni, si incontrano soltanto celibi immaturi o sposati in cerca di avventure. Però le cose nella vita capitano; bisogna accorgersene e saperle utilizzare…».
Un corteggiatore ogni tanto ci vuole; garantisce l’autostima. L’aver poi successo amoroso è autorivalutante, poiché equivale ad avere ancora potere seduttivo. Chi ha convissuto con un partner freddo e genitale, quando ne incontra un altro dolce, accogliente, disposto ad ascoltare e a solidarizzare, resta stupefatto che si possa venire accettati e rispettati, accarezzati senza essere graffiati, baciati senza essere morsi. Improvvisamente scopre un rapporto di coppia sconosciuto, rasserenante, gratificante. Perché finalmente si sente accolto e amato. È quindi inevitabile che finisca per seguire questa nuova strada d’amore sino ad allora vagheggiata e non assaporata, per un bisogno di caloroso affetto e di serena condivisione.
Afferma infatti Monica: «Pochi giorni dopo aver incontrato Aldo ero in una situazione di totale scollamento mentale. È stato il classico colpo di fulmine. Per la prima volta nella mia vita sentivo una musica dentro. Vivevo questo amore come un miracolo inatteso, stupita di essere in grado di provare tante meravigliose emozioni. I suoi baci mi ricordavano ciò che avevo letto a proposito degli abitanti delle isole del Pacifico, che manifestano il desiderio di aspirare l’“anima” dell’altro soffregando il naso contro il viso della persona amata.
«Erano incontri belli, vestiti di pudore e di poesia; un giorno di luce fra due notti. Sembrava che bastasse alzarsi sulla punta dei piedi per riuscire a staccare la luna dal cielo… Mi addormentavo abbracciando il cuscino, come i fiori che di notte si piegano l’uno verso l’altro per non sentirsi soli…».
Il «colpo di fulmine» corrisponde a una risposta positiva ai messaggi inconsci dell’altro. Nella fase dell’innamoramento ognuno dei due si accorge di essere stato riconosciuto e accettato. E questo riconoscersi reciproco provoca una tensione emotiva, una sensazione di esclusività, di euforia, di momento magico. Così racconta la paziente: «Con Aldo ho preso coscienza di avere un nome, perché mi chiamava spesso “Monica”. Mio marito invece mi chiamava “cara”, “tesoro”, “amore”, senza dare a queste parole il significato che hanno».
Sentirsi chiamare per nome, bello o brutto che sia, è una conferma di riconoscimento di identità, di stima, d’amore; è dunque la certezza di esistere e di essere importante per qualcuno.
Prosegue la paziente: «Parlando con Aldo le mie solite difese erano scomparse; non lo sentivo distante, ma in grado di capirmi. Ero di nuovo allegra, felice di esistere… Noi due insieme e tutto il resto fuori dalla porta. Ma avevo paura a fare l’amore…».
Nell’innamoramento si tende a privilegiare il rapporto a due, escludendo altri tipi di relazione. Non si hanno più amici; non si ha alcun rapporto con il prossimo al di fuori del lavoro. Ci si isola dal mondo, perché chi ama ed è riamato è convinto di non aver bisogno di nessuno e realizza la maggior gratificazione nella vicinanza del partner. E proprio l’intensità del piacere di stare insieme è un metro valido per valutare il grado di coinvolgimento affettivo.
L’innamorato avverte il bisogno di contatto e di vicinanza fisica, anche se in questa fase la soddisfazione sessuale è meno importante mentre sono più intense le esigenze affettive. E non è obbligatorio che prima o poi si faccia l’amore. A volte la relazione può restare platonica e in certi casi l’amore più bello è quello che non è mai stato consumato. E questo dovrebbe far meditare quegli uomini insicuri, ossessionati dall’idea del possesso genitale della propria partner.
Tra Monica e Aldo c’è stata inizialmente un’intimità affettiva, ma non sessuale. Entrambi desideravano fare l’amore, ma la paziente ha preferito aspettare perché, e sono parole sue, «un coito è vincente quando è convincente».
Afferma: «Certe cose crescono nel cuore. Io non ce la faccio ancora. Sento il bisogno di un rapporto completo con Aldo e con il suo aiuto riuscirò a realizzarlo. È vero. La mia è una doppia vita: gli affetti da una parte, i palpiti del cuore dall’altra».
Il marito come scelta di complementarità e di appoggio; l’amico come amore, dove ognuno si sente vivo e importante nella vita dell’altro. Aldo le lascia la libertà di amare come può; Monica vive nell’emozione e nella tenerezza. Commenta: «Ho sempre controllato le mie emozioni; ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Giacomo Dacquino
  3. Paura d’amare
  4. Introduzione
  5. I. La pendolare dell’amore
  6. II. Un Narciso in vendita
  7. III. La scambista
  8. IV. Il Peter Pan
  9. V. La trasgressiva
  10. VI. Gli onnipotenti
  11. VII. La vittima di Satana
  12. VIII. L’educazione dei sentimenti
  13. Conclusione
  14. Ringraziamenti
  15. Note
  16. Bibliografia
  17. Indice analitico
  18. Copyright