Nuovi argomenti (22)
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  1. 352 pagine
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Nuovi argomenti (22)

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Hanno collaborato: Enzo Siciliano, Attilio Bertolucci, Paolo Lagazzi, Roberto Galaverni, Flavio Santi, Nino De Vita, Salvatore Ferlita, Valerio Magrelli, Mark Strand, Damiano Abeni, Carola Susani, Enrico Piergallini, Carlo Carlino, Carlo Felice Colucci, Tommaso Lisa, Fabrizio Bajec, Albert Samson, William Blake, Fiornando Gabbrielli, Domenico Pasqua, Sapo Matteucci, Antonio Debenedetti, Roberto Cotroneo, Raffaele Manica, Alfonso Berardinelli, Frediano Sessi, Paola Frandini, Vittorio Giacopini, Valerio Severino, Altiero Scicchitano, Filippo La Porta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852041952
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LA SOCIETÀ ANONIMA:
ROLAND BARTHES

Vittorio Giacopini

Davanti a luoghi meno comuni e più feroci…
F. De Andrè
Semiologia e critica sociale
“Il nemico – aveva scritto in Miti d’oggi – è la Norma borghese”. Per quanto sia stato imbalsamato nella figura levigata dell’esteta, del raffinato virtuoso del linguaggio e anche se avrebbe finito per smarrirsi nei tecnicismi della semiologia o nei vezzi di un autobiografismo di maniera, Barthes è un grande scrittore politico, un critico feroce (e ambiguo) della società. Si era appropriato del motto di Brecht, – “teorizzare e liquidare” – e l’aveva trasformato in un marchio di fabbrica. Le sue diagnosi culturali, le sue raffinate analisi linguistiche hanno un’intenzione politica radicale. Nei suoi testi migliori, più schierati, l’esercizio dell’attenzione, il puntiglio e la vigilanza costante delimitano il perimetro di un campo di battaglia. Il “nemico capitale” è la “Norma borghese”. Il nemico sono le parole e i codici istituiti della società, la retorica del potere, il gergo dei consumi o l’alterigia dell’“alta cultura”. E le appagate ovvietà del senso comune. La critica come demistificazione puntigliosa e ribelle, insofferente. L’indagine riguarda sempre i “segni”, le cose, i tic del linguaggio o le pause artificiali, gli arresti politicamente condizionati del pensiero. Teorizzare e liquidare: non c’è semiologia – aveva aggiunto – senza “semioclastia”. Non dare mai niente per scontato; non accettare niente. La teoria – era convinto – serve a descrivere e smontare un mondo. Era insistente senza essere animoso o arrabbiato. Era preciso. Era irriverente.
Per molto tempo, Barthes è stato costretto a difendere la scienza dei segni – la “semiologia” – dall’accusa di esprimere una “depoliticizzazione della ricerca intellettuale”, di essere un insieme di “metodi che sembrano disinteressarsi della storia, del concreto, del sociale”. Gli sembrava un rimprovero miope. Viviamo, replicava, immersi in “regimi di senso” impliciti e diffusi, siamo circondati dai segni, nuotiamo – senza alzare la testa – nel linguaggio. I segni, il senso, i significati: è come “un’onda di fondo”, una corrente. Gli stessi schemi politici del passato – il potere, l’autoritarismo, la violenza – sono disseminati e sciolti nelle cose, rattrappiti nei gesti ordinari, congelati nelle parole più banali. “Nel XIX secolo dominava la nozione di fatto. Nel XX secolo la ricerca è dominata dal senso”1. L’ostinazione del semiologo non è quindi una forma di acribia mentale, un gioco di prestigio oppure una voga. Il nemico è l’ordine artefatto, la legge. Ma questa legge non sta scritta da nessuna parte e la critica radicale della politica e della società deve passare (non c’è scampo) per le parole, insinuarsi nei movimenti opachi del sociale. Il nemico è una legge invisibile, un sistema di regole inespresse.
Per Barthes, l’opzione “semiologica” è una scelta obbligata, dettata dalla storia, imposta dalle circostanze. La “cultura borghese” poteva essere ancora denunciata con gli strumenti tradizionali dell’invettiva sociale, della protesta militante o della politica. Ma ormai è la vita quotidiana a ricadere nel cono d’ombra di un potere evasivo, immateriale. Le regole sono occultate e non hanno un nome. Non c’è niente che sfugge al ricatto discreto di una “filosofia pubblica” invadente. L’immaginario è colonizzato. La vita materiale è affollata di simboli, abitata da enigmi banali e imbarazzanti. Barthes combatte queste “forme diffuse, volgarizzate”, un regime nascosto che condiziona il puzzle della vita quotidiana. La “cultura dominante” non va ridotta – osserverà – al suo “nucleo inventivo”. L’ordine si impone come un’ideologia “anonima”, diventa un clima e un ritmo costante; un’atmosfera. Miti d’oggi – senza parlare direttamente di politica – protesta contro “la filosofia che alimenta la morale quotidiana, i cerimoniali civili, i riti profani… le regole non scritte della vita di relazione della società borghese”. La critica sociale prende le mosse da questa sorta di stasi o di torpore. È un esercizio del sospetto, una ginnastica della diffidenza. Le parole del potere hanno perso da troppo tempo l’autorevolezza del mito, l’austera severità sdegnosa della Legge. La borghesia penetra il tessuto sociale, le abitudini, la mentalità piuttosto sul piano “dell’indifferenziato, dell’insignificante”. Solo che queste forme minori di imposizione o manipolazione non sono meno efficaci o prepotenti. La loro “posizione intermedia” tra cultura e politica, tradizioni, stili di vita impliciti, consumi, mode, le lascia sussistere quasi “indisturbate fra l’azione dei militanti e il contenzioso degli intellettuali” e le protegge dagli acidi della critica, dalla violenza della contestazione e dal rifiuto.
La grande scommessa di Barthes riguarda la possibilità di riunire queste due dimensioni che la situazione di massa neutralizza e mette in contrasto. Politica e cultura; militanza e ricerca teorica. “Possiamo immaginare – si chiederà in un testo sugli “hippy” subito dopo il 68 – una critica politica della cultura, una critica attiva e non più soltanto analitica, intellettuale?”2. Sapeva quale era il prezzo da pagare, conosceva cosa bisognava affrontare per riuscirci. Nessuna sfida esaltante, nessuna avventura del pensiero, ma un mondo di gesti grezzi e un lungo, sinuoso, deludente viaggio a tentoni tra sintomi ambigui, e dettagli sfocati, irrilevanti. Le due forme più limpide della contestazione avevano finito per sembrargli una caricatura: “il militante continua a vivere da piccolo borghese, l’hippy da borghese capovolto”. Ma possiamo spingere la critica oltre le scelte della politica, il piccolo, grande rifiuto dei beat o le controversie degli intellettuali? E come è possibile dar vita a una critica che “si stabilisca, al di là delle montature ideologiche delle comunicazioni di massa, negli stessi luoghi, sottili, diffusi, della montatura consumistica”? Barthes scrive e teorizza a partire da un vuoto, da una cavità posta tra due estremi. La politica in senso classico, la cultura tradizionale: sono armi spuntate. Resta soltanto l’infinita mediocrità della vita borghese; un’ideologia senza pretese, questo insieme di regole vuote, di leggi inflessibili:
le norme piccolo borghesi sono residui della cultura borghese, sono verità borghesi degradate, impoverite, commercializzate3.
Anche a costo di trasformarla in un “mito”, aveva scelto di misurasi “sistematicamente” con la piccola borghesia, di criticare “in blocco” questa specie di “mostro” e di annientarlo. Decifrare i segni, studiare le cose, criticare un ambiente, rifiutarlo. Quando politica e cultura non coincidono più, all’intellettuale non restano molte chance. Non ha più alternative. Non ci sono rifugi, scappatoie. Partire da sé, attraversare il cortile di casa, ricostruire codici, smontare linguaggi, ascoltare le voci attutite del presente. Barthes era sempre invischiato e un po’ distante. Non era presuntuoso. Sarebbe stato sempre uno scettico, un uomo del dubbio. “La mia specifica posizione storica… il luogo da cui scrivo” – dirà in un’occasione – è di essere alla retroguardia dell’avanguardia: essere d’avanguardia significa sapere cos’è morto; essere di retroguardia significa amarlo ancora”4. Però non voleva lasciarsi accecare dal rancore o indebolire dalla nostalgia. Le cose morte che si amano ancora. Gli avanzi del passato. L’archeologia di un tempo finito, le ombre spente di un’altra cultura. Mentre accettava come un destino obbligato questo paesaggio sfocato di simboli inerti – la cultura di massa, l’esistenza piccolo borghese – Barthes continuava a credere nelle parole, nella valenza politica del linguaggio. Era la sua ancora di salvezza, la sua mania e la sua passione. E poi era anche l’unico modo che conosceva per restare a galla. Seguire le parole; rompere il guscio delle convenzioni; ribaltare i “luoghi comuni”, le frasi fatte. La teoria politica di Barthes è una (contro)filosofia del linguaggio ordinario e un esercizio dell’ironia (“l’interrogativo che il linguaggio pone al linguaggio”) e della diffidenza. Cos’altro è, del resto, una società se non un modo di parlare, un brusio di fondo? Le sue dichiarazioni più radicali riguardano sempre la lingua, le parole:
Nulla è più essenziale a una società che la classificazione dei suoi linguaggi. Cambiare questa classificazione, spostare le parole, è fare una rivoluzione5.
Proprio quest’anno ho avuto l’impressione che la semiologia fosse sul punto di compiere… una svolta: quella di avvicinarsi a un pensiero, a una teoria della storia e… ritrovasse più chiaramente una certa pulsione etica, una capacità di prendere posizione, nella misura in cui propone mezzi via via più concreti per analizzare le alienazioni del senso attraverso il senso, giungendo così a una critica della società capitalistica… mettendo in discussione lo stesso uomo occidentale…6
Spostare le parole significa spezzare il consenso dell’opinione pubblica, provocare il potere, cominciare la “rivoluzione”. Forse esagerava. Ma la sua fiducia politica nella semiologia coincide col gusto di una scoperta, con la realtà spiazzante di un inizio. Era stato tra i primi a portare la critica nel campo di inerzia delle cose, ad attraversare il mondo pacchiano dei consumi. Che cosa “significa” la plastica? Qual è il “senso” profondo di un giocattolo? Che cosa facciamo quando facciamo la spesa, guardiamo il Tour de France, leggiamo la posta del cuore, consultiamo gli oroscopi, ascoltiamo un politico o una maga? Oggi, naturalmente, anche questo tipo di sguardo è consumato. La semiologia è diventata una voga, un punto di vista quasi spontaneo, una seconda natura. Scrittori e giornalisti, teleutenti, cittadini, flirtiamo tutti col linguaggio dei segni, giochiamo con le immagini, ci perdiamo nella pubblicità e nel visuale. “Siamo diventati tutti dei Seguela”, come diceva Serge Daney7. Abbiamo le nostre microfilosofie politiche da zapping a presa rapida, la sofisticata noncuranza di chi si muove nel pianeta globale delle evidenze ingannevoli, dei simboli. Il postmoderno, l’immateriale. Forse la mistica della merce ha finito per prenderci la mano. Non vediamo altro che metafore, cose già sciolte in significati, moltiplicate, caricate di senso, rese impalpabili. Però l’inflazione attuale della semiologia non può cancellare retrospettivamente l’impresa di Barthes, la forza di quel primo sguardo ravvicinato agli oggetti banali della vita quotidiana, la critica del “linguaggio delle cose”, il valore di quel lontano esercizio dell’attenzione e del sospetto.
“Alla retroguardia di tutte le avanguardie”, Barthes provava a scrutare un orizzonte opaco senza lasciarci incantare dal fascino ebete delle cose ovvie. Voleva ricostruire il disegno nel tappeto dell’infraordinario, dell’irrilevante. Prima di tornare alla politica, aveva questa esigenza di sondare il terreno, di capire. Senza le certezze ideologiche, o il manicheismo, dei situazionisti, anche Barthes mirava a una “riappropriazione” della vita quotidiana che garantisse nuovi spazi di libertà, creatività, autonomia. Tutte le sue divagazioni, i suoi arzigogolati detour, le sue acuminate diagnosi morali puntavano sempre a quest’obbiettivo sfuggente e incompiuto, costantemente aperto: “l’analisi di ciò che si potrebbe chiamare il testo della vita”, la lettura della prosa del mondo, l’interpretazione (come in Sade, Fourier, Loyola) delle infinite, sparse “utopie domestiche” che hanno cercato di immaginare, separandosi dai grandi scenari della Storia, “la liberazione della nostra vita reale, alienata” e nuove “arti di vivere” da spendere subito nel quadro angusto del presente.
Riguadagnare la vita quotidiana, studiare il “senso” di cose banali, consumi, situazioni. La critica sociale dovrà attraversare nuovi spazi, zone da sempre confinate nell’ovvio. Barthes sa che si tratta di uno slalom, l’ostacolo è il perbenismo della mentalità dominante, il filisteismo di piccolo borghesi, intellettuali, esponenti della vecchia critica. Il rischio: la noia, la condanna a parlare troppo del reale, l’obbligo di frequentare l’irrilevante. Il “gusto” piccolo borghese – il canone autentico della vecchia critica – è un “insieme di divieti”; un sistema di veti, proibizioni. Proibito “parlare degli oggetti”, assolutamente vietato abbandonare la “lettera” del testo, sconsigliato tirare in ballo la politica o il potere. Ma se la vecchia critica non vede mai la vita concreta (e non capisce la letteratura: perché “la letteratura non ha cessato di commentare il carattere intollerabile delle situazioni banali”8), il semiologo dovrà forse pagare un prezzo opposto. Un eccesso di stimoli, un sovraccarico di dati, informazioni. Alla lunga, il nemico del Mito, il demistificatore del linguaggio, finisce per trovarsi bloccato dalla sua stessa scelta di campo. L’occhio allenato a leggere i dettagli finisce per perdere di vista l’insieme, per non riconoscere più la posta in gioco:
Sembra quasi che ci si sia condannati per un certo tempo a parlare eccessivamente del reale9.
Miti d’oggi si chiude su un autoritratto imbarazzante. Il “mitologo in sé” vive una contraddizione: quel reale di cui corre il rischio di occuparsi “eccessivamente” può relegarlo in un curioso ruolo di rincalzo. Sospeso a metà strada tra la partecipazione cosciente alle situazioni della storia e l’estraneità di una pratica critica troppo sarcastica e corrosiva per consentire un’effettiva comunione con gli altri, il mitologo vive “l’azione rivoluzionaria solo per procura”. La sua parola, ammette Barthes, è “un metalinguaggio, non agisce su niente”. Il suo lavoro “rimane ambiguo”. È separato dalla politica che “lo giustifica” e si ritrova “escluso dalla storia… in nome della quale pretende di agire”. Gli acidi della critica, il prezzo di una coscienza troppo limpida, l’ironia o la disillusione: “la distruzione che porta nel linguaggio collettivo è, per lui, assoluta, riempie fino all’orlo il suo compito: egli deve viverlo senza speranza di ritorno, senza ipotesi di compenso”. Mentre concede qualcosa alla retorica, Barthes intuisce un paradosso radicale. “Parlare eccessivamente del reale” può anche voler dire restare invischiati nel linguaggio delle cose, pagare un tributo troppo alto alla logica dei consumi, al gergo indipendente di merci, miti piccolo borghesi, luoghi comuni, convenzioni. Il critico sociale nel tempo della società di massa e dei consumi deve immergersi nell’orizzonte della apparenze sociali e, simultaneamente, porsi “fuori” dalla società. Non può ignorare nessuna forma di mentalità diffusa e collettiva, ma non deve condividere mai niente. Non può identificarsi o ritrovarsi. Deve prendere tutto sul serio; non deve mai prendere niente troppo sul serio. I miti piccolo borghesi raggiungono “l’intera collettività” e plasmano un mondo mentale, un’atmosfera. Il mitologo (queste esperto dell’ovvio, questo specialista del banale) non ha alternative: “se si vuole liberare il mito è dall’intera collettività che bisogna allontanarsi”. Davanti all’orizzonte dei consumi, la critica non pone più questioni gerarchiche o di rango (la cultura alta o la cultura bassa, l’industria culturale…) ma esprime un dilemma esistenziale di partecipazione e rapporti sociali, di moralità. Il critico deve imparare a frequentare un mondo banale senza restarne irretito. Conoscere tutto delle passioni, degli idoli, dei tic mentali, delle tranquille, regolari abitudini dei suoi concittadini senza condividerne neppure una. Vivere la massima socialità nell’isolamento e nel distacco:
il mitologo si esclude dalla massa dei consumatori di mito e non poco… quando il mito raggiunge l’intera collettività… è dall’intera collettività che bisogna allontanarsi… Il mitologo è condannato a vivere una socialità teorica: per lui, essere sociale, significa, nel migliore dei casi, essere vero: la sua massima socialità risiede nella sua massima moralità. Il suo legame col mondo è di ordine sarcastico10.
Barthes è l’unico critico radicale della società che abbia espresso il suo rifiuto integrale del “sistema” piccolo borghese ricorrendo all’esprit de f...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nuovi Argomenti (22)
  3. DIARIO
  4. ATTILIO BERTOLUCCI
  5. LEONARDO SCIASCIA
  6. SCRITTURE
  7. GIORGIO BASSANI
  8. CANTIERE
  9. GIORNALI DI BORDO
  10. Copyright