Picchiarono alla porta. Un rumore sordo stava interrompendo il nostro pranzo in una bella giornata d’estate. Fu il babbo ad alzarsi da tavola per andare ad aprire. I suoi occhi smisero subito di sorridere, la sua faccia cambiò espressione, come se una cosa brutta, una cosa davvero brutta, stesse per capitare. Mi sembrò che persino i raggi di sole che filtravano dalle tendine si fossero all’improvviso rabbuiati, come se la meravigliosa musica che fino a un attimo prima echeggiava nei cuori della nostra famiglia, fosse anch’essa scomparsa. La mamma era in cucina e si precipitò dal babbo. Tre soldati tedeschi entrarono sbraitando in una lingua incomprensibile. Presero il babbo per un braccio e gli fecero segno di seguirli. “Mamma!, mamma!, chi sono questi, mamma?, cosa vogliono questi? Cosa vogliono questi brutti uomini? Mamma! Ho paura!” urlai. Il babbo si fermò un attimo, mi guardò dritto negli occhi, mi tese una mano e mi disse: ”Non devi aver paura, stai vicino a mamma e a Lietta”. Poi uscì dalla porta di casa. La mamma mi strinse forte a sé. Lo guardai allontanarsi. Restammo muti. Seduti nel nostro salotto: un divano ricoperto di tessuto a fiori, pochi cuscini agli angoli, un tavolo quadrato con un grande centro pieno di frutta, quattro sedie impagliate.
La mamma quasi non respirava. Mia sorella mi stringeva forte la mano. Ma faceva caldo e la mia scivolava via dalla sua. Capivo che stava capitando qualcosa di tremendo.
I tedeschi continuarono a picchiare alle porte degli altri inquilini per farle aprire. I tre uomini che abitavano al primo piano, gli amici del babbo, furono anche loro costretti a seguirli. Al secondo piano invece l’ingegner Stella non rispose. Non aprì. Si salvò.
Quei tre signori con gli stivali neri lucidi, quei mitra in mano e quella voce rauca e dura che parlava una lingua a me ignota mi avevano riempito di terrore. Il babbo no, lui di paura non ne aveva. “Torno presto” disse, e furono le sue uniche, sole parole, seminascoste da un dolcissimo sorriso che non dimenticherò mai. Ero un bambino, ma quel sorriso è inciso a vita nella mia mente, nel mio sangue.
Il babbo sparì dalla nostra vista e dalla nostra vita appena girato l’uscio di casa.
Abitavamo ai Villini; la nostra era una delle tante case, tutte uguali, tutte come quelle che t’insegnano a disegnare alle elementari, su tre piani, una porta, due finestre al pianoterra, tre a quello di sopra e tre a quello di sopra ancora. Dalle vetrate si vedeva la campagna. Un comignolo svettava sul tetto spiovente di tegole rosse.
I Villini erano la parte del villaggio riservata ai dirigenti della miniera. Sotto c’erano le aziende con le mucche da latte. Si chiamavano Le Muccherie.
Il paese era Castelnuovo dei Sabbioni. Si trovava a quaranta chilometri da Firenze. Un paese in salita. Poche costruzioni ai lati della strada. Poche vie. Una piazza con belle case a sinistra e a destra. Più in basso, i Villini. Proprio di fronte alle nostre finestre, una parete rocciosa con un tunnel: il rifugio in caso di bombardamento. Quella parete diagonale era la meta di uno dei nostri giochi preferiti: la scalavamo e vinceva chi arrivava più in alto. Poi c’era un bar, il solo del paese, e un ruscello che costeggiava il villaggio. E poi ancora dei tornanti che salivano su, su, fino alla chiesa, che dominava la vallata dalla cima del cucuzzolo.
Tutti al paese lavoravano in miniera.
Chi abitava ai Villini era, pur nella sua modestia sociale, un privilegiato.
La mia mamma era giovane, piccola e minuta. Amava vestirsi bene senza strafare, senza spendere; le piaceva mettere in evidenza la sua minuscola vita con quei cinturoni alti e stretti. Ed era sempre sorridente, la mamma, innamorata di Giorgio e della vita. Quella mattina rimase accanto al babbo mentre si radeva. Avrebbe voluto che lui scappasse. “Almeno mi troveranno sbarbato…” rispose invece lui alle sue insistenze.
Erano diversi giorni che si sentiva nell’aria odore di pericolo. La guerra e i bombardamenti erano sempre stati lontani; in paese però da un po’ di tempo si cominciava a parlare con insistenza di fatti accaduti nei comuni vicini. Si parlava di rappresaglie. Un tedesco era stato ferito, o anche solo sfiorato, da una pallottola. Di questo si parlava il giorno prima.
Il babbo si era laureato da poco e in paese lo chiamavano “Dottore”. Lavorava tutto il giorno in miniera come geometra, e la sera, quando tutti avevamo finito di mangiare, mentre mamma sparecchiava, prendeva i suoi libri, si sedeva e cominciava a studiare. Studiava sino a notte fonda. La mamma stirava, poi lo chiamava e lui la raggiungeva; li sentivo parlare, talvolta ridere. Insieme erano felici. E sognavano! Desideravano un futuro diverso. Non volevano stare tutta la vita a Castelnuovo dei Sabbioni. Lui aveva fatto tanti sacrifici per laurearsi, e quando era partito per andare in guerra in Albania aveva fatto una promessa alla mamma. Le scriveva tutti i giorni, con quella sua calligrafia minuziosa, perfetta.
“Tornerò presto” le aveva assicurato in una delle sue ultime lettere.
Si sposarono. Il babbo accettò un lavoro fisso in miniera, così poterono avere una casa tutta per loro. Poi venne mia sorella. Poi io. Poi la laurea e gli amici.
Il babbo era speciale, allegro; rideva e scherzava su tutto con i vicini, che erano anche i suoi migliori amici. Loro erano il gruppo dei giovani. Gli altri erano gli ingegneri e i dirigenti, ed erano lì da più tempo. Uno dei giochi preferiti dei giovani era fare le imitazioni dei dirigenti. A turno uno si alzava, mimava e faceva le boccacce e gli altri dovevano indovinare chi fosse la vittima della presa in giro. Il babbo e i suoi amici ridevano come matti, mentre la mamma, pur divertendosi, a volte li riprendeva, perché ogni tanto esageravano e temeva che i superiori se ne potessero accorgere.
La tata Giuliana veniva ogni giorno ad aiutare mamma a fare i lavori di casa. Aveva mani grandi e viso rosso. La ricordo sempre trafelata; anche perché la mamma aveva la mania di cambiare continuamente qualcosa in casa, le piaceva spostare un mobile, una sedia, un quadro: la casa, insomma, era in perenne movimento. Proprio come lei. E questo era un altro motivo di divertimento per il babbo. Un giorno, mentre la mamma era da Ines, la sarta del paese, che aveva il laboratorio a metà della salita, dunque lontano dai Villini, il babbo e i suoi amici ne avevano approfittato per farle uno scherzo: erano entrati in casa e avevano cambiato non solo la disposizione dei mobili, ma addirittura la destinazione d’uso delle stanze, e per un paio d’ore materassi e letti erano migrati vagando da una camera all’altra.
Quando la mamma tornò si mostrò molto divertita.
Eravamo felici.
Poi venne quella mattina, la mattina del 4 luglio. Il vento di quel giorno, nella canicola estiva, portava i rumori a valle, e il paese era piombato in un silenzio assoluto, ovattato. In piazza, le donne, dietro le persiane semi accostate, stavano assistendo a una scena fatta di frammenti che si componevano poco alla volta: piccoli gruppi di persone, giovani e meno giovani, venivano trascinati, spintonati, da tre o quattro ragazzi armati che li minacciavano coi mitra. E così, alla spicciolata, come tante comparse di un film, si ritrovarono in più di ottanta. Si guardavano l’un l’altro increduli e disperati. Fu ordinato loro di raggrupparsi e di andare vicino al muro roccioso. Non c’era tempo per porsi delle domande. I mitra cominciarono a sparare. Alcuni, ai lati della fila, si buttarono giù dal ponte nel ruscello, o nel burrone; altri si nascosero sotto il ponte. E quelli si salvarono.
Gli altri morirono tutti. Ammassati l’uno sull’altro. Poi furono cosparsi di benzina e venne dato fuoco ai corpi.
Poi di nuovo il silenzio. Solo la morte porta un silenzio così cupo, così tetro, così profondo. Solo la morte pone fine a ogni sofferenza.
Un fumo grigio oscurò il cielo azzurro d’una giornata d’estate. Tutt’attorno il dolore. Un dolore tangibile. Non solo ci sembrava di toccarlo. Lo toccavamo proprio.
Di colpo si spalancò la porta e quel dolore entrò in casa nostra. Aveva le sembianze di un uomo brutto, di un uomo detestato in paese, un ubriacone bestemmiatore. Entrò urlando: “Ve li hanno ammazzati tutti!”. E lo ripeteva in continuazione, sempre più forte. “Ve li hanno ammazzati tutti!”
Nella piazza, le donne, vestite di nero come le vecchie del paese, tenevano sollevato il grembiule con le loro mani nodose davanti alla faccia.
Piangevano, urlavano, dicevano cose incomprensibili.
La mamma corse fuori. Io e mia sorella la seguimmo sino all’angolo della strada. Altre donne, sempre urlando, correvano, come impazzite, in ogni direzione, e ci spinsero indietro. Animali feriti e impauriti. Mia sorella e io ci accovacciammo vicino alle scale che portavano al piano superiore. Ci volevamo nascondere, ma i miei calzoncini corti e il suo vestitino striminzito non ci davano grandi possibilità di riparo. Ci stringemmo forte; mia sorella mi prese tra le braccia con tutta la forza che poteva avere una bambina di sette anni, piccola, ma già cosciente della tragedia che ci aveva appena colpito. La porta dell’appartamento del primo piano sopra di noi si aprì. Era il nostro vicino, Stella. I soldati gli avevano quasi tirato giù l’uscio a forza di picchiare, ma lui non aveva aperto. Destino, disse. Pronunciò quella sola parola, abbassando la testa come per scusarsi, poi se ne andò in fretta.
Era il 4 luglio 1944. Mio padre aveva trentatré anni. La mamma tornò in silenzio, come sempre. Non disse una parola. Andò in camera da letto e noi la seguimmo. Io non avevo capito e, spinto dall’abitudine, presi le pantofole che il babbo teneva sotto il letto e le portai come al solito in cucina. Era il mio gioco preferito, nascondergli le pantofole, e poi farmi prendere in braccio, farmi lanciare in aria quando le ritrovava. E dopo io ridevo e lui mi faceva il solletico per farmi ridere ancora di più. Avremmo riso anche quella volta. Ci sedemmo a tavola per mangiare. Potevamo cominciare, quella sera; non dovevamo aspettarlo. Papà era in ritardo, ma sarebbe tornato. Non subito, ma sarebbe tornato.
Il fatto che qualcuno si fosse salvato dava speranza a tutte le famiglie. La prima notte trascorse, ce ne stavamo abbracciati stretti stretti l’uno all’altro nel lettone, e mia sorella Lietta sussurrava alla mamma: “Vedrai che torna, vedrai che si è salvato”.
Per giorni aspettammo. Lietta era sempre più convinta di vederlo apparire da un momento all’altro nel piazzale davanti a casa e poi entrare in salotto.
Passarono le ore, passarono i giorni, con un andirivieni continuo di donne che bisbigliavano, piangevano, ci guardavano con compassione.
Con una cocciutaggine forte e dolorosa mia madre impacchettava tutto. Tazza per tazza, bicchiere per bicchiere, piatto per piatto. Fingeva di credere che lui si stava solo nascondendo per tornare quando le cose si fossero calmate.
Non voleva lasciare niente di quella sua vita, neanche un piccolo oggetto. Niente che potesse ricordare quel paese di tristezza. Raggruppò le lenzuola, le coperte, i cuscini, i materassi, gli scaldaletto e un piccolo tappeto, un regalo di matrimonio.
Intanto in paese erano arrivati altri soldati. Parlavano un’altra lingua, portavano scarponcini con i lacci simili a quelli dei minatori e come cappello avevano delle bustine a barchetta rovesciata tipo quelle che facevamo noi bambini per vederle scorrere nel ruscello, o come quelle che mettevano in testa i muratori, fatte con la carta di giornale. Andavano di casa in casa. Regalavano ai bambini chewinggum e cioccolata.
Il nonno Giuseppe, il babbo della mamma, ci fece avere un lasciapassare per arrivare a Firenze. Non fu facile; l’aiutò l’Arcivescovado, con cui era in buoni rapporti perché aveva fatto il ritratto del cardinale Elia Della Costa. Così venne il giorno della nostra partenza. I soldati ci fecero salire assieme ad altri su un camioncino aperto con due pancali come seduta. Non c’era posto, e la mamma dovette decidere cosa portarsi dietro: prese qualche valigia, delle scatole, un fiasco d’olio d’oliva e la gabbia per trasportare “La Bersagliera”, la sua gallina preferita, che con quell’enorme cresta rossa, sempre un po’ ciondolante, ci avrebbe seguito ovunque e sarebbe morta vecchissima in via Maragliano. La mamma chiuse la porta di casa a chiave; sembrava dovessimo tornare entro qualche ora. L’abitudine di sempre. E invece ci lasciavamo dietro una vita. Una vita serena e piena di sogni. E di speranze. Diretti a Firenze per andare a stare a casa del nonno Giuseppe.
Partimmo di notte. Il paese era infuocato. C’era luce come di giorno. Incendi ovunque. La gente scappava e bruciava tutto alle proprie spalle.
Con le nostre masserizie caricate sul camioncino dondolante, mentre scendevamo lentamente a fari spenti giù dalle colline sulla strada di campagna tutta buche e pietre, un apparecchio tedesco si abbassò sempre più su di noi e cominciò a mitragliare. I soldati che ci accompagnavano ci urlarono di scendere e di correre a stenderci nei campi di grano. La mamma ci teneva stretti e ci supplicava di tenere bassa la testa: io da un lato e Lietta dall’altro. Per me era tutto un gioco, un nuovo gioco da raccontare agli amici; tenevo la testa fra le braccia di mamma, ma con un occhio scrutavo il cielo, mentre i proiettili traccianti ci passavano sopra la testa, illuminando a sprazzi il campo. “Le lucciole!” gridai. Erano infatti come tante lucciole che di colpo si accendono e di colpo spariscono. Nelle sere d’estate ci nascondevamo spesso nei campi per andarle a vedere. Io ero felice di tutte quelle lucciole che ci circondavano, e la mamma, tenendomi ben appiccicato al terreno, mi diceva di guardarle, che erano bellissime, ma aggiungeva che dovevamo star fermi perché altrimenti se ne sarebbero volate via e non le avremmo mai più riviste. Io trattenevo il fiato.
Ero già un po’ più grande quando vidi le lucciole per la prima volta nei campi dei contadini vicino alla casa del nonno, in via Maragliano a Firenze. Parlo di quelle vere. Silenziose come solo i sogni e i desideri sanno essere.
Al nostro arrivo, alle prime luci dell’alba, il nonno e zia Giuliana, la sorella di mamma, ci accolsero con pianti e abbracci. Poche parole. La loro casa era un villino a schiera, disposto in fila assieme a tanti altri. Via Maragliano 89. La strada era sterrata, e davanti si aprivano i campi, grandi e coltivati con cura dalle famiglie dei contadini. E più in là un ruscello: il Mugnone. Le villette erano più o meno tutte uguali, stessa altezza, stesso colore. Si entrava da un portone marrone, posto sulla sinistra della facciata, che aveva un campanello color oro a forma di muso di leone. All’interno un gran corridoio, poi subito a destra una piccola camera dove io e mia sorella dormivamo in un unico letto. Sotto ci nascondevo tutto quello che riuscivo a raccattare in giro vicino a casa o nei campi. Una volta ci portai anche una gattina. La pensavo malata, tanto era gonfia e si lamentava. La mattina presto fummo svegliati da un continuo miagolio, trovammo tre piccoli mici, e lei che li stava allattando. “Adesso non piange più!” dissi tutto fiero a Lietta.
Al centro del primo piano della casa c’era un soggiorno diviso in due parti: la zona tinello era composto da due poltrone ricoperte d’un tessuto ormai liso, un tavolino con una radio gracchiante che ogni tanto funzionava – ma che comunque andava tenuta bassa – e una credenza in legno intagliato che conservava il servizio di piatti di porcellana usato nelle grandi occasioni. Sulla parete principale troneggiava un grande ritratto della nonna, che era venuta a mancare alcuni mesi prima della mia nascita.
La zona sala da pranzo era invece quasi completamente occupata da un bel tavolo dello stesso legno della credenza, con otto sedie attorno.
Nella cucina, tra le mattonelle di ceramica bianca, spiccava un enorme camino che serviva a raccogliere i fumi di grandi forn...