Postmortem
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Postmortem

  1. 322 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Un serial killer è in azione nella città di Richmond: già tre donne sono morte, violentate e strangolate nelle loro camere da letto. Nulla le accomuna, l'omicida sembra colpire a caso. La sola costante è che i delitti avvengono sempre di sabato, prima dell'alba. è per questo che quando una telefonata della polizia la sveglia nel cuore della notte, Kay Scarpetta, capo dell'ufficio di medicina legale della Virginia, intuisce immediatamente che l'inafferrabile assassino ha agito di nuovo. La minaccia incombe, il sanguinario killer può tornare a colpire in qualunque momento e da qualunque parte. Kay non può escludere nessuna ipotesi, nemmeno quella di essere il suo prossimo obiettivo. E sa di avere anche altri nemici: qualcuno che sta cercando di intralciare la sua azione, qualcuno che nell'ombra cerca di insidiarne il ruolo, compromettendo irrimediabilmente la caccia all'assassino.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852041556

1

Venerdì 6 giugno a Richmond pioveva.
L’acquazzone incessante, cominciato all’alba, aveva infierito sui gigli riducendoli a nudi steli e sparso foglie sull’asfalto e sui marciapiedi. Rivoli d’acqua correvano per le strade; nei campi da gioco e nei prati si allargavano grandi pozze. Andai a dormire con il sottofondo della pioggia che scrosciava sulle lastre di ardesia del tetto e, mentre la notte sfumava nella nebbia dell’aurora del sabato, feci un sogno orribile.
Al di là dei vetri della finestra striati di pioggia apparve un volto livido, dai tratti informi e inumani come quelli delle bambole fatte con le calze di nailon. La finestra era buia quando la sagoma apparve, simile a uno spirito maligno, intenta a scrutare all’interno. Mi svegliai e fissai l’oscurità. Soltanto quando il telefono squillò di nuovo capii cosa mi aveva destato. Trovai la cornetta senza annaspare.
«La dottoressa Scarpetta?»
«Sì.» Allungai una mano verso l’interruttore dell’abat-jour e lo accesi.
«Qui Pete Marino. Ne abbiamo trovata un’altra al 5602 di Berkley Avenue. Mi sa che è meglio che venga.»
Il nome della vittima, proseguì, era Lori Petersen, sesso femminile, razza bianca, trent’anni. Il marito aveva trovato il cadavere circa mezz’ora prima.
Non servivano altri particolari. Avevo capito nell’istante in cui avevo sollevato il ricevitore e riconosciuto la voce del sergente Marino. Forse l’avevo realizzato già al primo squillo. Chi ha paura dei lupi mannari teme anche la luna piena. Io avevo cominciato a temere le ore tra la mezzanotte e le tre, quando il venerdì diventa sabato e la città sembra sprofondare nell’incoscienza.
In circostanze normali, è il medico legale di turno a recarsi sul luogo di un omicidio. Questo però non era un omicidio come tanti altri. Avevo ribadito, dopo il secondo caso, che se ci fosse stato un altro delitto, a qualsiasi ora, avrebbero dovuto chiamare me. A Marino l’idea non era piaciuta. Fin da quando, meno di due anni prima, ero stata nominata direttrice del Centro di medicina legale del Commonwealth della Virginia, mi aveva creato delle difficoltà. Non sapevo bene se non gli piacevano le donne, oppure se ero semplicemente io a non piacergli.
«È a Berkley Downs, Southside» disse in tono condiscendente. «La sa la strada?»
Confessai che non la sapevo e scribacchiai le indicazioni sul taccuino che tenevo sempre accanto al telefono. Un attimo dopo aver riappeso avevo già i piedi sul pavimento, con l’adrenalina che mi frustava i nervi come un caffè espresso. La casa era silenziosa. Afferrai la valigetta nera, acciaccata e consunta da anni e anni di usura.
L’aria notturna mi fece l’effetto di una sauna fredda, le finestre delle case vicine erano buie. Mentre in retromarcia uscivo dal vialetto alla guida della mia station wagon blu alzai lo sguardo verso la luce accesa sopra il portico, verso la finestra del primo piano, quella della camera da letto degli ospiti. Lì dormiva Lucy, la mia nipotina di dieci anni. Ecco un altro giorno della sua vita che mi sarei persa. Ero andata a prenderla all’aeroporto il mercoledì sera e da allora ben poche volte eravamo riuscite a mangiare insieme.
Trovai traffico solo quando mi immisi sulla Parkway. Pochi minuti dopo filavo verso il James River. Davanti a me i fanalini di coda delle auto brillavano come rubini, mentre nello specchietto retrovisore si stagliavano le forme spettrali del centro della città. Da entrambi i lati della strada filavano via pozze di tenebre orlate da festoni di luce fangosa. Là fuori, chissà dove, c’è un uomo, pensai. Può essere chiunque: cammina, dorme sotto un tetto, ha tutte le dita delle mani e dei piedi. Probabilmente è di razza bianca e ha molto meno dei miei quarant’anni. È un individuo come tanti, secondo quasi tutti gli standard e probabilmente non guida una Bmw, non frequenta i bar della Slip, non si veste nelle boutique di lusso di Main Street.
D’altra parte, tutte queste cose potrebbe benissimo farle. Potrebbe essere chiunque e non è nessuno. Il signor Nessuno. Il tipo di uomo che si dimentica subito dopo aver fatto venti piani con lui in ascensore.
Si era autonominato padrone notturno della città, era un’ossessione per migliaia di persone che non aveva mai visto, oltre ad esserlo per me. Il signor Nessuno.
Siccome i delitti erano cominciati due mesi prima, poteva darsi che fosse uscito da poco da una prigione o da un ospedale psichiatrico. Questo almeno era ciò che si pensava la settimana precedente, ma le teorie cambiavano di continuo.
La mia, invece, era rimasta immutata fin dall’inizio. Sospettavo fortemente che non abitasse da molto in città, che avesse colpito anche altrove, che non avesse mai passato un giorno dietro le sbarre di un carcere o di un manicomio. Non era disorganizzato, non era un dilettante e, con estrema certezza, non era “pazzo”.
Wilshire era due semafori più giù, verso sinistra; ancora un semaforo e poi veniva Berkley.
Vedevo le luci rosse e blu lampeggiare a un paio di isolati di distanza. La via di fronte al 5602 di Berkley era illuminata come la scena di una catastrofe. Un’ambulanza, il motore rombante, era ferma accanto a due macchine della polizia senza contrassegni con le luci sul tetto che lampeggiavano e a tre auto bianche con tutte le luminarie in funzione. La troupe del telegiornale di Channel 12 era appena arrivata. Lungo tutta la strada le finestre erano illuminate e sotto i portici delle case c’erano numerose persone in pigiama e vestaglia.
Parcheggiai dietro al furgone del telegiornale, mentre un cameraman attraversava trotterellando la strada. Testa china in avanti, colletto dell’impermeabile cachi alzato fin sugli occhi, m’incamminai velocemente lungo il vialetto che conduceva alla porta d’ingresso. Mi ha sempre profondamente disgustato vedermi ripresa nel notiziario della sera. Da quando a Richmond erano cominciati i casi di strangolamento, il mio ufficio era stato subissato, sempre gli stessi reporter che non facevano altro che telefonarmi e pormi le stesse domande brutali.
«Il fatto che si tratti di un serial killer, dottoressa Scarpetta, significa che molto probabilmente ci saranno altri delitti come questo?»
Come se desiderassero che succedesse davvero.
«È vero dottoressa che sull’ultima vittima ha scoperto segni di morsi?»
Non era vero ma, comunque rispondessi alla domanda, erano loro ad avere la meglio. Un “niente da dichiarare” li portava a supporre che fosse vero. Con un “no”, nella prima edizione si leggeva “La dottoressa Kay Scarpetta nega che sul corpo delle vittime siano stati trovati segni di morsi…”. E all’assassino, che come chiunque legge i giornali, magari veniva una nuova idea.
Recenti articoli apparsi sulla stampa erano prodighi di particolari orripilanti. Andavano ben al di là dello svolgere l’utile servizio di mettere in guardia i cittadini. Le donne, in particolare quelle che vivevano da sole, erano terrorizzate. Nella settimana dopo il terzo assassinio, la vendita di rivoltelle e di serrature di sicurezza era aumentata del cinquanta per cento e il canile municipale era rimasto senza cani, fatto che, ovviamente, era finito in prima pagina. Il giorno prima, la famigerata cronista di nera Abby Turnbull, vincitrice di molti premi, aveva dato prova della sua sfacciataggine entrando nel mio ufficio e aggredendo i miei collaboratori a colpi di Freedom of Information Act, nel tentativo – fallito – di procurarsi una copia del referto dell’autopsia.
I cronisti di nera erano molto aggressivi a Richmond, vecchia città della Virginia di 220 mila abitanti che secondo le statistiche dell’anno prima si era ritrovata al secondo posto negli Stati Uniti per il tasso di omicidi. Capitava di frequente che i medici legali del British Commonwealth passassero un mese nel mio ufficio per apprendere qualcosa di più sulle ferite d’arma da fuoco. E altrettanto di frequente capitava che i poliziotti di carriera come Pete Marino fuggissero l’insania di New York o di Chicago solo per scoprire che Richmond era peggio.
Il dato insolito era che ci trovavamo di fronte a omicidi a sfondo sessuale. Il cittadino medio non si sente coinvolto in un omicidio per droga o per motivi familiari, o quando un ubriaco ne accoltella un altro per una bottiglia di Mad Dog. Le donne assassinate invece non erano diverse dalle colleghe di lavoro, dalle amiche con cui si va a fare lo shopping o che si vanno a trovare per un drink, dalle conoscenze con cui si chiacchiera a un party, dalla gente con cui si sta in coda alla cassa del supermercato. Erano le vicine di qualcuno, le sorelle di qualcuno, le figlie e le amanti di qualcuno. Erano a casa loro, dormivano nel loro letto, quando il signor Nessuno scavalcava una delle loro finestre.
Due uomini in uniforme facevano la guardia alla porta d’ingresso, spalancata ma sbarrata da un nastro adesivo giallo con la scritta INDAGINI DI POLIZIA – LIMITE INVALICABILE.
«Dottoressa.» Avrebbe potuto essere mio figlio, questo ragazzo in uniforme blu che, in cima ai gradini, si faceva da parte e sollevava il nastro per farmi passare sotto. Il soggiorno era immacolato, piacevolmente arredato in toni rosa caldo. In una bella vetrina di ciliegio posta in un angolo c’erano un piccolo televisore e un compact disc player; accanto, su un leggio, uno spartito e un violino. Davanti alla finestra schermata da un tendaggio che dava sul praticello anteriore erano disposti un divano componibile e un tavolino sul quale erano posate ordinatamente una dozzina di riviste, tra cui lo “Scientific American” e il “New England Journal of Medicine”. Oltre il tappeto cinese decorato con un drago e con un medaglione rosa su fondo beige, c’era uno scaffale in noce. I due ripiani erano stipati di manuali universitari di medicina.
Da una porta aperta si passava in un corridoio che percorreva l’intera lunghezza della casa. Alla mia destra si apriva una fila di stanze, alla sinistra c’era la cucina dove Marino e un giovane poliziotto parlavano con un uomo che immaginai fosse il marito.
Notai vagamente mobili immacolati, pavimenti di linoleum ed elettrodomestici di quel colore bianco spento che nei cataloghi è definito “color mandorla”, oltre al giallo pallido della tappezzeria e delle tende. Fu però il tavolo ad attrarre la mia attenzione. Sopra c’era uno zaino di nailon rosso, il contenuto del quale era già stato esaminato dalla polizia: uno stetoscopio, una torcia, un Tupperware che una volta aveva contenuto del cibo o uno spuntino e numeri recenti di “Annals of Surgery” e del “Journal of Trauma”. A questo punto ero piuttosto sconvolta.
Marino mi guardò freddo mentre mi fermavo accanto al tavolo e mi presentò Matt Petersen, il marito. Petersen era accasciato su una sedia, i lineamenti sconvolti dallo shock. Era di una bellezza raffinata, lo si sarebbe potuto dire stupendo, con quelle fattezze perfettamente cesellate, i capelli nerissimi, la pelle liscia con una traccia di abbronzatura. Aveva spalle larghe su un corpo snello ma scolpito con eleganza; vestiva in modo informale: una camicia bianca marca Izod e un paio di blue-jeans scoloriti. Teneva gli occhi bassi, le mani serrate sul ventre.
«È roba di sua moglie?» volli sapere. Gli strumenti medici potevano appartenere al marito. Il «già» di Marino me lo confermò.
Petersen alzò lentamente lo sguardo. Occhi color azzurro scuro, iniettati di sangue. Sembravano quasi sollevati, mentre mi fissavano. Il dottore era arrivato, un raggio di speranza dove i raggi di speranza erano assenti.
Mormorò qualcosa, parlando a frasi smozzicate, con la mente scissa, sconvolta. «Le ho parlato al telefono. Ieri sera. Ha detto che sarebbe tornata verso mezzanotte e mezzo, tornata dal VMC, il Virginian Medical Center. Sono arrivato, ho trovato le luci spente e ho pensato che fosse già andata a letto. Poi sono entrato in casa.» La voce si fece acuta, tremante; lui respirò a fondo. «Sono entrato là, sono entrato là dentro, nella camera da letto.» Aveva un’espressione disperata negli occhi, quasi implorante. «La prego, non voglio che nessuno la guardi, che la veda così. La prego
«Bisognerà fare degli esami, signor Petersen» dissi gentilmente.
Picchiò all’improvviso un pugno sul tavolo, in un soprassalto di rabbia. «Lo so!» Aveva un’espressione feroce negli occhi. «Ma tutta quella gente, la polizia e tutti gli altri!» Gli tremava la voce. «Lo so cosa succede! Giornalisti, tutti, accalcati intorno. Non voglio che quei figli di puttana la vedano!»
Marino non batté ciglio. «Ehi. Ho una moglie anch’io, Matt. Lo so cosa vuol dire, capito? Hai la mia parola che la tratteranno con rispetto. Lo stesso rispetto che pretenderei se fossi seduto al tuo posto, se fossi io a essere seduto sulla tua sedia, capito?»
Il dolce balsamo delle menzogne.
I morti sono indifesi e la violazione di questa donna, come quella delle altre, era solo cominciata. Sapevo che non sarebbe terminata fino a quando Lori Petersen non fosse stata rivoltata, fotografato ogni centimetro del suo corpo, il tutto messo a disposizione degli esperti, della polizia, degli avvocati, dei giudici e dei membri della giuria. Ci sarebbero state riflessioni, osservazioni sui suoi attributi fisici o sulla loro mancanza. Ci sarebbero state battute goliardiche e ciniche, mentre la vittima, non l’assassino, finiva sotto processo e ogni aspetto della sua persona, del suo modo di vita, veniva esaminato, giudicato e, in alcuni casi, insozzato.
Una morte violenta è un evento pubblico ed era proprio questo risvolto della mia professione che urtava duramente la mia sensibilità. Facevo quel che potevo per salvaguardare la dignità delle vittime, ma ben poco potevo fare quando una persona era ormai un numero di un fascicolo, un elemento di prova che passava di mano in mano. La privacy viene annientata, proprio come la vita.
Marino mi scortò fuori dalla cucina, lasciando che fosse l’agente a proseguire l’interrogatorio di Petersen.
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Postmortem
  4. Capitolo 1
  5. Capitolo 2
  6. Capitolo 3
  7. Capitolo 4
  8. Capitolo 5
  9. Capitolo 6
  10. Capitolo 7
  11. Capitolo 8
  12. Capitolo 9
  13. Capitolo 10
  14. Capitolo 11
  15. Capitolo 12
  16. Capitolo 13
  17. Capitolo 14
  18. Capitolo 15
  19. Capitolo 16
  20. Copyright