Senza ombra di dubbio, sono stato un errore. Una palese svista nel reparto pianificazione familiare. Nel tennis, lo definirebbero un “errore non forzato”. Altrimenti, spiegatemi perché Bob ed Elsie Stewart, a quarantadue e trentanove anni, con quattro bambini da sfamare, il più piccolo dei quali aveva la bellezza di dieci anni, si sarebbero messi in testa di sfornare un altro figlio. E soprattutto, spiegatemi perché mai avrebbero dovuto farlo nel bel mezzo della Seconda guerra mondiale.
A questo si deve il tormentone di famiglia: “Roddy è stato lo scivolone di papà. Ma per essere uno scivolone si è rivelato abbastanza redditizio”.
Non posso dire, però, che mi abbiano mai fatto sentire un errore. Al contrario, malgrado la mia nascita tardiva (o forse proprio per questo), venni accolto con grande calore, almeno dai sei membri della mia cerchia familiare più ristretta. Da Hitler un po’ meno. La scena del mio ingresso nel mondo, la sera del 10 gennaio 1945, fu una piccola stanza da letto al piano superiore di una villetta a schiera in Archway Road, nella parte nord di Londra. Le finestre erano esplose così tante volte a causa delle bombe tedesche che mio padre le aveva rivestite di assi per contenere le spese.
Ormai la parte peggiore del blitz si era quasi esaurita e comunque la guerra in Europa sarebbe finita circa quattro mesi dopo. Tuttavia, senza riguardo per i miei interessi, i tedeschi bombardarono Londra per tutta la durata della gravidanza di mia madre: prima con le bombe volanti V1, affettuosamente chiamate “doodlebugs”, larve di formicaleone, e meno affettuosamente “buzzbombs”, bombe ronzanti, per il rumore che producevano prima di ucciderti; e poi, nelle ultime fasi della gravidanza e nei miei primi giorni da neonato, con gli ancora più devastanti missili V2, lanciati dalla costa francese attraverso la Manica.
Quegli aggeggi infernali tendevano a lasciare un cratere profondo sette metri, dove un tempo sorgeva la tua casa. Meglio non capitare sotto un V2, e non valeva solo per le donne incinte o i neonati.
Alcuni raccontano che, un’ora prima del mio arrivo, un missile distrusse la centrale di polizia di Highgate, a poco più di un chilometro di distanza, compromettendo l’atmosfera festosa della mia nascita e impartendo a tutti noi una lezione durevole e fondamentale sul destino, l’incertezza del nostro soggiorno nel mondo e bla bla. È una parabola affascinante, peccato che sia del tutto falsa: solo una delle leggende, favole o bugie belle e buone, raccontate in nome della pubblicità, che avremo modo di sfatare con il procedere della storia. In realtà, tra la mia nascita e il bombardamento della centrale passarono alcune settimane.
In quei giorni, d’altra parte, a Londra si viveva sul filo del rasoio e molti londinesi condividevano la sensazione di “essere scampati per un pelo”, soprattutto se la loro casa, come la nostra, si affacciava su un deposito ferroviario, diventando così un’involontaria calamita per bombardieri dalla mira difettosa. Quando mia madre era in dolce attesa, la sirena dell’allarme aereo di solito partiva attorno all’una e mezzo di notte, e Mary, che a diciassette anni era la figlia maggiore, tirava giù dal letto mio fratello Bob, che ne aveva dieci, e mia sorella Peggy, di nove, li aiutava a mettere il cappotto e li portava, ognuno con il rispettivo cuscino, nel buio pesto del giardino e giù nel rifugio della famiglia Anderson, sei fogli di lamiera ondulata forniti dall’esercito, montati a forma di capanno e affondati per metà nel sottosuolo, con terra e sacchi di sabbia accatastati sul tetto per una maggiore protezione. Poi s’infilavano tutti nelle strette cuccette di metallo e cercavano di dormire, nonostante il rumore e la paura. Mio fratello Don, che in quel periodo aveva quindici anni, preferiva starsene comodo nel suo letto di casa, a meno che qualcosa non esplodesse tanto vicino da far tremare i muri, rendendo di colpo irresistibile il potere di attrazione della cuccetta del giardino.
Molte altre famiglie londinesi si erano premunite: i bambini erano evacuati in campagna, temporaneamente adottati da generosi contadini in case che avevano meno probabilità di vedersi sfondare il tetto da un razzo. I miei familiari, invece, avevano discusso e deciso che non avrebbero sopportato di separarsi: né i bambini dai genitori, né i genitori dai bambini. La politica degli Stewart era: “Se ce ne andremo, ce ne andremo insieme”. Da questo punto di vista, eravamo molto clan. Lo siamo tuttora.
Ciò non significava, tuttavia, che l’informazione scorresse sempre libera tra i vari membri della famiglia. Per capire quanto poco all’epoca si parlasse del sesso e delle sue conseguenze, sappiate che Don non aveva idea che nostra madre fosse incinta. Era un po’ perplesso dalla quantità di lavori a maglia che sfornava sua sorella maggiore (soprattutto nel rifugio antiaereo, dove ciò l’aiutava a passare il tempo). Se qualcuno avesse insistito, lui avrebbe forse ammesso un certo stupore per il fatto che sua madre sembrava diventare ogni giorno più grossa. In ogni caso scoprì la novità all’improvviso quel mercoledì sera, quando gli chiesero se voleva salire a vedere il nuovo arrivato.
Mia sorella Mary invece sapeva tutto ed era emozionata da quel bambino come se fosse il suo, tanto che man mano che si avvicinava la data prevista rincasava dal lavoro sempre prima. Mercoledì era la serata in cui andava a pattinare. «Oggi non nasce» le disse la mamma. Dunque, Mary uscì. E invece la mamma doveva avere già le doglie, perché Mary fece appena in tempo a tornare, togliersi i pattini e correre di sopra che aveva un nuovo fratellino, Roderick David Stewart. Mia sorella restò colpita, non tanto vedendo me in tutta la mia raggiante gloria di poppante, ma vedendo nostra madre, che sembrava distrutta e bianca come il lenzuolo del suo letto. Solo a quel punto si rese conto di ciò che la mamma aveva passato, e anche del motivo per cui quella sera l’aveva mandata fuori: per risparmiarle i dettagli.
Papà sembrò prendere quegli ultimi sviluppi in modo abbastanza equanime, anche se deve essersi chiesto come avrebbe fatto a far quadrare i conti. Era scozzese, di Leith, a nord di Edimburgo, con un periodo nella marina mercantile alle spalle, dopo il quale aveva seguito i suoi fratelli a Londra per cercare lavoro. Aveva incontrato mia madre, che era londinese, durante un ballo a Tufnell Park. Quando arrivai io, papà lavorava dodici ore al giorno come idraulico e tornava a casa alle sette di sera, quando si toglieva gli stivali e appoggiava i piedi umidi vicino al fuoco. Le sue calze si riscaldavano pian piano emanando un odore a dir poco ammorbante. Papà non beveva mai. Qualcuno una volta, in un cantiere, l’aveva fatto ubriacare, e lui aveva giurato di non ripetere mai più l’esperienza. In compenso, fumava e giocava d’azzardo (soprattutto ai cavalli) e un quinto bambino non avrebbe certo risolto i suoi sporadici problemi di finanze. Avevamo preso una villetta in affitto al 507 di Archway Road da un uomo di nome Grattage. Ancora oggi, per me, quel nome si trascina dietro un vento gelido di paura e disgusto. “Arriva Grattage! Nascondiamoci!”
Archway Road era un’arteria rumorosa e trafficata, disseminata di piccole botteghe in una zona a maggioranza operaia, mentre le residenze assai più chic di Highgate erano molto più a nord. C’era una fermata del filobus proprio davanti al nostro portone e i biglietti gettati venivano puntualmente soffiati dal vento nella canaletta di scolo di fronte al nostro seminterrato, con grande irritazione di mio padre che continuamente usciva a raccoglierli. Molti anni dopo, quando ci eravamo ormai trasferiti, la casa fu demolita per allargare la carreggiata: il consiglio di zona riuscì dove Hitler aveva fallito. Finché rimase in piedi comunque era abbastanza graziosa: una casa piuttosto grande, in realtà, per la famiglia di un idraulico a cottimo. Tre stanze da letto al secondo piano, altre due al primo e, al piano terra, insieme alla cucina e al bagno, un soggiorno dal soffitto alto che conteneva un pianoforte a mezza coda suonato da mia madre e a volte da mio fratello Don, e che una volta, anni dopo, mi offrì un comodo rifugio per qualche goffo esperimento con un esponente del sesso opposto.
L’altro oggetto di lusso di casa nostra era il telefono: all’epoca una meraviglia tecnologica quasi senza precedenti. Aveva una scatola per i gettoni e per telefonare serviva una moneta da tre penny. Difficile descrivere il mistero e lo sgomento che ci prendevano ogni volta che squillava, cosa che a dire il vero non capitava spesso. Chi poteva essere? Chi poteva mai essere? E chi sarebbe andato a rispondere? Poteva volerci un po’ per dirimere la questione. Chiunque fosse il prescelto doveva usare una voce più impostata possibile: “Mount View, sei-uno-cinque-sette”. Negli anni Quaranta e Cinquanta al telefono bisognava parlare forbito.
Mio padre se ne serviva per gestire il club di calcio che dirigeva nel tempo libero: Highgate Redwing, un circolo amatoriale con una prima squadra, una scorta di riserve e addirittura, per qualche tempo, una squadra giovanile. Ci giocavano i miei fratelli Bob e Don, e a un certo punto sarebbe toccato anche me, ma finché ero piccolo potevo solo guardare a bocca aperta gli uomini che riempivano casa nostra. Loro sono stati i miei primi eroi sportivi. Il punto d’incontro prima delle partite del sabato mattina era casa nostra, dove una ventina di calciatori si accalcavano in cucina e nell’ingresso, riversandosi poi sul marciapiede. Prima che arrivassero li aspettavo con ansia: venivano a trovarci i ragazzi. Mia madre ogni settimana lavava le divise – un penny a maglia, i soldi venivano presi dalle casse del club – gettando i vestiti infangati in una pentola gigante e mescolandoli senza sosta. Alla fine, una schiera di maglie bianche e nere penzolava luccicante per tutta la lunghezza del giardino. Per me era una visione celestiale.
Ho un ricordo delle vacanze familiari a Ramsgate, sulla costa del Kent – ci piazzavamo tutti insieme in spiaggia nel freddo gelido, in pieno stile britannico – ma non è vivido quanto quello delle uscite annuali della squadra di calcio: due carabancs, quella specie di grandi carrozze a motore, lasciavano Archway Road alle otto del mattino cariche di giocatori con mogli e figli, e mia madre e mia sorella preparavano dozzine e dozzine di tramezzini per l’escursione a Clacton-on-Sea. Una vera meraviglia.
Idem per le feste del club. Mio padre scendeva nel seminterrato e puntellava il pavimento del soggiorno con assi e ponteggi, poi tutti sciamavano dentro per ballare e cantare. Io venivo messo a letto, ma sgusciavo giù e mi sedevo sotto il pianoforte a guardare piedi e gambe che sbucavano dai kilt. Il mio amore per le canzoni risale a quell’epoca. A volte un trenino di persone usciva dalla sala, scendeva i gradini e risaliva la strada per poi tornare indietro. Non era difficile capire l’esuberanza di quegli adulti se si pensava a quello che avevano passato così poco tempo prima. Ballavano per scrollarsi di dosso la guerra.
Mary e Peggy, le mie sorelle, mi portavano allo stadio di Harringay a guardare lo speedway, un tipo di gara motociclistica allora molto in voga. E mamma e papà a volte mi concedevano un’uscita al cinema, il Rex a East Finchley, dove la platea sprofondava al centro: le file davanti erano più alte di quelle nel mezzo e quelle in fondo erano ancora più su. Forse erano danni di guerra. Un giorno, quando avevo otto anni, mia madre disse: «Andiamo a vedere Le vacanze di Monsieur Hulot. Sarà la cosa più divertente che tu abbia mai visto». Una presentazione abbastanza altisonante per un film, eppure, ci aveva azzeccato in pieno. Era una commedia demenziale, ma con un taglio raffinato. Ci sedemmo nelle poltrone consumate del Rex e io non risi mai tanto come vedendo Jacques Tati che provocava un disastro dietro l’altro. Tuttora io e Ronnie Wood siamo grandi fan di Tati.
La differenza di età tra me e i miei fratelli significava che presto avrei visto la famiglia restringersi. Prima Mary sposò Fred, camionista per la Wall’s, e così il mio angelo custode se ne andò di casa. Poi Peggy sposò Jim, un meraviglioso fruttivendolo cockney che aveva combattuto a Montecassino, esperienza che non poteva dimenticare. Molti anni dopo, quando avevo fatto un po’ di soldi, Jim partecipò a una delle nostre grandi gite di famiglia su un aereo privato per guardare la Scozia giocare a calcio. Il nostro viaggio ci portò a sorvolare l’Italia. Jim stava lì seduto a rollarsi una sigaretta come gli piaceva fare, e guardando di sotto dal finestrino con aria pensosa disse: «Mi pagavano quattordici scellini alla settimana per ammazzare questa gente».
La vita poi è stata molto crudele con Peggy. Era una fantastica tennista, una persona molto dinamica, ma è stata colpita dalla sclerosi multipla e si è trovata in sedia a rotelle a metà della trentina. La sclerosi multipla ha fatto sì che anche mia madre alla fine avesse bisogno di una carrozzina. Non c’è giustizia a questo mondo.
Il successivo a lasciare Archway Road fu Bob, che sposò Kim, e infine, quando avevo ancora solo undici anni, Don si sposò e lasciò casa anche lui, a ventisei. La notizia del suo imminente matrimonio con Pat mi fece sciogliere in lacrime davanti ai suoi occhi. Avevo pianto così anche quando se n’era andato per il servizio militare, soprattutto perché non riuscivo a immaginare il posto a cui era destinato, Aldershot, né che qualcuno potesse arrivarci e tanto meno tornarne. Quell’ultimo tradimento però mi parve definitivo. Come poteva abbandonarmi così? Don mi portò nel West End e cercò di convincermi della bontà della sua scelta nel modo migliore che gli riusciva, con una limonata.
A dire il vero però, anche quando se ne andarono di casa, i miei fratelli e le mie sorelle non si allontanarono più di tanto. Presero appartamenti e villette a poche porte di distanza o, al massimo, girato l’angolo: il solito istinto del clan degli Stewart. Qualche anno dopo avrei apprezzato la loro vicinanza, quando fui investito da un improvviso interesse per il mio aspetto e avevo bisogno di prendere in prestito il fon di Mary o la lacca di mia cognata Pat. Molto a portata di mano.
“Viziato marcio” tende a essere la sintesi familiare della mia infanzia. Io non sono d’accordo per il semplice motivo che, materialmente parlando, non ce n’era abbastanza per viziare chicchessia. “Un po’ assecondato” mi sembra un’espressione più corretta. Al tempo stesso, devo ammettere che Mary non tornava mai dal lavoro il venerdì senza portarmi un giocattolo, una macchinina o un soldatino acquistato da Woolworths. Questo significava essere “viziato marcio”? Può anche darsi.
Riconosco anche un’altra cosa: mia madre faceva spesso lo stufato di coniglio e, prima della mia nascita, il cuore dell’animale, che era piccolo ma considerato una leccornia, veniva tagliato in quattro e diviso tra i bambini. Al mio arrivo, il cuore fu riservato a me.
Scolaro diligente ma mediocre, sbagliai l’esame di ammissione alla grammar school senza che nessuno se ne stupisse più di tanto e fui mandato in divisa di flanella grigia con cravatta bianca e nera alla William Grimshaw Secondary Modern che, per combinazione, più o meno nello stesso periodo era frequentata anche da Ray e Dave Davies dei Kinks, ma lo scoprimmo solo anni dopo. Prendevo l’autobus per North Finchley dalla fermata davanti a casa, una grande comodità. Al termine del viaggio, però, dovevo camminare per un chilometro e mezzo lungo Creighton Avenue, il che era meno piacevole. Ma viaggiavo leggero, all’epoca era così per tutti gli scolari. Al giorno d’oggi, quando il mio piccolo Alastair esce per andare a scuola, ha borse, libri, computer e compagnia bella. A me sembra di aver compiuto tutta la mia carriera nella scuola secondaria armato soltanto di una matita. In realtà, ancora meno: un solitario mozzicone di matita infilato nella tasca superiore del blazer. Sembrava che non mi servisse altro.
Ero abbastanza disciplinato e in linea di massima abbastanza contento. Cercavo di non perdere giorni di scuola, temendo di restare indietro, quindi non ero uno che marinava, e senza dubbio non ero un attaccabrighe. Le risse mi vedevano sempre ai margini, come spettatore, mai coinvolto. Facevo amicizia con facilità, ma non ero uno di quei ragazzini che spadroneggiano in cortile e attirano senza sforzo l’attenzione di chiunque. E di certo non mi consideravo un istrione. Solo più tardi avrei sviluppato quel genere di sicurezza in me stesso, suonando nelle band. Avevo un po’ di talento con il pennello, anche se da un test di routine risultò che ero daltonico (ho qualche problema a distinguere i marroni, i blu e i viola). Me la cavavo in quasi tutte le materie e nello sport andavo alla grande, diventando il capitano della squadra di cricket e della squadra di calcio. C’era solo una materia in cui ero senza speranze, per quanto sembri strano alla luce del mio percorso successivo: il corso di musica con Mr Wainwright.
Mi aveva sempre spaventato a morte l’idea di stare in piedi di fronte alla classe. Nell’aula di musica di Mr Wainwright avevo scoperto una cosa che mi spaventava ancora di più: stare in piedi di fronte alla classe e cantare. Non era tanto timidezza quanto paura di essere osservato e preso in giro. Forse era una mia fantasia, ma giurerei che l’insegnante mi chiamasse apposta. Mi faceva alzare per cantare qualche verso di una canzone mentre lui mi accompagnava al pianoforte, e io tremavo di vergogna e cercavo invano le note, sentendomi più a disagio di quanto mi fosse mai capitato.
Per questa ragione avevo sviluppato la strategia del finto malato.
Per il trucco del finto malato occorrono: una lattina di carne in scatola, vuota; una piccola quantità di purè di patate, preso dal contorno del pranzo scolastico; una piccola quantità di carote, vedi sopra; un po’ d’acqua. Istruzioni: mentre siete al tavolo della mensa, infilate le patate, le carote e l’acqua nella lattina. Mescolate bene usando un coltello o qualsiasi altro utensile a portata di mano. Portate la lattina nel cortile della scuola e, in un momento di tranquillità, preferibilmente senza farvi notare, versate la risultante poltiglia sull’asfalto. A quel punto, chiamate l’insegnante di turno gridando “Signore, ho vomitato”, o qualcosa del genere, e indicate la schifezza sul terreno. Detto fatto: invece della lezione di musica del pomeriggio, eccovi sulla strada di casa. O, nel mio caso, del cinema.
È abbastanza corretto, quindi, dire che a quel punto della mia vita il tarlo della musica non mi aveva ancora morso. Nel 1954, Don mi aveva portato a sentire Bill Haley and the Comets al Gaumont State Cinema di Kilburn High Road. Don adorava Bill Haley e sapeva cantare Razzle Dazzle forse persino meglio dello stesso Haley. (Don era il vero cantante della famiglia, come amano rammentarmi.) Ricordo che ero seduto con lui sulla balconata e guardavo la massa brulicante di teddy boy che ballavano e schiamazzavano in platea, mentre Haley e la sua band, vestiti con giacche tartan, li aizzavano. Il ritmo, i vestiti sgargianti e le reazioni della folla mi colpirono, e forse un seme fu gettato. Ma la scintilla non scoccò.
Invece, un lieve barlume del tarlo dello spettacolo fece capolino quando mio padre mi regalò una chitarra spagnola per il mio quindicesimo compleanno, con un cordino rosso come bretella. All’inizio fu una cocente delusione, perché avevo sperato in un modellino ferroviario Tri-ang. (La vista dalle nostre finestre dello scalo merci di Highgate e del binario su cui passavano i treni a vapore sulla strada da Euston ad Alexandra Palace aveva da tempo risvegliato il mio interesse per i trenini che, per l’immotivato stupore di alcuni, mi accompagna tuttora.)
Chissà perché mio padre aveva pensato che quella chitarra fosse un buon regalo per me. È possibile che gli fosse capitata tra le mani, o che qualcuno gliel’avesse offerta per due soldi. Comunque ingoiai il mio disappunto e la strimpellai per qualche tempo, la portai anche a scuola, dove altri compagni avevano chitarre a buon mercato. Insieme a una manciata di quelli che avevano capito più o meno come funzionava andavamo in cortile a ricreazione e cercavamo di fare il cosiddetto “skiffle”, la musica che stava rigenerando il vecchio stile artigianale americano delle “jug band” dell’inizio del ventesimo secolo, con...