La Bibbia in un frammento
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La Bibbia in un frammento

200 porte all'Antico e al Nuovo Testamento

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  1. 360 pagine
  2. Italian
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La Bibbia in un frammento

200 porte all'Antico e al Nuovo Testamento

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La Bibbia è «un arcobaleno di testi, di parole, di frasi, di idee, di simboli, di figure, di temi che nascono dall'opera di una folla di autori appartenenti a un arco di tempo di un millennio. Eppure, dietro a questo spettro multicolore, la teologia intravede una voce unica, profonda, misteriosa, costante, quella del Dio che rompe il silenzio della sua trascendenza e del suo mistero».
Da questa fondamentale unità dell¿universo biblico prende le mosse la coinvolgente sfida, lanciata anche ai lettori che hanno scarsa consuetudine con i testi religiosi, del cardinale Gianfranco Ravasi: acquisire una visione d¿insieme di tutte le Scritture leggendo una selezione di passi, rigorosamente collegati al loro contesto. «Vorremmo proporre la Bibbia - in tutti i 73 libri o libretti che la compongono - attraverso una sequenza di frammenti che racchiudano in miniatura la sostanza del loro messaggio. Sono frasi che custodiscono una densità di pensiero e un fascino così incisivo da potersi trasformare in sintesi di un "tutto" più ampio e di più largo respiro.»
Dalla Genesi all'Apocalisse, dai Libri storici ai Vangeli e alle Lettere Apostoliche, passando attraverso i Libri sapienziali e la voce coraggiosa dei profeti, il racconto biblico è restituito da Ravasi in tutta la sua forza espressiva, nelle innumerevoli iridescenze di significato e di bellezza.
Si potranno rivivere e approfondire così alcuni degli episodi più conosciuti e amati delle Scritture, da quel «Sia la luce!» che ha dato inizio a tutte le cose, al discorso della Montagna in cui Gesù esalta la beatitudine dei miti e dei puri di cuore; dalla rivelazione di Dio a Mosé sul monte Sinai, alla drammatica conversione di san Paolo lungo la via di Damasco. Ma sarà possibile anche scoprire autentiche gemme nascoste tra le pieghe delle pagine bibliche, come quell'originale passo dei Proverbi in cui la Sapienza del Creatore è paragonata a una ragazza che gioca, o i versetti in cui si celebra l'affetto di un cane per il suo padrone Tobia, o ancora il suggestivo brano del profeta Baruc in cui le stelle sono liricamente paragonate a sentinelle che vegliano nella notte.
Il commento di Ravasi è anche una riflessione corale grazie alle citazioni di scrittori, artisti, filosofi che contribuiscono a illuminare e attualizzare il senso più profondo della Parola. In ogni passo l'autore ci aiuta a cogliere, con la competenza del teologo e l¿instancabile curiosità per ogni aspetto della vita, l¿impareggiabile intreccio di umano e divino, di storia e di eternità, di contenuto religioso e poesia che fa della Bibbia un tesoro inestimabile della cultura mondiale.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2013
ISBN
9788852043604

ANTICO TESTAMENTO

Pentateuco

È stato l’apostolo Paolo a coniare per primo la locuzione «Antico Testamento», in greco palaià diathéke (2 Cor 3,14), anche se oggi molti preferiscono la formula «Primo Testamento», per ricordare in modo esplicito quanto Gesù affermava: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Mt 5,17). Ebbene, a venirci subito incontro nella sequenza dei 46 scritti che compongono l’Antico/Primo Testamento sono cinque libri che gli Ebrei designano come la Torah, la «Legge» per eccellenza, anche se il termine significa etimologicamente «insegnamento». La tradizione cristiana ha optato per un vocabolo di matrice greca, Pentateuco, che rimanda a «cinque teche» entro le quali si potevano collocare e custodire quei testi.
Essi ora scorreranno tutti davanti a noi attraverso il lampeggiare di alcuni frammenti emblematici e riveleranno la loro qualità non solo di «Legge», ma anche e soprattutto di racconti di eventi. Sono le vicende costitutive dell’essere cosmico (la creazione descritta nei primi undici capitoli della Genesi), ma in particolare quelle della storia della salvezza, a partire da Abramo e dai patriarchi per giungere all’esodo di Israele, liberato dall’oppressione faraonica in Egitto, per approdare alle soglie della terra promessa. Grandi protagonisti sono, dunque, Abramo, Isacco e Giacobbe, cioè i padri fondatori, Mosè, la guida della liberazione, e Israele, il popolo dell’elezione divina.
Ma su tutti e su tutto domina la figura di Dio, «Io-Sono», come egli si definisce, nel terzo capitolo dell’Esodo, rivelandosi a Mosè sul «monte di Dio, l’Horeb» (Sinai). È per questo che i cinque libri qui raccolti – Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, denominati dagli Ebrei con la loro prima parola: Bere’shît, «In principio», Shemôt, «Nomi», Wajjqra’, «Chiamò», Bemidbar, «Nel deserto», Debarîm, «Parole» – non narrano solo una serie di vicende storiche antiche, ma le prime tappe di una storia religiosa, quella che è definita appunto come «storia della salvezza».

Sia la luce!
Dio disse:
«Sia la luce!».
E la luce fu.
GENESI 1,3
In ebraico sono soltanto sei parole: wajj’ómer ’elohîm jehî ’ôr wajjehî ’ôr. Eppure nella loro lapidarietà sono una sintesi mirabile dell’essere che esce dal grembo del nulla, divenendo l’incipit assoluto della creazione. A commentare musicalmente questo imperativo divino dovremmo accostare lo straordinario avvio della Creazione, oratorio che il musicista austriaco Franz Joseph Haydn compose nel 1798: un solare e celestiale Do maggiore irrompe dal caos di una modulazione infinita. E se invece volessimo ricorrere a un’immagine, dovremmo quasi necessariamente alzare lo sguardo verso la scena che Michelangelo ha dipinto nella volta della Cappella Sistina, in uno dei nove riquadri dedicati ai primi capitoli della Genesi, completati nel 1512.
Noi ora ci fermiamo sul frammento testuale che abbiamo ritagliato dalla prima pagina della Bibbia, ove un autore ebreo nel VI secolo a.C. ha tracciato un racconto mirabile nella sua sorprendente essenzialità ieratica. La trama di quel capitolo è ben nota ed è ritmata su un sistema simbolico numerico: i sette giorni della settimana sono formulati con l’uso di sette formule fisse narrative, mentre per sette volte risuona il verbo ebraico bara’, «creare», per trentacinque volte (7 x 5) è scandito il nome divino, per ventun volte (7 x 3) entrano in scena «la terra e il cielo», e il primo versetto si affida a sette parole e il secondo a quattordici (7 x 2)…
Il sette, cifra simbolica di pienezza e perfezione, ci ricorda che tutto il creato è tôb, come si ripete nel testo, e questo aggettivo in ebraico significa contemporaneamente «buono» e «bello». La luce è la prima creatura perché essa squarcia la tenebra che per la Bibbia è il segno del nulla e del negativo; l’ultima è, invece, l’uomo, vertice del creato, che però occupa la sesta giornata, segno di imperfezione. Sì, perché l’umanità, pur elevandosi su tutte le altre creature, è limitata, fragile e mortale. Eppure a essa è aperta la possibilità di accedere al tempo di Dio, l’eternità, cioè il settimo giorno, e questo accade quando l’uomo e la donna celebrano il sabato, la festa della comunità orante con Dio.
Per la Genesi la creazione non è frutto di una lotta primordiale intradivina ove il dio del male viene sconfitto dalla divinità benefica creatrice, come accadeva, ad esempio, nella famosa cosmologia babilonese Enuma Elish («Quando dall’alto…»). L’atto creativo avviene solo attraverso la parola, è la voce divina a dar origine all’essere.
La stessa concezione è riproposta da quello straordinario parallelo neotestamentario che è l’inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni: «In principio era il Logos, la Parola, il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste» (1,1-3).
È per questo che nella Bibbia il creato non è frutto del caos, ma nasce da una volontà divina e, quindi, custodisce in sé un significato, un disegno, un messaggio silenzioso eppur udibile e fin visibile. È ciò che attesta un altro frammento che avremo occasione di commentare più avanti, desumendolo da quel «canto del sole» che è il Salmo 19: «I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani, il giorno al giorno ne affida il messaggio, la notte alla notte ne trasmette notizia, senza discorsi, senza parole, senza che si oda alcun suono. Eppure la loro voce si espande per tutta la terra…» (vv. 2-5).
A sua immagine
Dio creò l’uomo a sua immagin
ine di Dio lo creò,
maschio e femmina li creò.
GENESI 1,27
Nella letteratura dell’antico Vicino Oriente domina una suggestiva modalità espressiva detta «il parallelismo». Essa non è la semplice ripetizione di un concetto ma una sua ripresa e un suo approfondimento. Ora, anche il lettore che non ha una specifica competenza letteraria, riesce a intuire nella frase che abbiamo proposto non solo la ripresa del tema della creazione della coppia umana ma anche una precisazione sorprendente. Infatti, nel parallelismo, a «immagine di Dio» corrisponde la spiegazione successiva «maschio e femmina».
Dio, allora, è sessuato e accanto a lui si asside una compagna divina, come l’Ishtar/Astarte dei Babilonesi? Ovviamente no, sapendo con quanta nettezza la Bibbia rifiuti come idolatrica una simile concezione diffusa tra gli indigeni cananei della Terra Santa. Dio resta trascendente, ma è creatore, come appunto si dichiara nella prima pagina della Bibbia nella quale è incastonata la frase che stiamo esaminando. Ebbene, la fecondità della coppia umana è «immagine» viva ed efficace dell’atto creativo divino che essa fa continuare. La coppia dell’uomo e della donna che si amano e generano è la vera «statua» (in ebraico selem, «immagine») che raffigura il Dio creatore. Non lo è una statua come il toro (vitello) d’oro che gli Ebrei erigono nel deserto, sollevando la reazione aspra del Signore e di Mosè.
La relazione generativa umana – potremmo dire con linguaggio teologico – è l’analogia illuminante per scoprire il mistero di Dio. È significativa, al riguardo, la visione trinitaria cristiana che introduce nella divinità un Padre che genera il Figlio nell’amore dello Spirito Santo. Se passiamo, poi, alla seconda narrazione della creazione della coppia nel capitolo 2 della Genesi, ritroviamo una serie straordinaria di elementi simbolici che esaltano questo incontro d’amore. La donna, infatti, è definita come «un aiuto kenegdô», letteralmente una figura che «sta di fronte», gli occhi negli occhi, in una parità assoluta di dialogo (2,20).
Si dice anche che essa è «costola» dell’uomo, non nel senso di una dipendenza subordinata come spesso si è detto, bensì nel fatto che ha la stessa carne e vita dell’uomo, tant’è vero che nella lingua sumerica ti significa sia «costola» sia la «vita» trasmessa dalle donne. Per questo nel racconto del capitolo 2 della Genesi l’uomo intona il primo ed eterno canto d’amore che proclama: «Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (2,23). È appunto la figura che «sta di fronte», non come gli animali che pure erano stati dati da Dio a compagnia dell’uomo. Anzi, la conclusione è emblematica: «La si chiamerà ’isshah perché da ’ish è stata tratta» (2,23). I due termini hanno la stessa base, l’uno è al maschile, ’ish, «uomo», l’altro vocabolo è al femminile, ’isshah, «donna».
Concludiamo esaltando questa pari dignità della coppia che è l’«immagine» di Dio sulla terra con un intenso testo del Talmud, la grande raccolta delle tradizioni religiose giudaiche: «State molto attenti a far piangere una donna perché Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perché dovesse essere calpestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere amata».
Diventerete come Dio!
Si apriranno i vostri occhi
e diventerete come Dio,
conoscitori del bene e del male.
GENESI 3,5
Secondo il racconto del capitolo 2 della Genesi nel giardino dell’Eden c’era un albero che non è registrato nei manuali di botanica. In ebraico si chiama ‘es da‘at tôb wara‘, «l’albero della conoscenza del bene e del male», e non è una pianta fisica ma metafisica, simbolica. Forse anche qualche nostro lettore è convinto che si tratti di un melo, ma è vittima di un abbaglio. L’equivoco nasce da una sorta di gioco di parole, possibile però soltanto in latino: in quella lingua, infatti, hanno un suono molto affine questi tre vocaboli: malus, «melo», malum, «male», e malus, «cattivo». Ecco spiegato l’inganno che ha generato la celebre «mela di Eva», legata appunto al «male» che ne è seguito.
Il discorso, in verità, è serio e tocca il cuore della morale. Cerchiamo, quindi, di illustrare il significato di quell’albero misterioso e comprenderemo appieno anche il frammento biblico che abbiamo proposto alla nostra riflessione. Innanzitutto l’immagine vegetale è per la Bibbia segno di sapienza, indica un sistema di vita: il Salmo 1, ad esempio, presenta il giusto come un albero radicato nei pressi di un ruscello, le cui foglie non avvizziscono e i cui frutti sono gustosi e costanti. C’è, poi, la «conoscenza», la da‘at che, nella cultura biblica, non è solo intellettuale, ma è anche un atto globale della coscienza che coinvolge volontà, sentimento e azione. È, pertanto, una scelta radicale di vita. Infine, ecco «il bene e il male» che, com’è ovvio, sono i due perni della morale.
A questo punto siamo tutti in grado di identificare quest’albero simbolico: è l’incarnazione della morale nella sua pienezza, che proviene da Dio, colui che pianta nel cuore di ogni creatura umana questa realtà viva e decisiva. I frutti, quindi, sono solo donati, non possono essere sottratti. L’uomo e la donna sono là, con la loro libertà, sotto l’ombra di quell’albero e compiono una scelta drammatica. Sollecitati dal serpente, emblema del tentatore che scuote la nostra libertà, essi strappano il frutto, ossia – fuor di metafora – vogliono decidere in proprio quale sia il bene o il male, rifiutando di riceverli come codificati da Dio.
Si comprende, allora, il significato profondo dell’invito del tentatore: strappare quel frutto vuol dire diventare arbitri («conoscitori») del bene e del male, artefici autonomi della morale, creatori di ciò che è giusto e di ciò che è perverso a proprio piacimento. È appunto «diventare come Dio». È, questa, la radice del cosiddetto «peccato originale», anzi, è l’essenza ultima di ogni peccato. È un po’ quello che i Greci definivano come hýbris, ossia la sfida che il ribelle lancia contro la divinità. Con questa scelta si giunge non nel cielo sognato da Adamo ed Eva e fatto balenare loro dal serpente come la grande illusione; si precipita, invece, nel cuore della tenebra, nell’abisso del peccato e della colpa.
Detto in altri termini, l’anima oscura del peccato è la superbia, non per nulla considerata come il primo dei vizi capitali: è la folle aspirazione a sostituirsi a Dio definendo autonomamente il bene e il male. La storia umana è l’amara documentazione dei risultati ottenuti, una volta imboccata questa via. Risuona, allora, il monito di un sapiente biblico del II secolo a.C., il Siracide: «Dio in principio creò l’uomo e lo lasciò in mano al suo proprio volere. Se vuoi, osserverai i comandamenti: l’essere fedele dipende dalla tua buona volontà … Davanti agli uomini stanno la vita e la morte: a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,14-15.17).
Dal desiderio all’istinto
Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze,
con dolore partorirai i figli.
Verso tuo marito sarà il tuo istinto,
ma egli ti dominerà!
GENESI 3,16
Consumata la colpa, l’umanità, che ha scelto di procedere lungo un progetto morale indipendente da quello disegnato dal Creatore e fondato sull’armonia tra uomo e Dio, tra uomo e natura e tra uomo e donna, si trova ora sotto il giudizio divino. In tre sentenze che colpiscono rispettivamente il serpente tentatore, la coppia e la terra devastata si raffigura in maniera plastica l’esito miserabile a cui approda l’umanità orgogliosa e vogliosa di essere «come Dio», arbitra del bene e del male.
Abbiamo scelto il frammento che delinea la frattura dell’armonia d’amore che intercorreva tra lui e lei, Adamo ed Eva, e all’interno di ogni altra coppia umana. Due sono i segnali che s’accendono e incendiano le componenti radicali di quell’unione: la generazione e l’amore. È lo sfacelo a cui si vota ogni relazione interpersonale, che ha il suo archetipo nella coppia, quando precipita nel grembo oscuro dell’immoralità. Da un lato, ecco il parto che dovrebbe essere l’apice della gioia, perché con esso viene al mondo un nuovo uomo, come dirà Gesù (Gv 16,21), trasformarsi in un evento emblematico di dolore. Isaia, per ricorrere a un’immagine di sofferenza suprema, rimanderà proprio alla «donna incinta che sta per partorire e si contorce e grida nelle doglie del parto» (26,17), sulla scia di uno stereotipo costante nell’antico Vicino Oriente.
Le doglie vengono, quindi, liberamente assunte dall’autore sacro come segno di una disarmonia che s’incunea nella sessualità, nella stessa fecondità e nel rapporto generazionale. Ovviamente egli non considera il parto come punizione né tanto meno questo passo può indurre a una critica nei confronti della prassi successiva del parto indolore: il suo è l’uso di un simbolo fisiologico (la lacerazione delle doglie) per rendere in modo incisivo e fin visivo l’insinuarsi del male e della sofferenza nella realtà più gloriosa della vita di coppia, la generazione, che era stata presentata, secondo il piano divino, come «immagine» stessa del Creatore (Gen 1,27).
D’altro lato, è messo sotto l’obiettivo l’atto d’amore in sé: quand’era compiuto secondo la moralità genuina, era visto come un gesto altissimo che costituiva dei due «una sola carne» nell’abbraccio d’amore. Ora l’uomo e la donna sono, invece, in un intreccio oscuro solo sessuale, alimentato non più dal sentimento, dalla tenerezza e dall’amore bensì dall’attrazione istintuale, la teshuqah in ebraico, ossia la pulsione dell’istinto, la mera attrazione fisica che ha alla fine un esito brutale, quello del «dominio» del maschio sulla femmina. È curioso l’uso del verbo mashal, «dominare», il termine usato per designare il governo del potente, del tiranno e del signore, e non certo il legame d’amore della persona che ti sta «di fronte» (kenegdô) in parità, come si affermava nella precedente pagina dedicata alla creazione della coppia (Gen 2,18.20).
Il giudizio di Dio sul nuovo progetto umano è, quindi, semplicemente la registrazione del suo risultato: il peccato in un certo senso contiene già in sé la sua condanna. Il dialogo tra uomo e donna, fatto di amore e anche di eros autentico, così come lo aveva delineato il Creatore, sarà ripreso con grande intensità dal Cantico dei cantici ove, ad esempio, la ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La Bibbia in un frammento
  3. Dello stesso autore
  4. Abbreviazioni dei libri biblici
  5. Introduzione
  6. ANTICO TESTAMENTO
  7. NUOVO TESTAMENTO
  8. Indice dei nomi
  9. Copyright