Torino
16 aprile 2011
Caro papa Ratzinger,
lei sarà forse sorpreso di ricevere una lettera da un matematico ateo, che si propone di intavolare una seria discussione sul rapporto tra fede e ragione. Ma sorpreso lo sarà sicuramente se mi permetterà, prima di entrare nel vivo dell’argomento, di raccontarle brevemente un episodio della mia infanzia.
Alla fine degli anni Cinquanta io ero un bambino e fantasticavo, come tutti i bambini, su ciò che avrei voluto fare da grande. Un altro bambino di quegli anni, che stava pure lui muovendo i suoi primi passi, era la televisione. Ed essa, da bambino a bambino, mi offriva due modelli a cui attingere l’ispirazione per i sogni sul mio futuro: Mike Bongiorno e Pio XII.
Per me, però, non c’era storia: il ruolo del papa mi appariva immensamente più affascinante di quello del presentatore! Più che con una cartellina in mano a far domande ai concorrenti di «Lascia o raddoppia?», mi immaginavo dunque paludato con paramenti intessuti d’oro e tempestati di pietre preziose, la tiara in testa, i guanti bianchi alle mani, un grosso anello al dito, issato sulla sedia gestatoria, sventagliato dai flabelli di struzzo ed esibito a una folla estasiata e acclamante, in trepida attesa della mia benedizione.
Ripensando a quei tempi, sono andato su YouTube a riguardare i filmati di Pio XII, e devo confessare che oggi i suoi modi mi appaiono molto più spiritati e farseschi, che non spirituali e principeschi. Ciò nonostante, o forse proprio per questo, allora mi fecero evidentemente una grande impressione. A nove anni annunciai dunque ai miei genitori la mia irrevocabile decisione: da grande avrei fatto… il papa!
Sulle prime naturalmente risero, così come hanno riso coloro ai quali mi è capitato in seguito di raccontare l’episodio: anche se, come faccio sempre notare, ci sono ancora oggi molti adulti che seriamente sognano e fantasticano di diventare papa. Ma questo, naturalmente, non devo certo raccontarlo a lei. Invece, vorrei raccontarle com’è proseguita la mia storia.
Dopo essermi informato, venni a sapere che per diventare papa bisognava essere cardinale, per diventare cardinale bisognava essere vescovo, per diventare vescovo bisognava essere prete, e per diventare prete bisognava entrare in seminario. Comunicai dunque ai miei genitori che così avrei fatto, incontrando le loro sagge resistenze. Chiamai allora in mio soccorso il prete dell’oratorio, ed egli produsse come argomento l’affermazione che, quando il Signore chiama, non bisogna interferire.
Con la benedizione del prete e dell’Altissimo, nell’autunno del 1959 varcai dunque la soglia del Seminario di Cuneo. Quello stesso a cui si riferì Totò l’anno seguente, nel film Signori si nasce, travestendosi da prete e millantando: «Ho fatto tre anni di seminario a Cuneo». Io invece ne feci quattro, e per davvero: la quinta elementare e le tre medie. E presto imparai che il cammino che porta al soglio pontificio è più accidentato e tortuoso di quanto un bambino avesse ingenuamente potuto immaginare.
Uno dei miei compagni in quegli anni era Celestino Migliore, che in seguito divenne osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, e che lei stesso ha nominato nunzio apostolico in Polonia. È stato lui a domandarmi nel 2009, quando lo rincontrai a New York dopo quasi cinquant’anni, se fosse vera la voce circolata in seminario, quando ne ero uscito: che avevo calcolato le probabilità che un italiano aveva di diventare papa nell’era postconciliare, ottenendo un risultato troppo basso perché valesse la pena di rischiare.
Gli risposi che, benché mi sembrasse un tipico esempio di memoria creativa a posteriori, era troppo bello per essere smentito: soprattutto, visto che il supposto calcolo era risultato corretto! Qualunque fossero le motivazioni, e sicuramente ce n’erano molte altre, nell’estate del 1963 abbandonai comunque il mio sogno infantile e cominciai a sognarne altri più adulti. Gradualmente l’impegno religioso svanì dalla mia vita, benché il fenomeno abbia sempre continuato a interessarmi.
Nei primi anni dopo il seminario, la cosiddetta «teologia della morte di Dio», e in particolare Il vangelo dell’ateismo cristiano di Thomas Altizer, mi aiutarono a uscire dal cristianesimo in maniera indolore. Gli studi tecnici e scientifici, da geometra alle superiori e da logico matematico all’università, completarono il definitivo traghettamento dal regno della fede alla repubblica della ragione.
Negli anni continuai comunque a curiosare nel mondo della religione, quando capitava, osservandolo dai punti di vista che via via mi si presentavano rapsodicamente all’attenzione. E imparai che la scelta di fede, che credevo essere determinata da motivazioni puramente soggettive, è in realtà influenzata da una variegata costellazione di fattori oggettivi: geografici, biologici, antropologici, neurofisiologici, psichiatrici, psicologici, linguistici, filosofici, storici, sociologici, politici.
E anche, perché no?, scientifici. Anzi, fu proprio un desiderio di ritornare al passato del bambino seminarista dal presente del matematico adulto, che mi ha spinto a pubblicare dapprima Il Vangelo secondo la Scienza nel 1999, e poi Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici) nel 2007.
È un peccato che lo stile di entrambi quei libri non mi abbia attirato, se non la simpatia personale, almeno l’empatia impersonale dei credenti. E molti dei suoi correligionari si sono inalberati per il mio atteggiamento, considerato irrispettoso e irriguardoso nei confronti del cristianesimo.
Il cardinal Gianfranco Ravasi, ad esempio, suo presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, mi ha escluso dal Cortile dei Gentili insieme a Richard Dawkins, Christopher Hitchens e Michel Onfray, ripetutamente giudicandoci un quartetto di «autori che guardano alla verità con “ironia e sarcasmo”, e tendono a “leggere i testi religiosi allo stesso modo dei fondamentalisti”».*
Parleremo in seguito dei tipi di lettura delle Scritture, e di quanto sia giustificabile un allontanamento dal loro significato letterale. Per ora mi limito a ricordare ciò che disse al proposito Isaac Newton, che oltre a essere un sommo scienziato era anche un grande teologo (anzi, il più grande della sua epoca, secondo la non disinformata opinione di John Locke), nel Trattato sull’Apocalisse:
Chi, senza miglior fondamento della sua privata opinione, o del parere di una qualsiasi autorità umana, trasforma il chiaro e semplice significato della Scrittura in un’allegoria o le attribuisce qualche altro significato meno naturale, dichiara per ciò stesso di aver maggior fiducia nella propria immaginazione, o in quella determinata autorità umana, che nella Scrittura.
Nel mio caso, non c’è bisogno di appellarsi a modi reconditi di lettura per trovare nel mio libro sulla religione, La via lattea del 2008, un atteggiamento di sincera apertura nei confronti della fede e dei fedeli. In particolare, nei confronti dei miei coautori credenti Sergio Valzania e Franco Cardini, con i quali ho amichevolmente condiviso per un mese il cammino da Roncisvalle a Santiago de Compostela, trasmesso quotidianamente da Radio3.
Il 6 novembre 2010, sull’aereo che la portava più velocemente alla stessa meta, lei ha dichiarato ai giornalisti: «Voi sapete che io insisto molto sulla relazione tra fede e ragione. Che la fede, e la fede cristiana, ha la sua identità solo nell’apertura alla ragione, e che la ragione diventa se stessa se si trascende verso la fede». Ecco, questo è un argomento sul quale abbiamo discusso a lungo, con i miei compagni di cammino. E sul quale mi piacerebbe continuare a discutere con lei, in questa lettera.
Per poterlo fare in maniera sistematica ed esaustiva, io lascerò a lei l’incombenza di indicare gli argomenti e l’ordine della discussione. Il nostro scambio sarà infatti scandito da una scelta di citazioni progressive dal testo che molti considerano il suo capolavoro: l’Introduzione al cristianesimo che lei pubblicò nel 1968, elaborando le lezioni di un corso estivo sulla formula del Credo.
È grazie all’immediato e vasto successo di quel libro che lei divenne noto al pubblico come teologo, in grado di fornire una rifondazione dottrinale dell’intero cristianesimo. È quel libro che, come lei ricorda in Luce del mondo (p. 19), Karol Wojtyła lesse da vescovo di Cracovia, e ricordò da papa di Roma al momento delle nomine. È a quel libro che il metropolita Kirill, oggi patriarca di Mosca e di tutte le Russie, volle fare la prefazione quando fu tradotto, pochi anni fa. È in quel libro che si trovano i germi del suo pensiero successivo, culminato nelle sue tre encicliche.
È dunque quel libro che terrò come riferimento, per instaurare con lei un dialogo a distanza che spero non le dispiaccia, nonostante le nostre profonde differenze. D’altronde, nel suo Gesù di Nazaret lei stesso è «entrato da cristiano nella conversazione del rabbino Jacob Neusner con Gesù», commentando in parte Un rabbino parla con Gesù. Ecco, con le dovute proporzioni, anch’io vorrei entrare da ateo nella conversazione del teologo Joseph Ratzinger con Gesù, e nelle sue interpretazioni del cristianesimo.
La sua Introduzione al cristianesimo si apre con un sorprendente apologo di Søren Kierkegaard, che lei riprende da La città secolare del teologo Harvey Cox.
La storiella narra di un circo itinerante danese, che viene colpito da un incendio. Un clown, già truccato e vestito con gli abiti da scena, corre a chiedere aiuto in paese. Implora affannato gli abitanti affinché intervengano, e aiutino a spegnere le fiamme. Ma essi ridono e non si muovono, credendo si tratti soltanto di un modo per farli accorrere allo spettacolo. Il clown si dispera, ma più urla e piange, più la gente ride e applaude la sua bravura. Nel frattempo il fuoco, dopo aver distrutto il circo, si propaga attraverso i campi secchi e distrugge anche il villaggio.
La morale della storia è chiara e palese. Il clown è portatore di un messaggio tragico e veritiero, ma non viene creduto a causa del suo aspetto. Il trucco e gli abiti da scena dominano e prevalgono sulle sue parole, confermando l’intuizione di McLuhan che «il medium è il messaggio». Conclusione: poiché un clown fa ridere anche quando dice cose serie, per essere presi seriamente non bisogna vestirsi e comportarsi da clown.
Cosa tutto questo abbia a che fare con la fede e il cristianesimo, lascio che sia lei stesso a spiegarlo:
Cox narra questo apologo a titolo semplificativo, per delineare la situazione in cui versa il teologo al giorno d’oggi, e nel clown, che non riesce a far sì che il suo messaggio sia veramente ascoltato dagli uomini, vede l’immagine del teologo. Anch’egli, infatti, paludato com’è nei suoi abiti da pagliaccio tramandatigli dal Medioevo o da chissà quale passato, non viene mai preso sul serio. Può dire quello che vuole, ma è come se avesse appiccicata addosso un’etichetta, come se fosse imprigionato nel suo ruolo. Comunque si comporti, qualsiasi tentativo faccia per presentare la serietà del caso, tutti sanno già in partenza che egli è appunto solo un clown. Si sa già di che cosa parli, si sa che offre solo una rappresentazione che ha poco o nulla a che spartire con la realtà. (p. 32)
Lei parla al proposito di «sconvolgente metafora», e si domanda apertamente se sia sufficiente «che il clown cambi il suo costume da pagliaccio e si ripulisca la faccia, perché tutto sia perfettamente in ordine». Confesso che, come inizio del suo libro di commento alle verità di fede enunciate nel Credo, questo mi ha spiazzato per due motivi.
Il primo è la fonte del suo apologo. Con tutti gli accomodanti cattolici che poteva invocare, lei opta per uno scomodo protestante. Con tutti i testi apologetici a cui poteva rivolgersi, lei ne sceglie uno che esalta la Chiesa dei fedeli a scapito di quella delle istituzioni. Con tutti i lavori accademici del professore di Harvard dai quali poteva attingere, lei preferisce un suo best seller divulgativo da un milione di copie.
Il secondo motivo di spiazzamento è la scelta dell’apologo stesso. È piuttosto da un anticlericale incallito che ci si attenderebbe di sentir apostrofare quali «clown e pagliacci» i teologi e i preti, e presumibilmente «papagliaccio» il papa. Non certo da un teologo prete che diventerà appunto papa, qui schermato solo velatamente dal doppio riferimento a Kierkegaard e Cox, e dal giudizio della «sconvolgente metafora».
Si tratta di scelte significative, che rivelano un desiderio di rivolgersi non ai soli specialisti, ma a un vasto pubblico. Non ai soli cattolici, ma ad altre denominazioni, cristiane e non. Non ai soli credenti, ma a coloro che guardano appunto alla Chiesa in particolare, e alla religione in generale, come fenomeni circensi di cui ridere e farsi beffe. Non ai soli lettori umanisti, adusi agli abusi metafisici, ma a quelli scientifici, che pretendono fatti invece che opinioni.
Queste scelte e questi desideri si configurano come espressioni di coraggio, oltre che come esibizioni di forza. Il coraggio e la forza di chi sa, o crede, di poter affrontare i problemi della fede attaccandoli fortemente di petto, invece che arroccandosi debolmente in difesa. Si riconosce in questo atteggiamento un segno del vigore progressista che la caratterizzava nella sua prima fase teologica. Una fase che un ex collega di quegli anni, il suo alter ego Hans Küng, l’ha poi accusata di aver abiurato dopo il fatidico 1968, anno sia della contestazione che del suo libro.
Io non so se l’Introduzione al cristianesimo, che si apre appunto con l’apologo del teologo come clown, rappresenti dunque ancora il suo pensiero odierno. In teoria, le differenze di ruolo e d’età farebbero immaginare divergenze più o meno radicali tra le rispettive posizioni di un teologo quarantunenne e di un papa ottantaquattrenne. In pratica, però, lei non ne ha ammesse con il prefetto sessantaseienne, dichiarando in un’intervista del 6 dicembre 1993 al «Time»: «Non vedo nessuna discontinuità nelle mie posizioni teologiche». E nemmeno con il prefetto settantatreenne, ribadendo nel saggio introduttivo alla nuova edizione del 2000 del suo libro: «Credo, tuttavia, di non avere sbagliato l’orientamento di fondo».
Prenderò dunque per buone le sue dichiarazioni, e continuerò a dialogare con il papa di ora riferendomi alle posizioni del teologo di allora. Posizioni che mi sembra valga la pena di discutere, e con le quali valga la pena di confrontarsi, perché affrontano a viso aperto i punti controversi della dottrina che la separa dai «diversamente credenti», e offrono coraggiosi e innovativi tentativi di chiarificazione al proposito. L’esatto contrario, cioè, dei suoi pronunciamenti dottrinali e delle sue dichiarazioni ufficiali recenti, dalle encicliche ai discorsi, che spesso si presentano come insipide minestre cucinate alla mensa del terzo piano del Palazzo Apostolico.
Per cominciare il nostro dialogo, partiamo dunque dall’apologo in questione. Dietro alle mentite spoglie della parabola, esso presenta un’immagine non solo verosimile, ma veritiera: il fatto che nel mondo d’oggi il teologo e il pre...