La memoria del mondo
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La memoria del mondo

e altre storie cosmicomiche

  1. 304 pagine
  2. Italian
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La memoria del mondo

e altre storie cosmicomiche

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Ogni 'cosmicomica' trae il suo primo spunto da una frase letta in un libro scientifico, là dove un'immagine riesce a prender forma e svilupparsi e vivere d'una sua vita autonoma. In genere si tratta di libri di cosmologia, di fisica, di genetica, ma potrebbero nascere anche da letture più astratte, di matematica o folosofia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852016479

Quattro storie sull’evoluzione

Lo zio acquatico

I primi vertebrati, che nel Carbonifero lasciarono la vita acquatica per quella terrestre, derivavano dai pesci ossei polmonati le cui pinne potevano essere ruotate sotto il corpo e usate come zampe sulla terra.
Ormai era chiaro che i tempi dell’acqua erano finiti, – ricordò il vecchio Qfwfq, – quelli che si decidevano a fare il grande passo erano sempre in maggior numero, non c’era famiglia che non avesse qualcuno dei suoi cari là all’asciutto, tutti raccontavano cose straordinarie di quel che c’era da fare in terraferma, e chiamavano i parenti. Ormai i pesci giovani non li teneva più nessuno, sbattevano le pinne sulle rive di fango per vedere se funzionavano da zampe, com’era riuscito ai più dotati. Ma proprio in quei tempi s’accentuavano le differenze tra noi: c’era la famiglia che viveva a terra da più generazioni, e i cui giovani ostentavano maniere che non erano nemmeno più da anfibi ma già quasi da rettili; e c’era chi s’attardava ancora a fare il pesce, anzi, diventava più pesce di quanto non si usasse essere pesci una volta.
La nostra famiglia, devo dire, nonni in testa, zampettava sulla spiaggia al completo, come non avessimo mai conosciuto altra vocazione. Non fosse stato per l’ostinazione del prozio N’ba N’ga, i contatti col mondo acquatico sarebbero stati perduti da un pezzo.
Sì, avevamo un prozio pesce, e precisamente dalla parte di mia nonna paterna, nata dei Celacanti del Devoniano (quelli d’acqua dolce: che poi resterebbero cugini di quegli altri – ma non voglio dilungarmi sui gradi di parentela, tanto nessuno riesce mai a seguirli). Dunque questo prozio abitava in certe acque basse e limacciose, tra radici di protoconifere, in quel braccio di laguna dov’erano nati tutti i nostri vecchi. Non si muoveva mai di là: in qualsiasi stagione bastava spingerci sugli strati di vegetazione più molli fin che non ci si sentiva sprofondare nel bagnato, e là sotto, a pochi palmi dall’orlo, vedevamo la colonna di bollicine che lui mandava su sbuffando, come fanno gli individui d’età, o la nuvoletta di fango raspata dal suo muso aguzzo, sempre lì a frugare più per abitudine che per cercar qualcosa.
– Zio N’ba N’ga! Siamo venuti a trovarla! Ci aspettava? – gridavamo, sguazzando nell’acqua zampe e coda per richiamare la sua attenzione. – Le abbiamo portato degli insetti nuovi che crescono da noi! Zio N’ba N’ga! Ne aveva mai viste, di blatte così grosse? Assaggi se le piacciono…
– Potete pulirvici quelle verruche schifose che avete addosso, con le vostre blatte puzzolenti! – La risposta del prozio era sempre una frase di questo genere, o magari più villana ancora: ci accoglieva così ogni volta, ma non ci facevamo caso perché sapevamo che dopo un po’ finiva per rabbonirsi, gradire i doni, e conversare in toni più garbati.
– Ma che verruche, zio N’ba N’ga? Quando mai ci ha visto addosso una verruca?
Questo delle verruche era un pregiudizio dei vecchi pesci: che a noi, a vivere all’asciutto, ci venissero tante verruche su tutto il corpo, trasudanti roba liquida; il che era vero sì, ma solo per i rospi, che con noi non avevano nulla da spartire; al contrario, la nostra pelle era liscia e sgusciante come nessun pesce l’aveva mai avuta; e il prozio lo sapeva bene, però non rinunciava a imbastire i suoi discorsi di tutte le calunnie e le prevenzioni in mezzo alle quali era cresciuto.
Andavamo a fare visita al prozio una volta all’anno, tutta la famiglia insieme. Era anche un’occasione per ritrovarci tra noi, sparpagliati com’eravamo nel continente, scambiarci notizie e insetti mangerecci, e discutere vecchie faccende d’interessi rimaste in sospeso.
Il prozio interloquiva anche in questioni lontane da lui chilometri e chilometri di terra secca, come sarebbe la spartizione delle zone per la caccia alle libellule, e dava ragione agli uni o agli altri secondo criteri suoi, che erano sempre quelli acquatici. – Ma non lo sai che chi caccia sul fondo è sempre in vantaggio su chi caccia a galla? Cos’hai da far tanto l’angoscioso, allora?
– Ma zio, veda, non è questione di galla o di fondo: io sto al piede della collina e lui a mezza costa… Le colline, ha presente, zio…
E lui: – Al piede degli scogli c’è sempre i gamberi migliori –. Non c’era verso di fargli accettare per possibile una realtà diversa dalla sua.
Eppure, il suo giudizio continuava ad avere un’autorità su tutti noi: finivamo per chiedergli consiglio su fatti di cui non capiva niente, benché sapessimo che poteva avere torto marcio. Forse la sua autorità gli veniva proprio dall’essere un avanzo del passato, dall’usare vecchi modi di dire, tipo: – E cala un po’ le pinne, bravo! – di cui noi non comprendevamo neppur più bene il significato.
Tentativi di portarlo a terra con noi ne avevamo fatti parecchi, e continuavamo a farne; anzi, su questo punto non s’era mai spenta la rivalità tra i vari rami della famiglia, perché chi fosse riuscito a portare il prozio a casa propria si sarebbe trovato in una posizione diciamo preminente rispetto a tutto il parentado. Ma era una rivalità inutile, perché il prozio non si sognava di lasciare la laguna.
– Zio, alla bella età che ha, sapesse quanto ci dispiace lasciarla così sempre da solo, in mezzo all’umido… A noi, sa, è venuta un’idea… – attaccavamo.
– Me l’aspettavo che l’avreste capita, – interrompeva il vecchio pesce, – ormai il gusto di sguazzare nel secco ve lo siete tolto, è giusto l’ora che torniate a vivere come esseri normali. Qui c’è acqua per tutti, e quanto al mangiare, la stagione dei lombrichi non è mai stata così buona. Potete buttarvi a bagno bell’e ora e non se ne parli più.
– Ma no, zio N’ba N’ga, cos’ha capito? Noi si voleva portarla a star con noi, in un bel praticello… Vedrà che ci si trova bene, le scaviamo una fossetta umida, fresca: lei ci si rigira come vuole tal quale a qui; potrà anche provare a fare qualche passo intorno, vedrà che ci riesce. E poi alla sua età il clima di terra è più indicato. Dunque, zio N’ba N’ga, non si faccia più pregare: viene?
– No! – era la risposta secca del prozio, e con una nasata in acqua scompariva dalla nostra vista.
– Ma perché mai, zio, cos’ha contro, non comprendiamo, lei così largo di vedute, certi preconcetti…
In uno sbuffo a fior d’acqua, prima d’inabissarsi con un colpo ancor agile di coda, ci veniva l’ultima risposta del prozio: – Nuota a pancia nel fango chi ci ha pulci tra le squame! – che doveva essere un modo di dire dei suoi tempi (sul tipo del nostro proverbio nuovo, e molto più rapido: «Chi ha prurito si gratti»), con quell’espressione «fango» che lui continuava a usare per tutte le occasioni in cui noi dicevamo: «terra».
Fu in quell’epoca che io m’innamorai. Passavo le giornate con Lll, rincorrendoci; agile come lei non s’era vista mai nessuna; sulle felci, che a quel tempo erano alte come alberi, saliva fino in cima di slancio, e le cime s’inchinavano fin quasi al suolo, e lei saltava giù e riprendeva la sua corsa; io, con movimenti un po’ più tardi e goffi, la seguivo. Ci inoltravamo in territori dell’interno dove mai nessuna impronta aveva marcato il suolo secco e crostoso; alle volte m’arrestavo spaventato d’essermi tanto allontanato dalla distesa delle lagune. Ma nulla pareva lontano dalla vita acquatica quanto lei, Lll: i deserti di sabbia e pietre, le praterie, il folto delle foreste, i rilievi rocciosi, le montagne di quarzo, questo era il suo mondo: un mondo che pareva fatto apposta per essere scrutato dai suoi occhi oblunghi e percorso dal suo passo guizzante. Guardando la sua pelle liscia pareva che non fossero mai esistite scaglie e squame.
I parenti di Lll mi davano un po’ di soggezione: erano una di quelle famiglie che per essersi stabilite a terra in epoca più antica avevano finito per convincersi di stare qui da sempre; una di quelle famiglie in cui ormai anche le uova venivano deposte all’asciutto, protette da un guscio resistente; e Lll, a guardarla nei suoi scatti, nelle sue mosse saettanti, si capiva che era nata tal quale a ora, da una di quelle uova calde di sabbia e di sole, saltando a piè pari la fase natante e ciondolona del girino, ancora d’obbligo nelle nostre famiglie meno evolute.
Era venuto il momento che Lll conoscesse i miei: e il più anziano e autorevole della famiglia essendo il prozio N’ba N’ga, non potevo mancare di fargli una visita per presentargli la mia fidanzata. Ma tutte le volte che capitava un’occasione, rimandavo pieno d’imbarazzo: conoscendo i pregiudizi in cui lei era stata allevata, non avevo ancora osato dire a Lll che il mio prozio era un pesce.
Un giorno ci eravamo inoltrati in uno di quei fradici promontori che cingono la laguna, dove il suolo più che di sabbia è fatto di grovigli di radici e vegetazione marcita. E Lll mi propose una delle solite sue sfide o prove di bravura: – Qfwfq, fin dove sei buono a tenere l’equilibrio? Facciamo a chi corre più sull’orlo! – e si lanciò avanti col suo saltello da terraferma, ma un po’ esitante.
Stavolta mi sentivo non solo d’emularla, ma di vincerla, perché sull’umido le mie zampe avevano più presa. – Fin sull’orlo quanto vuoi! – esclamai, – e magari anche al di là!
– Non dire stupidaggini! – fece lei. – Al di là dell’orlo come si fa a correre? C’è l’acqua!
Forse era il momento favorevole per portare il discorso sul prozio. – E con ciò? – le dissi. – C’è chi corre di là dell’orlo e chi di qua.
– Dici delle cose senza capo né coda!
– Dico che il mio prozio N’ba N’ga sta nell’acqua come noi in terra, e non ne è mai uscito!
– Bum! Vorrei proprio conoscerlo questo N’ba N’ga!
Non aveva finito di dirlo e la torbida superficie della laguna gorgogliò di bollicine, si mosse un poco a vortice e lasciò affiorare un muso tutto ricoperto di squame spinose.
– Be’: sono io, che c’è? – disse il prozio, fissando Lll con occhi tondi e inespressivi come pietre e facendo pulsare le branchie ai lati dell’enorme gola. Mai il prozio m’era parso così diverso da noi: un vero e proprio mostro.
– Zio, se permette, questa… vorrei avere il piacere appunto di farle conoscere… la mia promessa sposa Lll, – e indicai la mia fidanzata che chissà perché s’era messa ritta sulle zampe di dietro, in uno dei suoi atteggiamenti più ricercati e certamente meno apprezzabili da quel vecchio zoticone.
– E così bel bello, signorina, è venuta a bagnarsi un po’ la coda? – fece il prozio, una battuta che ai suoi tempi sarà magari stata una galanteria, ma a noi suonava addirittura indecente.
Guardai Lll, sicuro di vederla voltarsi e scappar via con uno squittio scandalizzato. Ma non avevo calcolato quanto forte fosse in lei l’educazione a ignorare ogni volgarità del mondo circostante. – Senta, quelle piantine là, – fa, disinvolta, e indica certe giuncacee che crescevano gigantesche in mezzo alla laguna, – le radici, mi dica, dov’è che le affondano?
Una domanda di quelle che si fanno tanto per tener su la conversazione; figuriamoci cosa importava a lei delle giuncacee! Ma il prozio pareva che non aspettasse altro per mettersi a spiegare il perché e il percome delle radici degli alberi galleggianti e di come ci si poteva nuotare in mezzo, anzi: i posti più indicati per la caccia erano lì sotto.
Non la finiva più. Io sbuffavo, cercavo d’interromperlo. Ma quella impertinente invece che fa? Non si mette a dargli corda? – Ah sì, lei va a caccia tra le radici natanti? Interessante!
Io sprofondavo dalla vergogna.
E lui: – Mica storie: i lombrichi che c’è lì, roba da farci delle scorpacciate! – E, senza starci a pensare, si tuffa. Un tuffo agile come mai gliene avevo visto fare; anzi, un salto in alto: balza fuori dell’acqua quant’è lungo, tutto maculato sulle squame, divaricando i ventagli spinosi delle pinne; poi, descritto in aria un bel semicerchio, ripiomba a immergersi testa avanti, e scompare rapido con una specie di movimento a vite della coda falcata.
A questa vista, il discorsetto che m’ero preparato per giustificarmi in fretta con Lll approfittando dell’allontanamento del prozio: «Sai, bisogna capirlo, con questa idea fissa di vivere come un pesce, ha finito per assomigliare a un pesce davvero…» mi si smorzò in gola. Neanch’io m’ero mai reso conto fino a che punto fosse pesce il fratello di mia nonna. Dissi appena: – Lll, è tardi, andiamo… – e già il prozio riemergeva reggendo tra le sue labbra da squalo un festone di lombrichi e alghe fangose.
Non mi pareva vero, quando ci accomiatammo; ma trottando zitto dietro a Lll pensavo che ora lei avrebbe cominciato a fare i suoi commenti, cioè che il peggio per me doveva ancor venire. Ed ecco Lll, senza fermarsi, si volta appena verso di me, e: – Però, simpatico, tuo zio! – Questo, dice, e nient’altro. Di fronte alla sua ironia, già più d’una volta m’ero trovato disarmato; ma il gelo che mi colse a questa battuta fu tale che avrei preferito non rivederla più piuttosto che dover riaffrontare l’argomento.
Invece continuammo a vederci, a andare insieme, e non si parlò più dell’episodio della laguna. Io restavo insicuro: avevo un bel cercare di convincermi che se ne fosse dimenticata; ogni tanto mi prendeva il sospetto che tacesse per potermi svergognare in qualche modo clamoroso, davanti ai suoi, oppure – e questa era per me un’ipotesi ancor peggiore – che soltanto per compassione si studiasse di parlare d’altro. Finché, di punto in bianco, un bel mattino non uscì a dire: – Ma senti, da tuo zio non mi ci porti più?
Con un filo di voce chiesi: – … Scherzi?
Macché: diceva sul serio, non vedeva l’ora di tornare a far quattro chiacchiere col vecchio N’ba N’ga. Io non ci capivo più niente.
Quella volta la visita alla laguna fu più lunga. Ci sdraiammo su una riva in declivio tutti e tre: il prozio più dalla parte dell’acqua, ma anche noi mezzo a bagno, cosicché a vederci da lontano, allungati vicini, non si sarebbe capito chi era terrestre e chi acquatico.
Il pesce attaccò una solfa delle solite: la superiorità della respirazione ad acqua su quella aerea, con tutto il repertorio delle sue denigrazioni. «Adesso Lll salta su e gli risponde per le rime!» pensavo. Invece si vede che quel giorno Lll usava un’altra tattica: discuteva con impegno, difendendo i nostri punti di vista, ma come se prendesse molto sul serio quelli del vecchio N’ba N’ga.
Le terre emerse, secondo il prozio, erano un fenomeno limitato: sarebbero scomparse com’eran saltate fuori, o, comunque, sarebbero state soggette a continui cambiamenti: vulcani, glaciazioni, terremoti, corrugamenti, mutamenti di clima e di vegetazione. E la nostra vita là in mezzo avrebbe dovuto affrontare trasformazioni continue, attraverso le quali intere popolazioni sarebbero scomparse, e sarebbe potuto sopravvivere solo chi era disposto a cambiare talmente le basi della propria esistenza, che le ragioni per cui era bello vivere sarebbero state completamente sconvolte e dimenticate.
Una prospettiva che faceva a pugni...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Presentazione
  4. Cronologia
  5. Bibliografia essenziale
  6. La memoria del mondo
  7. Quattro storie sulla Luna
  8. Quattro storie sulla Terra
  9. Quattro storie sul Sole, le Stelle, le Galassie
  10. Quattro storie sull’evoluzione
  11. Quattro storie sul tempo e sullo spazio
  12. Postfazione di Domenico Scarpa
  13. Copyright