La fortuna non esiste
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La fortuna non esiste

Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi

  1. 168 pagine
  2. Italian
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La fortuna non esiste

Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi

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Due anni in viaggio attraverso l'America, trentasei Stati, l'elezione presidenziale più emozionante che si ricordi e tante vite di gente comune. Ma al centro di tutto questo per Mario Calabresi c'è una sola domanda: che cosa succede nel cuore di chi cade e trova la forza di rialzarsi? Magari con fatica, con dolore, ma con tenacia incrollabile e soprattutto senza aspettare la fortuna? Qual è il segreto di una nazione e della sua gente, capace da sempre - ma oggi più che mai - di reinventarsi da zero, di darsi una seconda chance, di eleggere un presidente nero contro ogni previsione, di rimettersi in cammino anche dopo che la più grave recessione del dopoguerra ha travolto la vita di milioni di persone?
Calabresi ci emoziona con un racconto di vita in prima persona, fatto di storie vere, storie di persone incontrate nella sua lunga traversata degli Stati Uniti alla ricerca di chi ha saputo nascere due volte. Un viaggio al centro della domanda che tutti prima o poi ci siamo posti: che cosa succede quando cadi? E poi: come fai a rialzarti?

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852015755

La fortuna non esiste

A Emma e Irene

Nata due volte

Da cinque giorni era cominciato un anno tumultuoso che avrebbe portato l’Italia in guerra. I giornali di quella mattina raccontavano di un cannoneggiamento delle navi italiane a Durazzo, in Albania. A Torino maturavano manifestazioni di interventisti e di neutralisti, scioperi e una rivolta per il rincaro del prezzo del pane.
Alle cinque del pomeriggio il dottor Buscaglino, di professione medico di famiglia, aveva finito il giro delle visite, quando decise di passare in via Pier Carlo Boggio 134, in quella zona tra la Crocetta e la zona industriale San Paolo che chiamavano il Polo Nord, perché lì faceva sempre freddo. Anche quel pomeriggio, nonostante fosse stata una giornata soleggiata, la temperatura era sotto lo zero e il termometro nella notte avrebbe fatto segnare -6.
Si fermò davanti al portone, si aggiustò i baffi rossi che erano il suo biglietto da visita, entrò nell’androne e chiese alla portinaia notizie della signora Marietta Cavadore e della sua gravidanza. La donna scosse la testa: «È caduta nel primo pomeriggio e ha perso la bambina. È nata morta». «Perché, era femmina?» chiese istintivamente il medico. «Sì, ma non è sopravvissuta.»
Il dottor Buscaglino rimase immobile, era padre di due maschi, una figlia femmina era il sogno della sua vita, e gli sembrava terribilmente ingiusto che quel giorno il mondo avesse perso una bambina. Prese le scale, salì al secondo piano e suonò. Il medico se n’era già andato da tempo, in casa c’erano solo la madre e la nonna della bambina. Aprì la nonna Rosa, si conoscevano da sempre perché abitavano nello stesso palazzo, in corso Vinzaglio, da quando lei si era trasferita da Montà d’Alba.
Entrò piano nella camera, Marietta giaceva a letto. Era scivolata in casa mentre era incinta di sei mesi e mezzo e aveva avuto un’emorragia. Il medico, arrivato quasi subito, era riuscito a bloccare il sangue, ma non aveva potuto evitare il parto spontaneo. Aveva dovuto registrare la perdita di una bambina venuta al mondo troppo prematura per poter sopravvivere.
Il dottor Buscaglino, con un certo imbarazzo, chiese dove fosse stata messa la neonata. Marietta non rispose neppure, Rosa fece un cenno con la testa indicando il mobile toilette con lo specchio: «Non sono ancora passati a prenderla». Un fagotto fatto con le federe dei cuscini era appoggiato sul piano di marmo. Il dottore si avvicinò, lo aprì con cautela, si fermò a guardare la bambina con i palmi appoggiati sul marmo gelato, poi posò una mano sulla pancia della piccola per farle una carezza e ci fu un movimento: «Ma non è fredda: è tiepida». La sollevò di scatto: «Disgraziati, ma questa bambina è mica morta, è viva». «Ma non ha mai respirato, non ha pianto, non era neanche di sette mesi» gli rispose la nonna Rosa. «Non ha la forza per piangere, portatemi delle coperte, scaldiamola.»
Si mise a massaggiarla senza sosta, la avvolse nella lana e poi si avvicinò alla madre e, come in preda a una visione, cominciò a parlare in modo concitato: «Me la lasci portare a casa, ci voglio provare, non bisogna arrendersi: le costruirò una culla con la bambagia, le metto una lampada sopra, giorno e notte, le possiamo dare il latte con il contagocce». Marietta fece sì con la testa, non aveva più parole, aveva perso e ritrovato la sua prima figlia, ma non voleva illudersi. Il medico strinse al petto il fagotto di lana e uscì di corsa. La portinaia sgranò gli occhi a vederlo passare con quell’involto che conteneva una bambina sotto il cappotto e lui le gridò: «Mandi qualcuno ad avvisare il becchino, non c’è più bisogno che venga».
Era il 5 gennaio 1915, martedì. Maria Tessa, mia nonna, cominciò quel giorno, tra le braccia di un fascinoso medico dal pizzetto rosso, un’avventura che l’avrebbe portata a vedere l’elezione di Barack Obama. Il dottor Buscaglino, di cui la nonna non ricorda il nome, se la portò a casa e la tenne per mesi in cucina, con la stufa sempre accesa per avere una temperatura costante, la fece crescere e poi la affidò alla nonna Rosa, perché la madre ci metteva molto tempo a riprendersi. La bimba tornò alla casa in via Boggio quando aveva due anni, era magrolina, camminava veloce e volle fare le scale da sola.
«Ero un piccolo pollo che non aveva neppure la forza di piangere, ma sono arrivata fino a qui perché ho incontrato un uomo che aveva voglia di scommettere sulla vita, che ebbe il coraggio di assumersi un rischio, di pensare con la sua testa e di non arrendersi quando gli altri mi davano per morta. Ho vissuto 94 anni, ma alla fine l’unica lezione che mi porto dentro è che non bisogna mollare mai. Mai arrendersi: bisogna essere curiosi, ambiziosi e artefici del proprio destino.»

I

Il raccolto arriverà

Se ci si chiede qual è il fondo, il punto più basso che si può toccare, e si ha proprio voglia di guardare in faccia la risposta, basta atterrare all’aeroporto internazionale di Pittsburgh, affittare una macchina, superare i ponti che portano in città e guidare verso est ancora per un quarto d’ora. Non c’è bisogno di molte spiegazioni, quello che si incontra è talmente esplicito da non lasciare alcun dubbio.
Immaginate una città a cui è stata tolta l’anima, a cui hanno portato via tutto quello che serve a definire l’esistenza di una comunità: il lavoro, le scuole, i bar, i ristoranti, gli alberghi, i cinema, la piscina e gli abitanti. Perché le città possono anche morire, spegnersi lentamente, vedere scorrere via la vita, crollare isolato dopo isolato fino a trasformarsi in fantasmi.
L’esempio perfetto di declino, il caso più eclatante che si possa trovare oggi in America, si chiama Braddock, una dozzina di chilometri dal centro di Pittsburgh, in quella parte della Pennsylvania ribattezzata «Rust Belt». La chiamano così: «Zona della ruggine» perché prima c’era l’industria pesante, si produceva l’acciaio, poi è collassato tutto e l’era della manifattura ormai è archeologia.
Braddock ancora negli anni Cinquanta aveva ventimila abitanti, attirava lavoratori, commerci, visitatori: le foto la mostrano affollata e caotica. Ora, secondo l’ultimo censimento, ne ha meno di tremila, 2912 per essere precisi. È tutto diroccato, abbandonato: dove c’erano i negozi si vedono solo assi inchiodate e cartelli con la scritta «in vendita» vecchi di almeno vent’anni. I pochi ancora aperti hanno una rete metallica davanti alle vetrine, per impedire che vengano sfondate. Più di un terzo dei cittadini rimasti vive sotto la soglia della povertà, la maggior parte sono disoccupati e il valore medio delle case rimaste in piedi è di 6200 dollari, dimezzato solo nell’ultimo anno. Una villetta di due piani col giardinetto costa meno di un’utilitaria usata.
Qui, sul Monongahela River, dove a metà del Settecento i francesi alleati degli indiani sconfissero gli inglesi capitanati da un certo Edward Braddock che morì e lasciò in eredità il suo nome, un secolo più tardi lo scozzese Andrew Carnegie, il re della siderurgia, aprì la sua prima acciaieria: la Edgar Thomson Steel Works. Era il 1875. Questa valle stretta e boscosa diventò in pochi anni il faro dell’industria americana e del progresso: il cuore del nascente Secolo Americano. Per quasi un secolo, la città continuò a riempirsi di abitanti, di orgoglio e di lavoro, poi arrivarono il crollo dell’acciaio, la disoccupazione e l’epidemia di crack, quei cristalli di cocaina da inalare che qui cancellarono per intero la generazione degli adolescenti degli anni Ottanta.
Ciò che resta, dopo quello che il sindaco chiama uno «tsunami sociale», è talmente impressionante da aver spinto Hollywood a scegliere Braddock per ambientare la versione cinematografica del romanzo premio Pulitzer La strada di Cormac McCarthy. C’era bisogno di un luogo che raccontasse l’America dopo l’Apocalisse, che facesse da sfondo al viaggio di un bambino e di suo padre, interpretato nel film da Viggo Mortensen, in un mondo in cui la civiltà è stata cancellata da un cataclisma e i sopravvissuti vivono di violenza e cannibalismo. Non hanno avuto bisogno di ricostruirlo in studio: era lì, a disposizione, con tutto il suo carico di angoscia e distruzione.
Questa città avrebbero dovuto dichiararla morta, cancellarla dalle cartine e dimenticarsene, se non fosse che il suo scheletro è troppo ingombrante, che sta troppo vicina a cose vive e che quei tremila non sanno dove andare e non se ne vogliono andare. Allora hanno provato a eliminarla in nome del rilancio e del progresso di tutta l’area, facendoci passare proprio sopra il progetto della nuova autostrada a quattro corsie che parte dall’aeroporto, un progetto faraonico da due miliardi e mezzo di dollari. Ma il destino, gli speculatori, gli urbanisti e «l’inarrestabile declino» hanno trovato due ostacoli, due strane figure capaci di rimettere in discussione tutto. Due persone che ragionano in modo poco convenzionale, che non hanno rispettato le regole e che hanno avuto una visione: si sono convinti che anche le città possano rinascere.
Si chiamano Victoria Vargo, detta Vicky, e John Fetterman. La bibliotecaria e il sindaco. Due persone che non hanno nulla in comune, che sono agli antipodi come filosofia di vita, modo di parlare, muoversi e ragionare: lei è una cinquantenne riservata e silenziosa, un’intellettuale che crede nella politica dei piccoli passi; lui un energumeno appassionato e rumoroso, viscerale ma con un master ad Harvard, convinto che si debba vivere come dei lottatori e che la discrezione corrisponda alla resa. La bibliotecaria e il sindaco, ognuno per conto suo e percorrendo una strada diversa, sono arrivati alle stesse certezze: che non esista una situazione peggiore di quella che hanno avuto in sorte di vivere e che dall’ultimo gradino si possa solo risalire.
La grande fabbrica è ancora lì, alla fine della via principale, che si chiama naturalmente Braddock Avenue: la si vede, la si sente e la si respira da ogni angolo della città, non si è fermata un solo minuto in 134 anni. Ha attirato generazioni di lavoratori immigrati dall’Europa dell’Est, li ha mescolati con il popolo degli Appalachi, gente di montagna che scappava dalla povertà e preferiva l’altoforno alla miniera.
La fabbrica è in fondo alla valle che corre lungo il fiume. Braddock comincia cinquecento metri prima: si è espansa per quasi ottant’anni, toccando il suo culmine all’inizio degli anni Cinquanta, quando forniva l’acciaio per costruire il Sogno Americano. Vent’anni dopo, il mercato siderurgico crolla e, in una cittadina che viveva solo di quello, il declino si fa drammatico. La fine dell’acciaio è la fine di Braddock. Dal Sogno Americano si passa all’Incubo Americano. Gli ultimi operai della fabbrica, dopo anni di ristrutturazioni continue, se ne vanno a vivere a Pittsburgh: la terza generazione, i nipoti dei protagonisti del boom, volta le spalle alla città e al fiume. Quando una comunità perde lavoro e lavoratori il suo destino è segnato: cominciano a chiudere i negozi, uno dopo l’altro e sempre più in fretta, poi le banche, i bar e i ristoranti.
L’ultimo rimasto, Vocelli Pizza, spegne le luci alla fine di gennaio del 2006, dopo che una sera alle sette sparano in faccia al garzone trentenne delle consegne a domicilio. Non si è mai saputo chi abbia ucciso Christopher Williams e insieme a lui la possibilità di mangiare una pizza a Braddock: i proprietari di Vocelli offrirono 2000 dollari per avere informazioni sull’omicidio, ma nessuno si fece vivo. Allora alzarono la taglia a 15mila dollari, reddito medio di un cittadino di Braddock, ma non servì a nulla. Nel primo anniversario un anonimo pubblicò un annuncio promettendo addirittura 20mila dollari di ricompensa per fare giustizia. Anche questa volta nessuno telefonò, il delitto rimase irrisolto e Braddock senza locali dove mangiare.
Ma la data dell’omicidio: 01-16-2006 (con il mese, gennaio, prima del giorno come la scrivono gli americani) è tatuata sull’avambraccio destro di «Mayor John» – come si firma nelle mail e negli sms –, il sindaco. È un uomo gigantesco, 140 chili per oltre due metri di altezza, completamente pelato con un pizzetto diabolico, potrebbe fare il buttafuori a un concerto di rock duro o partecipare al campionato di wrestling. All’interno del braccio sono state incise altre quattro date, quelle in cui sono morte le altre persone uccise da quando è stato eletto, tra cui una bambina di due anni aggredita e poi abbandonata in mezzo alla neve del nuovo parco giochi, morta assiderata mentre cercava la strada di casa.
Sul braccio sinistro si è fatto tatuare solo cinque cifre: 15104, il codice d’avviamento postale della città. Se lo è fatto incidere sulla pelle, per dare il senso della missione, del suo completo coinvolgimento nella lotta per la sopravvivenza di questa città.
John Fetterman ha 39 anni ed è nato a York, trecento chilometri più a est in direzione di Philadelphia, e ha un curriculum di tutto rispetto: ha studiato ad Harvard, dove ha preso un master in Politiche sociali. È arrivato qui negli anni Novanta come volontario per assistere i giovani che avevano abbandonato la scuola. Nel 2001 ha lanciato un suo progetto per recuperare duecento ragazzi dallo spaccio, dall’alienazione, dalla violenza: lo hanno preso sul serio e lo hanno seguito. Non era uno di quelli che la sera se ne andavano a dormire al sicuro in un’altra città, si era subito comprato un vecchio magazzino davanti alla biblioteca, pagandolo solo 3000 dollari, lo aveva ristrutturato e ne aveva fatto casa sua. Così si è conquistato il diritto di fare il capobranco per il suo coraggio, perché parla la lingua dei ragazzi, quella del rap e dei graffiti, e perché non li ha mai abbandonati.
Nel 2007 ha pensato che doveva fare un passo in più: ha deciso di provare a caricarsi su queste spalle gigantesche non solo i giovani ma tutta la città, e si è candidato sindaco. Ha vinto per un solo voto in una corsa con tre candidati.
Mentre mi guardo in giro e mi fermo davanti alla palazzina di quello che è stato l’ultimo albergo di Braddock, l’hotel «Valle dell’acciaio», con l’insegna ancora al suo posto e anni di polvere e fango sui vetri, non riesco a credere che ci siano persone che si sono battute per diventare primo cittadino di un posto come questo.
Mayor John è stato eletto grazie ai giovani e al suo programma: richiamare artisti, abitanti, lavoro e far riaprire un ristorante.
Ci siamo scritti per settimane, mi aveva promesso un’intervista, ma l’abbiamo rinviata almeno quattro volte: doveva preparare la stanza del primo figlio che stava per arrivare in anticipo. L’ha dipinta, ha montato il letto, il fasciatoio, gli scaffali e mi ha tenuto aggiornato perfino sui dolori e le contrazioni della moglie. Karl è nato a Braddock, in quella casa che era un deposito, il 15 febbraio 2009. «Sono sempre qui,» mi scrive Mayor John «il neonato sta bene ma io non mi posso muovere, la porterò a vedere come sto facendo rinascere la speranza.» Dopo dieci giorni decido che è ora di andare a trovarli.
A un chilometro da Braddock, prima di scendere nella valle, il mondo è ancora normale: ci sono dei condomini in cemento armato, un fast food, un paio di distributori di benzina e gente che cammina sui marciapiedi. Poi la strada inizia a scendere, la macchina comincia a sobbalzare sulle buche e si apre lo spettacolo delle case distrutte: tetti sfondati, facciate crollate, vetri rotti, assi spezzate. Nemmeno a Detroit o a Cleveland ho visto una concentrazione simile di abitazioni abbandonate.
Sul marciapiede camminano solo due ragazzi neri, hanno il collo tatuato, jeans larghissimi con il cavallo basso e un cappellino da baseball con la visiera di lato. Si muovono lenti e alla stessa velocità li segue la macchina della polizia. L’agente si è convinto che oggi non vadano lasciati un attimo soli e li scorta non si sa fino a dove.
Arrivo al comune, Mayor John ha appena fatto erigere un monumento ai caduti di fronte all’ingresso. Parcheggio, entro, ma lui in ufficio non c’è. La segretaria mi dice di provare a casa: «Da quando è nato Karl non lo si vede molto da queste parti». Mi spiega come arrivarci, ma prima di andare a suonare alla porta del sindaco faccio tutto il giro della sua città: ci sono pubblicità antiche dipinte sui muri, circolano macchine vecchie e scassate e un negozio ha in vetrina un pupazzo a pile del giocatore di basket Michael Jordan, una cosa vecchia di almeno quindici anni: a New York o a Chicago farebbe la gioia dei collezionisti, qui è solo un giocattolo vecchio. Ai confini della città sfilano decine di vecchie fabbriche e magazzini, sono pieni di fascino e completamente abbandonati, non come a Pittsburgh, dove sono stati tutti restaurati e l’archeologia industriale è diventata il simbolo della rinascita della città.
Parcheggio, comincio a camminare a piedi e subito vengo invaso dalla tristezza e dall’angoscia di fronte a quello che si vede dietro decine di vetrine vuote: tavoli e sedie abbandonati da anni, scaffali rovesciati, poltrone sfondate e biglietti ingialliti lasciati sulle porte. Villette sigillate dalla polizia perché pericolanti, con i cartelli che intimano di non entrare e non avvicinarsi e l’erba alta che non viene tagliata chissà da quando.
Arrivo a casa del sindaco, nel giardino ci sono opere d’arte realizzate dal progetto RiverCube, che crea sculture con la compressione dei rifiuti ferrosi raccolti lungo le rive del fiume. Su uno dei muri esterni c’è un grande murale con la scritta «Labor». Sul citofono non c’è targhetta, ma una busta con il nome che cerco è stata appoggiata sulla maniglia. Suono ma non apre nessuno, allora lo chiamo al telefono ma non risponde. Decido di fare un altro giro. Lì accanto un gruppo di ragazzi gioca a basket, mi fermo a guardare la partita: ci sarebbero due squadre ma nessuno passa mai la palla a un compagno, chi prende il rimbalzo palleggia per un po’ e poi tira, come se esistesse solo lui.
Vado al nuovo centro di avviamento al lavoro, aperto in un palazzo degli anni Venti restaurato: è una via di mezzo tra un ufficio di collocamento e un centro di formazione e consulenza. Di questi tempi, però, non si viene qui per cercare occupazione, ma semplicemente per evitare di restare al buio e al gelo: al piano terra è stato messo il quartier generale del «Crisis program», voluto dallo Stato della Pennsylvania per aiutare a pagare le bollette di elettricità e gas chi non è più in grado di farlo o per riallacciare le forniture a chi ormai viveva senza luce e riscaldamento. Assistono quaranta persone al giorno dal lunedì al venerdì, metà la mattina e metà il pomeriggio, e da quando il programma è partito c’è sempre la fila. Faccio i conti e mi rendo conto che lo Stato paga le bollette già a due terzi degli abitanti di Braddock.
Sheila, la ragazza afroamericana che lavora al «Crisis Program», è nata qui e ha nostalgia degli anni Ottanta, quando era una bambina: «C’era la droga certo, come adesso, ma almeno avevamo una sala con i videogiochi e per i più grandi c’era il biliardo. Oggi non c’è più niente: o spacci o resti chiuso in casa». Il guardiano ha settant’anni, è un po’ acciaccato ed è di origine irlandese, non vuole dire nulla di cos’era la città in passato, riesce solo a sospirare e a ripetere il soprannome che si usava un tempo: «Brady, Brady».
Quando esco, finalmente Mayor John mi risponde al telefono, scopro che è in rotta verso New York: «Sono stato invitato all’ultimo momento al “Colbert Report”». Sarà ospite del programma televisivo comico di Steven Colbert che andrà in onda stasera. «Mi dispiace, ma non ce la facciamo proprio a vederci.» Io sono partito all’alba proprio da New York e mi prende lo sconforto. Non riuscirò a guardarlo in faccia, volevo vedere come camminava nella sua città, come lo salutava la gente, volevo sentire dalla sua voce il racconto del campo giochi nuovo di zecca, della chiesa sconsacrata che ha fatto ristrutturare e in cui sta per inaugurare un centro sociale, degli artisti, dei nuovi abitanti venuti dall’Oregon e dall’Alaska che hanno creduto nel suo progetto di rinascita. Invece dovrò accontentarmi di quello che ha già detto o mi ha scritto.
Cerco un posto dove mangiare ma non trovo niente, neanche un McDonald’s, tutto mi sembra ancora più cupo e desolante. Allora gli mando un messaggino: «E adesso con chi posso parlare, chi mi può raccontare Braddock?». Mi risponde immediatamente e con sole dieci parole: «Vicky Vargo, alla biblioteca, è davvero brava e sa tutto».
Quattordici anni dopo aver aperto la fabbrica e dopo aver represso nel sangue il primo sciopero, Carnegie, uno degli uomini più ricchi della storia, iniziò a preoccuparsi anche dei suoi operai e cominciò l’attività filantropica per cui è passato alla storia. Il 30 marzo 1889 inaugura a Braddock la prima Carnegie Free Library, una biblioteca aperta a tutti dove è possibile leggere giornali, libri e seguire corsi serali. Dopo questa ne aprirà altre 1678 in ogni angolo degli Stati Uniti, raddoppiando in trent’anni il numero delle biblioteche, una rivoluzione per l’alfabetizzazione e la diffusione della cultura in America. L’edificio destinato a ospitare la biblioteca di Braddock era già imponente, con un corpo centrale a tre piani e due torri con una copertura conica, ma Carnegie non si accontentò e quattro anni dopo la fondazione decise di moltiplicare lo spazio della sua prima creatura: fece mettere dei tavoli da biliardo, nei sotterranei vennero creati immensi spogliatoi e docce per gli operai di ritorno dalla fabbrica, aggiunse un teatro da quasi mille posti, una piscina, un campo da basket al coperto, una pista da bowling e una torre ottagonale che dà alla costruzione l’aspetto di un castello.
Per più di settant’anni la Braddock Carnegie Library rappr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. La fortuna non esiste
  6. Ringraziamenti