La chiave di Sarah
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La chiave di Sarah

  1. 322 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

16 luglio del 1942, una notte d'estate come tante altre, a Parigi. La piccola Sarah è a casa con la sua famiglia, quando viene svegliata dall'irruzione della polizia francese e prelevata insieme ai genitori. Ha solo dieci anni, non capisce cosa sta succedendo, ma è atterrita e prima di essere portata via riesce a nascondere il fratello più piccolo in un armadio a muro che chiude a chiave.
Sessant'anni dopo Julia, una giornalista americana che vive a Parigi, deve fare un'inchiesta su quei drammatici fatti e le sue indagini la portano molto più lontano del previsto. Il suo destino si incrocia fatalmente con quello della piccola Sarah, la cui vita è legata alla sua più di quanto lei possa immaginare. Romanzo di forte impatto emotivo, intriso di una verità storica che appassiona e commuove, La chiave di Sarah è un grande bestseller internazionale, un racconto a due voci in cui passato e presente si fondono per svelarci cosa è realmente accaduto in quella tragica estate a Parigi, e fare luce su una vergognosa pagina della Storia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852016363

Parigi, luglio 1942
La bambina fu la prima a udire che qualcuno bussava forte alla porta. La sua camera era la più vicina all’ingresso. Sulle prime, intontita dal sonno, pensò fosse il padre che saliva dal suo nascondiglio in cantina. Aveva dimenticato le chiavi e si era spazientito perché nessuno aveva sentito i suoi primi, timidi colpi. Ma poi nel silenzio della notte le giunsero voci dure e aggressive. Il padre non c’entrava per nulla. «Polizia! Aprite! Subito!» I colpi ripresero più decisi, rintronandole fin nel midollo. Il fratellino, nel letto accanto, si mosse nel sonno. «Polizia! Aprite! Aprite!» Che ora era? Sbirciò tra le tende. Ancora buio, fuori.
Atterrita, ricordò le recenti conversazioni dei genitori, che parlavano a bassa voce nel cuore della notte convinti che lei dormisse. Si era avvicinata in punta di piedi per spiarli attraverso la porta socchiusa del soggiorno. Il tono nervoso del padre. Il viso ansioso della madre. Si esprimevano nella lingua del loro paese d’origine, che lei comprendeva pur non parlandola correntemente. Il padre aveva sussurrato che li aspettavano tempi duri, che avrebbero dovuto essere coraggiosi e molto prudenti. Aveva pronunciato parole strane, sconosciute – “campi”, “rastrellamento, un grosso rastrellamento”, “arresti nel cuore della notte” – e lei si era chiesta cosa significassero. Soltanto gli uomini erano in pericolo, sosteneva il padre, non le donne e i bambini, per cui la notte si sarebbe rifugiato in cantina.
La mattina le aveva spiegato che avrebbe corso meno rischi dormendo lì per un certo periodo. Finché “la situazione” non fosse tornata “tranquilla”. Che cos’era esattamente “la situazione”? In che senso “tranquilla”? Quando sarebbe tornata “tranquilla”? Voleva scoprire cosa significassero “campi” e “rastrellamento”, ma, restia ad ammettere di aver origliato più volte i discorsi dei genitori, non aveva osato fare domande.
«Aprite! Polizia!»
Si chiese se i poliziotti avessero scoperto che papà era in cantina, se fossero venuti a prenderlo per portarlo in quei posti che lui aveva menzionato durante le conversazioni segrete a mezzanotte: i “campi”, lontani, fuori città.
A passi felpati percorse il corridoio per raggiungere la camera dei genitori. La mamma si svegliò non appena si sentì sfiorare la spalla.
«I poliziotti» sussurrò la piccola. «Stanno bussando alla porta.»
La madre liberò le gambe dalle lenzuola e scostò i capelli dagli occhi. La bambina notò che appariva stanca, vecchia, molto più vecchia dei suoi trent’anni.
«Sono venuti a prendere papà?» piagnucolò, le mani sulle braccia della madre. «Sono venuti per lui?»
La madre non rispose. Di nuovo echeggiarono le voci lungo il corridoio. Si infilò una vestaglia sopra la camicia da notte, poi, presa la figlia per mano, si diresse verso la porta. La mano era calda e appiccicosa come quella di un bambino, pensò la piccola.
«Sì?» fece la madre timidamente, senza aprire il chiavistello.
Una voce d’uomo gridò il suo nome.
«Sì, Monsieur, sono io» rispose con pesante accento straniero.
«Apra immediatamente. Polizia.»
La madre si portò la mano alla gola e la bambina vide che era molto pallida. Sembrava senza parole, paralizzata, non più in grado di muoversi. Non aveva mai colto tanto terrore sul viso della madre. Sentì la gola riarsa per l’angoscia.
Gli uomini bussarono di nuovo. La madre aprì la porta con dita impacciate, tremanti. La bambina trasalì: si era aspettata di vedere divise grigioverdi.
Due uomini. Uno, un poliziotto, indossava il mantello blu scuro fino al ginocchio e il cappello alto e tondo; l’altro, un impermeabile beige. Aveva un elenco in mano. Ancora una volta pronunciò il nome della donna, poi quello del marito. Parlava un francese perfetto. Allora siamo salvi, pensò la bambina. Se sono francesi, e non tedeschi, non corriamo pericoli. Se sono francesi, non ci faranno del male.
La madre strinse a sé la figlia. La bambina sentì il battito del cuore della madre attraverso la vestaglia. Avrebbe voluto spingerla via, avrebbe voluto che lei stesse diritta e guardasse l’uomo con fermezza, che la smettesse con quell’atteggiamento impaurito, che impedisse al cuore di battere all’impazzata come quello di un animale terrorizzato. Avrebbe voluto che si mostrasse coraggiosa.
«Mio marito… non c’è» balbettò la madre. «Non so dove sia. Non lo so.»
L’uomo con l’impermeabile beige si introdusse di prepotenza nell’appartamento.
«Si sbrighi, Madame. Ha dieci minuti di tempo. Metta in valigia qualche indumento per un paio di giorni.»
La madre non si mosse. Continuò a fissare il poliziotto rimasto sul pianerottolo con le spalle alla porta. Pareva indifferente, annoiato. Lei gli posò la mano sulla manica blu.
«Monsieur, la prego…»
Lui si voltò e spinse via la mano con espressione dura e al tempo stesso assente.
«Ha sentito. Lei viene con noi, e anche sua figlia. Faccia come le dico.»

Parigi, maggio 2002
Bertrand era in ritardo, come al solito. Cercai di non farci caso, ma mi riuscì difficile. Seccata, Zoe si appoggiò al muro. A volte mi divertiva la sua somiglianza con il padre. Ma non quel giorno. Alzai gli occhi verso l’alto palazzo antico – la vecchia casa di Mamé, la nonna di Bertrand – dove noi stavamo per trasferirci. Avremmo lasciato Boulevard du Montparnasse – il traffico rumoroso, l’incessante andirivieni delle ambulanze per via dei tre ospedali vicini, i caffè e i ristoranti – per questa stradina tranquilla sulla riva destra della Senna.
Il Marais era un arrondissement che non conoscevo bene, anche se ne ammiravo l’antica eleganza un po’ appannata. Se ero contenta del trasferimento? Non lo sapevo. Bertrand non aveva chiesto il mio parere, anzi, per la verità non ne avevamo parlato granché. Con l’abituale fervore, si era lanciato nell’impresa. Senza di me.
«Eccolo» disse Zoe. «Solo mezz’ora di ritardo.»
Osservammo Bertrand risalire la strada con il suo incedere sensuale, molto particolare. Snello e bruno, trasudava il tipico sex appeal francese. Stava telefonando, come al solito. Lo seguiva da vicino il suo socio, il barbuto e roseo Antoine. I loro uffici si trovavano in Rue de l’Arcade, subito dietro la Madeleine. Bertrand aveva lavorato a lungo in uno studio di architettura, fin da prima del nostro matrimonio, ma da cinque anni si era messo in proprio con Antoine.
Ci salutò con un cenno della mano, poi indicò il cellulare corrugando le sopracciglia.
«Come se non potesse chiudere la telefonata» ironizzò Zoe. «Ovvio.»
Aveva soltanto undici anni, ma a volte dava l’impressione di essere già un’adolescente. Innanzitutto per la statura, che faceva apparire piccole tutte le sue amiche – come pure per i piedi, avrebbe aggiunto lei –, e poi per la precoce lucidità che spesso mi lasciava senza fiato. C’era qualcosa di adulto in quei solenni occhi nocciola, nel suo modo riflessivo di sollevare il mento. Era sempre stata così, anche da piccola. Calma, matura, a volte fin troppo per la sua età.
Antoine venne a salutarci mentre Bertrand continuava la conversazione a voce talmente alta da farsi sentire da tutta la strada: gesticolava, faceva delle smorfie, si voltava di tanto in tanto per accertarsi che non ci sfuggisse neppure una parola.
«Un problema con un altro architetto» spiegò Antoine con un sorriso timido.
«Un concorrente?» chiese Zoe.
«Già, un concorrente» rispose Antoine.
Zoe sospirò.
«Il che significa che potremmo restare qui per tutto il giorno.»
Mi venne un’idea.
«Antoine, non è che per caso tu hai la chiave dell’appartamento di Madame Tézac?»
«Certo che ce l’ho, Julia» disse lui raggiante. Mentre io gli parlavo in francese, Antoine mi rispondeva regolarmente in inglese, immagino per mostrarsi cordiale. In realtà la cosa mi infastidiva, mi faceva sentire che il mio francese non era granché, malgrado vivessi in Francia da tanti anni.
Antoine sventolò la chiave con aria compiaciuta. Decidemmo di salire noi tre. Zoe digitò velocemente il codice numerico sul tastierino del portone, poi attraversammo insieme il fresco cortile ombroso verso l’ascensore.
«Odio questo ascensore» commentò Zoe. «Papà dovrebbe farci qualcosa.»
«Tesoro, sta solo ristrutturando la casa della tua bisnonna, non tutto il palazzo» spiegai.
«Be’, sarebbe il caso che lo facesse.»
Mentre aspettavamo l’ascensore, il mio cellulare produsse le note della colonna sonora di Guerre stellari. Guardai il numero sul display. Joshua, il mio capo.
«Sì?»
«Ho bisogno di te prima delle tre. Sto chiudendo il numero di luglio. Passo e chiudo.»
«Perdinci» commentai impertinente. Sentii una risatina all’altro capo della linea, prima che lui interrompesse la comunicazione. Joshua sembrava divertirsi sempre quando io dicevo “perdinci”. Forse gli ricordava la sua giovinezza. E Antoine apprezzava quelle mie espressioni, che immaginavo incamerasse per poi provarle con il suo accento francese.
L’ascensore era uno di quei tipici trabiccoli parigini con cabina minuscola, griglia di ferro che si chiude a mano e doppia porta di legno che inevitabilmente ti sbatte in faccia. Schiacciata tra Zoe e Antoine – era andato giù pesante con il profumo Vétiver – mentre salivamo mi vidi di sfuggita nello specchio. Apparivo in disarmo come quel cigolante ascensore. Cos’era accaduto alla fresca bellezza di Boston, Massachusetts? La donna che mi fissava era nell’orrida età tra i quarantacinque e i cinquanta, quella terra di nessuno della ruga incipiente e della pelle cadente che annunciano il furtivo avvicinarsi della menopausa.
«Anch’io detesto questo as...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La chiave di Sarah
  4. Premessa
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33
  38. 34
  39. 35
  40. 36
  41. 37
  42. 38
  43. 39
  44. 40
  45. 41
  46. 42
  47. 43
  48. 44
  49. 45
  50. 46
  51. 47
  52. 48
  53. 49
  54. 50
  55. 51
  56. 52
  57. 53
  58. 54
  59. 55
  60. 56
  61. 57
  62. 58
  63. 59
  64. 60
  65. 61
  66. 62
  67. 63
  68. 64
  69. 65
  70. 66
  71. 67
  72. 68
  73. 69
  74. 70
  75. 71
  76. 72
  77. 73
  78. 74
  79. 75
  80. 76
  81. 77
  82. 78
  83. 79
  84. 80
  85. 81
  86. 82
  87. 83
  88. Bibliografia
  89. Copyright