Non sono venuto a far discorsi
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Non sono venuto a far discorsi

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Non sono venuto a far discorsi

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"Confesso di avere fatto tutto il possibile per non partecipare a questa riunione: ho cercato di ammalarmi, ho tentato di farmi venire una polmonite, sono andato dal barbiere con la speranza che mi sgozzasse e, infine, mi è venuta in mente l'idea di presentarmi senza giacca e cravatta in modo che non mi facessero entrare a un incontro formale come questo. Risultato: eccomi qui e non so da dove cominciare. Però vi posso raccontare, per esempio, come ho iniziato a scrivere." Gabriel García Márquez è sempre stato allergico ai discorsi pubblici, tanto da affermare, in una conferenza del 1972: "Ci sono due cose che mi ero ripromesso di non fare mai: ricevere un premio e tenere un discorso". Dieci anni dopo vincerà il premio Nobel e durante le cerimonie a Stoccolma terrà due memorabili discorsi, La solitudine dell'America Latina, un atto d'amore e di speranza nei confronti della sua terra, e Brindisi per la poesia, un elogio alla magia della poesia, "energia segreta della vita quotidiana". I due interventi ben esemplificano lo stile e i temi dei discorsi, delle dissertazioni e delle conferenze raccolte in questo libro, che per la prima volta riunisce tutto ciò che García Márquez ha scritto per essere letto a viva voce di fronte a un pubblico. Le occasioni sono le più svariate e coprono l'intero arco della sua vita, a partire dal 1944, quando, diciassette anni, tenne un discorso di commiato per i compagni di liceo che si diplomavano, fino al 2007, con l'intervento pronunciato di fronte alle Accademie della Lingua e ai re di Spagna in occasione dei suoi ottant'anni.
Accanto alle tante testimonianze di vita, amicizie e passioni, emergono le più profonde convinzioni di García Márquez su questioni come la difesa dell'ambiente ( Un'alleanza ecologica dell'America latina ), la politica ( Un'altra patria diversa ), la cultura ( Parole per un nuovo millennio ), l'educazione ( L'America latina esiste ), la minaccia nucleare ( Il cataclisma di Damocle ). Sessantatré anni di incontri, ripercorsi in prima persona dall'autore, che li ha selezionati, e che ha ammesso infine: "Ciò che scopro di me stesso leggendo questi discorsi è come sono cambiato e come mi sono via via evoluto come scrittore".

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Informazioni

Giornalismo: il miglior mestiere del mondo

Los Angeles, 7 ottobre 1996

LII Assemblea della Società interamericana della Stampa (SIP), con sede a Miami, Florida.
Discorso inaugurale pronunciato da Gabriel García Márquez, in qualità di presidente della Fondazione per un nuovo giornalismo iberoamericano.
A una università colombiana è stato chiesto quali siano le prove attitudinali per verificare la vocazione di coloro che vogliono studiare giornalismo, e la risposta è stata perentoria: «I giornalisti non sono artisti». Queste riflessioni, al contrario, si basano proprio sulla certezza che il giornalismo scritto sia un genere letterario. Il guaio è che gli studenti e molti professori non lo sanno, oppure non lo credono. Forse è questa la ragione per cui sono tanto imprecise le motivazioni fornite dalla maggior parte degli studenti per spiegare la loro decisione di studiare giornalismo. Uno ha detto: «Ho scelto Scienze della comunicazione perché sentivo che i media nascondevano più di ciò che mostravano». E un altro: «Perché è la strada migliore per la politica». Soltanto uno ha attribuito la propria preferenza al fatto che la sua passione per informare superava il suo interesse a essere informato.
Una cinquantina di anni fa, quando la stampa colombiana era all’avanguardia in America latina, non c’erano scuole di giornalismo. Il mestiere si imparava nelle redazioni, nelle tipografie, nel bar di fronte, nelle baldorie del venerdì. Perché i giornalisti stavano sempre insieme, facevano vita comune ed erano tanto fanatici del mestiere che non parlavano di nient’altro. Il lavoro implicava un’amicizia di gruppo che lasciava perfino pochi margini per la vita privata. Coloro che non imparavano in quei corsi ambulanti e appassionati di ventiquattr’ore quotidiane, o quelli che si annoiavano a furia di parlare della stessa cosa, volevano essere giornalisti o credevano di esserlo, ma in realtà non lo erano.
Gli unici mezzi di informazione erano i giornali e la radio, la quale impiegò del tempo a mettersi alle calcagna della stampa scritta, ma quando lo fece fu con una personalità propria, schiacciante e un po’ sventata, tanto che in poco tempo s’impossessò del pubblico dei quotidiani. La televisione si annunciava già come un congegno magico che stava per arrivare e non arrivava, e il cui impero attuale era difficile da immaginare. Le telefonate in teleselezione, quando si riuscivano a ottenere, avvenivano soltanto tramite centralino. Prima che fossero inventati la telescrivente e il telex, gli unici contatti con il resto del paese e con l’estero erano le poste e il telegrafo. Che, in verità, arrivavano sempre.
Un operatore radiofonico con vocazione al martirio catturava al volo le notizie dal mondo tra fischi siderali, e un redattore erudito le elaborava, complete di dettagli e di antecedenti, come si ricostruisce lo scheletro di un dinosauro a partire da una vertebra. Soltanto l’interpretazione era vietata, perché era territorio sacro del direttore, i cui editoriali si presumevano scritti da lui, anche se non lo erano, e quasi sempre con calligrafie celebri per la loro illeggibilità. Storici direttori, come don Luis Cano, de «El Espectador», o opinionisti molto letti, come Enrique Santos Montejo (Calibano), a «El Tiempo», avevano linotipisti personali per decifrarle. Il settore più delicato e di grande prestigio era la pagina dei commenti, in tempi in cui la politica era il centro nevralgico della professione e la sua maggiore area d’influenza.

Il giornalismo s’impara esercitandolo

Il giornalismo si divideva in tre grandi settori: notizie, cronache e reportage, editoriali e commenti. L’intervista non era un genere molto usuale, né aveva vita propria. Si utilizzava piuttosto come materia prima per le cronache e i reportage. Tant’è vero che in Colombia si dice ancora reportage invece di intervista. L’incarico peggiore era quello di «trombettiere», che aveva allo stesso tempo connotazioni da apprendista e da tuttofare. Da lì bisognava salire lungo le scale del buon servizio e dei lavori forzati di molti anni fino a raggiungere il ponte di comando. Il tempo e il mestiere stesso hanno dimostrato che il sistema nervoso del giornalismo circola in realtà in senso contrario.
L’ingresso nella corporazione non prevedeva nessuna condizione che non fosse il desiderio di essere giornalista, ma perfino i figli dei proprietari di giornali di famiglia – che erano la maggioranza – dovevano dimostrare le loro attitudini nella pratica. Una formula diceva tutto: «Il giornalismo s’impara esercitandolo». Ai giornali arrivavano studenti che avevano fallito in altre materie o in cerca di lavoro per portare a compimento gli studi, o professionisti di qualunque cosa che avevano scoperto in ritardo la loro vera vocazione. Bisognava avere uno spirito ben temprato, perché i neoarrivati passavano attraverso riti d’iniziazione simili a quelli della marina militare: scherzi crudeli, tranelli per dimostrare la malizia, riscrittura obbligata di uno stesso testo nelle agonie della chiusura: la creatività gloriosa della burla, che i colombiani chiamano mamadera de gallo. Era una fabbrica che formava e informava senza equivoci e generava opinioni in un’atmosfera di partecipazione che manteneva il morale al giusto livello. L’esperienza aveva dimostrato che tutto era facile da imparare nella pratica per chi possedesse l’istinto, la sensibilità e la resistenza da giornalista. L’esercizio stesso del mestiere imponeva la necessità di formarsi una base culturale, e lo stesso ambiente di lavoro si occupava di alimentarla. La lettura era un vizio professionale. Di solito gli autodidatti sono avidi e rapidi, e quelli di quei tempi lo furono in eccesso per mettere sugli altari il miglior mestiere del mondo, come loro stessi lo definivano. Alberto Lleras Camargo, che fu giornalista sempre e due volte presidente della Repubblica, non era nemmeno diplomato.
Da allora, qualcosa è cambiato. In Colombia se ne vanno a spasso circa ventisettemila tesserini da giornalista, che però in massima parte non appartengono a professionisti in attività, ma servono come salvacondotto per ottenere favori dalle istituzioni, o per non fare le code, o per entrare gratis negli stadi o per altri usi domenicali. Eppure la grande maggioranza dei giornalisti, e fra loro alcuni dei più notevoli, non possiede né vuole né necessita il tesserino. Questi documenti sono nati nello stesso periodo in cui sono sorte le prime facoltà di Scienze della comunicazione, proprio per reazione nei confronti del fatto compiuto che il giornalismo era privo di sostegno accademico. La maggioranza dei professionisti non aveva alcun diploma, o lo aveva di qualunque mestiere, tranne di quello che svolgeva.
Allievi e professori, giornalisti, dirigenti e amministratori intervistati per queste riflessioni fanno intravedere che il ruolo dell’accademia è scoraggiante. «Si nota apatia nei confronti del pensiero teorico e della formulazione concettuale» ha detto un gruppo di studenti che anticipano la loro tesi di laurea. «I docenti sono in parte responsabili di questa situazione, per l’imposizione di testi obbligatori, per la frammentazione dei libri con l’abuso di fotocopie di capitoli e perché non forniscono alcun apporto personale.» E hanno fortunatamente concluso con più ironia che amarezza: «Siamo i professionisti della fotocopia». Le stesse università riconoscono evidenti carenze nella formazione accademica, soprattutto nelle scienze umane. Gli studenti arrivano dal liceo senza saper scrivere, hanno gravi problemi di grammatica e di ortografia e difficoltà nella comprensione riflessiva dei testi. Molti escono dall’università così come vi sono entrati. «Sono prigionieri della faciloneria e dell’irriflessività» ha detto un professore. «Quando proponiamo loro di rivedere e reimpostare un articolo, si rifiutano di tornarci sopra.» Si pensa che l’unico interesse degli allievi sia la professione come fine in sé, svincolata dalla realtà e dai suoi problemi vitali, e che l’ansia di protagonismo predomini sulla necessità di indagine e di servizio. «Uno status alto è per loro il principale obbiettivo della vita professionale» conclude un insegnante universitario. «A loro non interessa molto essere se stessi, arricchirsi spiritualmente con la pratica professionale, ma solo laurearsi per cambiare posizione sociale.»
La maggior parte degli allievi intervistati si sente defraudata dalla scuola: non trema loro la voce quando incolpano i professori di non avere trasmesso le virtù che adesso pretendono da loro, e soprattutto la curiosità per la vita. Un’eccellente professionista, varie volte premiata, è stata ancora più esplicita: «Prima di tutto, finito il liceo, si dovrebbe avere l’opportunità di esplorare molti ambiti e di sapere che cosa ci interessa in ciascuno di essi. Ma nella realtà non è così: per poter essere promossi, bisogna ripetere molto bene, senza alterarlo, ciò che la scuola ci ha già dato».
C’è chi pensa che la massificazione abbia corrotto l’educazione, che le scuole abbiano dovuto seguire la linea perversa dell’informazione invece che quella della formazione, che i talenti di oggi dipendano da sforzi individuali e dispersi in lotta contro l’accademia. Si pensa anche che siano rari i professori che lavorano enfatizzando le attitudini e la vocazione. «È difficile, perché comunemente la docenza porta a ripetere le ripetizioni» ha replicato un docente. «È preferibile la pura inesperienza alla sedentarietà di un professore che tiene da vent’anni lo stesso corso.» Il risultato è triste: i ragazzi che escono carichi di illusioni dalle accademie, con tutta la vita davanti, diventano giornalisti solo quando hanno l’opportunità di imparare di nuovo tutto nella pratica.
Alcuni si vantano di essere capaci di leggere al rovescio un documento segreto sulla scrivania di un ministro, di registrare dialoghi senza avvertire l’interlocutore, o di utilizzare come notizia una conversazione che ci si era accordati in anticipo di mantenere confidenziale. La cosa più grave è che queste trasgressioni etiche obbediscono a una concezione intrepida della professione, assunta coscientemente e fondata con orgoglio sulla sacralizzazione dello scoop a qualunque costo e con ogni mezzo: la sindrome della soffiata. Non li scuote il concetto fondamentale che il buono scoop non è la notizia che si dà per primi, ma quella che si dà meglio. All’estremo opposto ci sono quelli che considerano il lavoro una poltrona burocratica, mortificati da una tecnologia senza cuore che quasi non li prende in considerazione.

Uno spettro si aggira per il mondo: il registratore

Prima che fosse inventato il registratore, il mestiere si esercitava bene con tre strumenti indispensabili che in realtà erano uno solo: il blocco per gli appunti, un’etica a tutta prova e un paio di orecchie che i cronisti usavano ancora per ascoltare ciò che veniva loro detto. I primi registratori pesavano più delle macchine per scrivere e incidevano su bobine di fil di ferro magnetizzato che si ingarbugliavano come filo per cucire. Passò un po’ di tempo prima che i giornalisti li usassero per aiutare la memoria, e ancora di più prima che alcuni gli affidassero la grave responsabilità di pensare al posto loro.
In realtà, l’utilizzo professionale ed etico del registratore è ancora da inventare. Qualcuno dovrebbe insegnare ai giornalisti che non è un sostituto della memoria, ma un’evoluzione dell’umile blocco per gli appunti che ha prestato un così buon servizio alle origini del mestiere. Il registratore sente ma non ascolta, registra ma non pensa, è fedele ma non ha cuore, e alla fine dei conti la sua versione letterale non sarà altrettanto affidabile di quella di chi fa attenzione alle parole vive dell’interlocutore, le valuta con la sua intelligenza e le giudica con la sua morale. Per la radio, ha l’enorme vantaggio della letteralità e dell’immediatezza, però molti intervistatori non ascoltano le risposte per pensare alla domanda successiva. Per i redattori dei giornali, la trascrizione è la prova del fuoco: confondono il suono delle parole, inciampano nella semantica, naufragano nell’ortografia e muoiono per l’infarto della sintassi. Forse la soluzione è tornare al povero blocchetto per gli appunti in modo che il giornalista faccia l’editing con la sua intelligenza via via che registra mentre ascolta.
Il registratore è il colpevole della magnificazione perversa dell’intervista. La radio e la televisione, per loro stessa natura, l’hanno trasformata nel genere supremo, ma anche la stampa scritta sembra condividere l’idea errata che la voce della verità non sia tanto quella del giornalista quanto quella dell’intervistato. L’intervista è sempre stata un dialogo del giornalista con qualcuno che avesse qualcosa da dire e pensare su un avvenimento. Il reportage è stato la ricostruzione minuziosa e veridica dell’avvenimento, così come’era accaduto nella realtà, in modo che il pubblico lo conoscesse come se fosse stato presente. Sono generi affini e complementari, e non devono per forza escludersi reciprocamente. Tuttavia, il potere informativo e totalizzante del reportage è superato soltanto dalla cellula primaria e magistrale del mestiere, l’unica in grado di dire in un baleno tutto ciò che si sa della notizia: il flash. Perciò un problema attuale nella pratica e nell’insegnamento della professione non è confondere o eliminare i generi storici, ma dare a ciascuno il suo nuovo posto e il suo nuovo valore in ogni differente mezzo di comunicazione. E tenere sempre presente qualcosa che sembra dimenticato, cioè che l’inchiesta non è una specialità della professione, ma è tutto il giornalismo che, per definizione, dev’essere investigativo.
Un progresso importante di questo mezzo secolo è che ora si commenta e si esprime la propria opinione all’interno della notizia e del reportage, mentre si arricchisce l’editoriale con dati informativi. Quando queste licenze non erano ammesse, la notizia era un articolo stringato ed efficace, ereditato dai telegrammi preistorici. Adesso, invece, si è imposto il formato dei lanci delle agenzie internazionali, che facilita abusi difficili da provare. L’uso forsennato di virgolette in dichiarazioni false o vere consente equivoci innocenti o deliberati, manipolazioni maligne e distorsioni velenose che conferiscono alla notizia l’importanza di un’arma mortale. Le citazioni di fonti che meritano pieno credito, di persone generalmente bene informate o di alti funzionari che hanno chiesto di restare anonimi, oppure di osservatori che sanno tutto ma che nessuno vede, coprono ogni tipo di offese impuni, perché l’autore si trincera dietro il suo diritto di non rivelare le fonti. Negli Stati Uniti, del resto, prosperano misfatti come questo: «Persiste la convinzione che il ministro abbia spogliato la vittima dei gioielli, ma la polizia smentisce». Non c’è altro da dire: il danno è fatto. È comunque una consolazione supporre che molte di queste trasgressioni etiche, e altrettante che svergognano il giornalismo di oggi, non avvengano sempre per immoralità, ma anche per mancanza di padronanza professionale.

Lo sfruttamento dell’uomo da parte del modulo

Il problema sembra essere che la professione non è riuscita a evolversi alla stessa velocità dei suoi strumenti, così i giornalisti si sono ritrovati a cercare la strada a tentoni nel labirinto di una tecnologia scagliata senza controllo verso il futuro. Le università hanno probabilmente creduto che i difetti fossero accademici e hanno fondato scuole che, a ragione, non sono più riservate alla stampa scritta, ma coinvolgono tutti i media. Nella generalizzazione, è stato soppiantato con facilità perfino l’umile nome che ha avuto il mestiere fin dalle sue origini nel XV secolo, e ora non si chiama più giornalismo, ma Scienze della comunicazione o Comunicazione sociale. Il che, per i giornalisti empirici di una volta, dev’essere come ritrovarsi sotto la doccia con il papà vestito da astronauta.
Nelle università colombiane ci sono quattordici lauree e due master in Scienze delle comunicazioni. Questo conferma una crescente preoccupazione di grande portata, però dà anche l’impressione di un pantano accademico che soddisfa molte delle necessità attuali dell’insegnamento, ma non le due più importanti: la creatività e la pratica.
I profili professionali e occupazionali offerti agli aspiranti sono idealizzati sulla carta. Gli empiti teorici instillati dai professori si sgonfiano al primo impatto con la realtà, e le pretese della laurea non li mettono in salvo dal disastro. Perché la verità è che dovrebbero uscire dall’università preparati a padroneggiare le nuove tecniche, e invece è il contrario: ne sono trascinati controvoglia e assillati da pressioni estranee ai loro sogni. Sulla loro strada incontrano tanti interessi di ogni tipo che non hanno più né il tempo né la voglia di pensare, e tanto meno di continuare a imparare.
All’interno della logica accademica, alcune università sottomettono gli aspiranti a Ingegneria o a Medicina veterinaria alle stesse prove di selezione riservate a un corso di Comunicazione sociale. Tuttavia, un laureato brillantemente in questa facoltà ha detto senza riserve: «Ho imparato il giornalismo quando ho iniziato a lavorare. È chiaro che l’università mi ha dato l’opportunità di scrivere le prime cartelle, ma la metodologia l’ho imparata nella pratica». È normale, finché non si ammette che l’alimento vitale del giornalismo è la creatività e pertanto richiede una valorizzazione almeno simile a quella degli artisti.
Un altro punto critico è che lo splendore...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Non sono venuto a far discorsi
  4. L’accademia del dovere
  5. Come ho iniziato a scrivere
  6. Per voi
  7. Un’altra patria diversa
  8. La solitudine dell’America latina
  9. Brindisi per la poesia
  10. Parole per un nuovo millennio
  11. Il cataclisma di Damocle
  12. Un’idea indistruttibile
  13. Prefazione per un nuovo millennio
  14. Un’alleanza ecologica dell’America latina
  15. Non sono qui
  16. In onore di Belisario Betancur per i suoi settant’anni
  17. Il mio amico Mutis
  18. L’argentino che si fece amare da tutti
  19. L’America latina esiste
  20. Una natura diversa in un mondo diverso dal nostro
  21. Giornalismo: il miglior mestiere del mondo
  22. Bottiglia in mare per il dio delle parole
  23. Illusioni per il XXI secolo
  24. La patria amata sebbene distante
  25. Uno spirito aperto da riempire con messaggi in castigliano
  26. Nota del curatore
  27. Indice dei nomi
  28. Copyright