Sono 365 detti, uno per ciascun giorno dell’anno, tutti raccolti in un’antologia e dedicati ai Segreti della ricchezza, cioè al rapporto dell’uomo nei confronti dei beni materiali. Il numero così vario di autori fa capire che siamo in presenza di un tema universale e costante che appassiona proprio perché è irrisolto. Infatti tanti appelli contro la follia dell’accumulo, l’idolatria del denaro, sulla crudeltà dell’egoismo non impediscono che si continui ad ammassare ricchezze, a scannarsi per le cose, a tradire ideali e valori per una manciata di soldi.
Oggi vorrei anch’io aggiungere un granello alle tante lezioni già ascoltate attorno a questo argomento: ho citato, infatti, un detto cinese illuminante sul tema, posto proprio in quarta di copertina al volumetto citato. I suoi asserti sono scontati e reiterati, tant’è vero che secoli dopo il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828-1902) ripeterà: «Il denaro può comperare la buccia di molte cose, ma non il seme. Può darvi il cibo ma non l’appetito, la medicina ma non la salute, i conoscenti ma non gli amici, i servitori ma non la fedeltà, giorni di gioia ma non la felicità e la pace». Eppure noi continuiamo a procedere in quell’illusione dorata, incapaci di reagire alla tentazione di quel luccichio, al fascino di quella promessa di benessere… E così ci si avvicina a quella terribile (o gloriosa?) definizione che già il poeta greco Alceo (VII sec. a.C.) aveva codificato in un suo frammento: «Il denaro è l’uomo». Terribile se si riduce il valore dell’uomo a quanto possiede. Gloriosa se si considera come unica ricchezza l’uomo in sé considerato.
A fine anno ricevo sempre una ventina di agende e agendine di ogni genere e qualità (e non tutte di facile uso). Alcune recano in capo o in calce a ogni giorno una citazione. Sfogliando quelle frasi – ahimè spesso banali – mi è capitato sotto gli occhi questo detto che viene attribuito agli indiani Sioux d’America, quelli che hanno popolato i western della nostra adolescenza. L’asprezza della considerazione la rende autentica: la sapienza popolare, infatti, non indulge all’encomio e al vezzeggiativo, ma spesso punta sui vizi per sbeffeggiarli. E bisogna riconoscere che quasi sempre tocca nel segno. Chi non ha sperimentato la delusione di essere stato ingannato da un amico che ti aveva promesso fedeltà e verità?
Ma al tempo stesso anche noi talvolta abbiamo promesso sincerità e schiettezza e poi ci siamo impegolati in doppiezze e falsità. Ostentare lealtà e verità è, purtroppo, un esercizio che deve mettere in sospetto il destinatario. È quella malattia dell’anima che Gesù bollava senza attenuanti, cioè l’ipocrisia, un atteggiamento «diabolico», se è vero che Satana è «il padre della menzogna». E la menzogna è proprio chiamare bene il male e male il bene, come ammonisce Isaia (5,20). Quando, poi, si entra in questo regime dell’inganno sistematico, è difficile strapparne la rete. Goldoni, nella sua commedia intitolata appunto Il bugiardo, osservava giustamente: «Le bugie sono per natura così feconde, che una ne suole partorire cento». E alla fine, l’unico rimedio rimane proprio il cavallo dei Sioux!
Nel lager nazista di Ravensbrück il 31 marzo 1945 veniva eliminata Mat’ Marija, una monaca ortodossa, nata a Riga in Lettonia nel 1891, con un passato di rivoluzionaria, di sposa, di intellettuale. Era stata arrestata perché a Parigi, ove era esule, aveva aiutato all’espatrio vari bambini ebrei. Dal suo diario, intitolato poi Cammino di una monaca, ho estratto questa riflessione particolarmente intensa che delinea «due modi di vivere». C’è innanzitutto la scelta del buon senso, del quieto vivere, dell’avvedutezza vantaggiosa. Certo, ha anch’essa un suo significato, risponde a esigenze concrete, è retta dalla logica, dal calcolo, dai vari dosaggi delle azioni, dal criterio e dalla rispettabilità.
Viene, però, il momento in cui bisogna avere il coraggio del rischio. Si deve abbandonare la terra ferma, ove i piedi sono ben piantati, e ci si deve inoltrare sul mare, fluido e mutevole, non di rado agitato dalla bufera. È, questo, il tempo della generosità assoluta, della fede pura: il pensiero corre a san Pietro che cammina sulle acque verso Cristo e s’impaurisce, scivolando tra le onde. Nella vita autentica non si può e non si deve vivere sempre di calcoli, di interesse personale, di tornaconto. Bisogna ingaggiare anche la sfida del rischio, della donazione assoluta, del mettere a repentaglio il proprio benessere per salvare un altro. È la strana legge evangelica del perdere per trovare.
Mi è stata mostrata da un libraio antiquario una splendida edizione delle commedie di Molière: è una preziosa pubblicazione del 1682, la prima ad avere, oltre al testo delle varie opere, anche una serie di deliziose incisioni che ne raffigurano le scene principali. Sfoglio i vari volumi e mi cade sotto gli occhi, nella commedia Le donne saccenti (1672), la frase che ho conservato per la nostra riflessione (in francese: «… un sot savant est plus sot qu’un sot ignorant»). Sì, l’arroganza dello sciocco che s’imbelletta delle cose che ha imparato è terrificante. Non c’è rimedio per lui, perché non si riuscirà mai a seminare in lui il pudore o il dubbio di essere in realtà spiritualmente povero, nonostante il panneggio di un’erudizione appiccicaticcia.
Sta di fatto che la stoltezza è una qualità (si fa per dire) ben diffusa. Lo scrittore Riccardo Bacchelli (1891-1985) ironizzava: «Gli stupidi impressionano non foss’altro che per il numero». Il Petrarca già riconosceva che «infinita è la schiera degli sciocchi». Fatta questa indubitabile rilevazione, bisogna però essere sempre sul «chi va là», perché qualche stilla di stupidità inzacchera l’anima e la mente di tutti. Anzi, quando si comincia a essere troppo sicuri di essere sapienti, a coltivare le proprie idee come oracoli intangibili, a disprezzare il mondo che ci circonda, deve scattare un campanello d’allarme: forse stiamo iscrivendoci proprio a quel club molto diffuso di «ignoranti colti» che Molière sbeffeggiava, preferendo il più spontaneo sciocco normale.
Ho letto molti romanzi di Saul Bellow, scrittore americano morto nel 2005, figlio di ebrei russi emigrati in America. Non mi ero mai accostato, invece, alle Avventure di Augie March (1953) che sto leggendo. È la storia di una sorta di eroe picaresco che percorre Stati Uniti, Messico ed Europa alla ricerca della verità, con una tensione ora ingenua ora drammatica. Mi impressiona la frase che sopra ho proposto. Essa è una parabola icastica dell’atteggiamento interiore di molti, giunti al fine settimana. Quando lavori, aspetti il sabato e la domenica e con l’impegno nelle cose riesci a tirare avanti. Ma, giunto davanti alla festa, ecco il vuoto, ecco appunto l’«orrenda domenica».
Ti affidi, allora, ancora al fare, al muoverti frenetico, alle cose, sempre nel terrore di essere lì, davanti a una parete, solo con te stesso, con quei pensieri che vuoi evitare. Non è neppure la malinconia del tempo che fugge o quella nobile amarezza che si scopriva nella Sera del dì di festa di Leopardi. È proprio la paura di un vuoto che progressivamente si è aperto dentro l’uomo contemporaneo e che affiora col suo alito freddo ogni volta che cessano le distrazioni e si dissolve quella specie di narcosi che è il fare o il possedere. C’è, dunque, un deficit di spiritualità, c’è una povertà di spirito che è il contrario di quella evangelica, fatta di apertura all’amore, alla vita, al mistero, al divino. È per questo che la domenica diventa una «nemica»: perché ti costringe a essere veramente persona e non cosa o macchina.
Quando non ho sotto mano un testo da proporre per una riflessione morale ricorro ad alcuni autori fissi che hanno la capacità di essere incisivi senza essere banali. Tra costoro c’è il filosofo inglese Francesco Bacone (1561-1626), Francis Bacon nell’originale. I suoi Saggi sono spesso costellati da aforismi e da ritratti della vita umana pubblica e privata, immersi in un cristianesimo forse un po’ «laico» ma dalle radici solide. Così, sfogliando quelle pagine, ho trovato un’osservazione che mi ha colpito anche per la sua attualità. Chi scava in profondità nella realtà attraverso il pensiero scopre orizzonti sempre nuovi che lo conducono a essere molto più esitante nell’attribuire alla ragione risposte definitive.
È solo chi si ferma sulla superficie che è convinto di avere in mano tutto, di non avere bisogno di nessuna esitazione, di non sospettare nessuna trascendenza e, così, di poter formulare giudizi ultimativi, spazzando via ogni Dio e ogni mistero. Il grande filosofo è sempre aperto a nuovi percorsi e a incontri insospettati. Vorrei, allora, lasciare la parola a un vero genio, Galileo, che nella sua opera Il saggiatore, scritto rigorosamente scientifico, osservava: «Infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai sono quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; uno solo, Dio, è quello che la sa tutta».
Calderaio divenuto predicatore libero e per questo rinchiuso in carcere dalle autorità per dodici anni, John Bunyan (1628-88) è una delle figure più originali e spirituali del protestantesimo inglese. In passato ho avuto occasione di leggere – non senza fatica – nell’originale il suo capolavoro, Il viaggio del pellegrino, una vasta narrazione allegorica composta fra il 1678 e il 1684, della quale ho voluto proporre ora qualche riga presente nel prologo. Il pellegrinaggio in questione è quello dell’anima che dalla Città della Perdizione, capitale ideale di questo mondo, procede verso la Città Celeste, la Gerusalemme della verità, della giustizia e della pace.
Ma ciò che vorrei suggerire è tutto in quell’appello a saper scavare e scovare nella cultura, nella realtà e nella società le gemme di bene e di verità che vi sono celate. Certo, ci sono scorie, sassi, rifiuti; ma è importante cercare con pazienza. C’è, dunque, un ottimismo da conservare: anche se nella mela c’è il torsolo da buttare, la polpa è saporosa e nutriente. Bisogna, allora, mettere in pratica il detto paolino: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1 Tessalonicesi 5,21). Un aforisma orientale invita a scuotere il discorso degli uomini per farne cadere le parole, simili a foglie, per scoprire i frutti, nella speranza che l’albero non sia solo fitto di fogliame.
Sono solo alcuni versi del Diwan poetico e mistico di al-Hallaj, una delle figure ...