Da lontano, dall’alto, pare un delirio del paesaggio.
Un’orda scura, lineare, avanza senza sbavature nella campagna verde tra la Lucania e le Puglie, con il fiume Sele alle spalle e i monti dell’Appennino sullo sfondo.
È una mattina con il cielo limpido e un sole tirannico promette di domare le forze dei soldati entro dieci giri di clessidra.
La compattezza dello schieramento romano è impressionante.
I sessantamila soldati e ausiliari del generale Crasso sembrano, in lontananza, un grosso pugno nero pronto a sferrare il suo colpo letale contro i ribelli.
L’andatura è accompagnata dal suono dei corni e cadenzata dai passi dei soldati. Il rimbombo della marcia echeggia in una vallata che presto avrà confini tracciati dal massacro.
I legionari hanno elmi di bronzo con la visiera orizzontale e protezioni per le guance e il collo. Indossano loriche di cuoio con placche di metallo su petto e addome, sopra tuniche di lino imbevute di colorante rosso. Hanno i pila dalla punta di ferro dolce da scagliare prima dell’urto con il fronte nemico. Reggono uno scudo rettangolare perfettamente allineato a quello dei due compagni accanto. Ai piedi hanno calighe con la suola chiodata per non scivolare sul sangue, per poter marciare su terreni accidentati e per far sentire al nemico il frastuono dei passi a miglia di distanza. I cingula di cuoio, decorati con borchie di bronzo e rifiniti con puntali dorati, sono allacciati alla vita per sorreggere il pugnale e la spada.
Ai margini dello schieramento si scorgono gli ausiliari: sono gli arcieri e i frombolieri, con le loriche di pelle e le tuniche bianche, già pronti a scagliare frecce e pietre prima dell’impatto con l’avversario per romperne lo schieramento.
Ecco i prefetti con il vistoso elmo piumato e la daga. Ecco gli aquiliferi, i vexillarii e i signiferi, con le loriche squamate, lo scudo tondo e l’elmo coperto di pelle di lupo o di orso. Sono loro che innalzano gli emblemi della sacralità dell’esercito. Sostengono le aquile d’oro donate dai senatori ai generali romani, portano i vessilli delle legioni, i drappi rossi con ricami d’oro fissati a una traversa su un’asta di legno, portano infine le insegne delle coorti, dove sono apposte le ricompense al valore.
Ecco i cavalieri, esterni alle colonne, i centurioni con le loriche forgiate in ferro e bronzo e gli optiones con i bastoni per impartire gli ordini e ammonire i soldati indisciplinati.
Nel mucchio, gli occhi feroci di Floro, il marziale portamento di Crasso, il contegno di Cesare.
Roma è pronta.
Da lontano, dall’alto, sull’altro fronte, si contrappongono i sessantamila ribelli.
Hanno lasciato il campo alle loro spalle, insieme alle donne e ai piccoli. «Scappate via!» hanno implorato loro un’ultima volta mariti, fratelli e padri.
Altri fuggiaschi nei dintorni si sono uniti a Spartaco negli ultimi giorni. Le schiere oggi sono sette: quella di Spartaco, con l’equipaggiamento dei legionari e la fascia rossa sul braccio, chiude lo schieramento. Gli uomini di Decio, con gli schinieri e i nuovi elmi piumati, lo precedono. La prima linea è occupata dal gruppo che indossa le tuniche bianche con scritto “Morituri”.
Spartaco ha tenuto il suo ultimo discorso all’alba. Ha evitato di nominare Tigrane I, Mitridate e le Alpi, argomenti che avrebbero causato tormento.
Ha pronunciato spesso la parola “libertà”. L’ha inserita come ideale di quella guerra che si protrae ormai da oltre due anni e l’ha brandita come un’arma. Ha ricordato le battaglie valorose e tutte le vittorie. “Imprese” le ha definite. Ha enfatizzato il coraggio dei suoi compagni, ha ricordato i caduti. Ha parlato di sogno.
«Liberi, sì, lo siamo davvero!»
Ha pronunciato la parola “morte”. L’ha accostata a “sacrificio” e “dignità”, e non li ha illusi: accanto a “morte” ha usato spesso il termine “oggi”.
Ha cercato comunque di confortarli: «Questa fine non deve farci paura!».
Spartaco ha sgozzato il suo cavallo. La bestia si è accasciata al suolo con la velocità dello stupore. “È un sacrificio al suo dio” hanno pensato molti. Ha girato le spalle al gruppo e ha atteso che l’ultima goccia di sangue della sua cavalcatura irrorasse il suolo.
Ha abbracciato chi ha potuto, ha chiamato l’adunata. Ha disposto le schiere formando righe frontali da centocinquanta uomini l’una; le file realizzate formano un cordone lungo quanto il Circo Massimo.
I due schieramenti sono uno di fronte all’altro.
Gli elmi e gli scudi lucidi dei legionari lanciano contro i nemici una luce accecante, ma nessuno dei ribelli volta lo sguardo o chiude gli occhi.
C’è ancora un momento per prepararsi e per inviare l’ultimo pensiero ai propri cari, prima dell’assalto.
Spartaco e Crasso chiudono i rispettivi schieramenti: rappresentano l’inizio e la fine. Si troveranno, forse, solo in fondo alla battaglia, con la progressiva decurtazione dei combattenti che moriranno lottando.
Crasso ordina di alzare le insegne. Non dovranno per nessun motivo venire orientate in modo da indicare il ripiegamento o l’arretramento. È un altro monito: questa guerra si chiude qui, questa guerra si chiude oggi.
Spartaco lancia il suo urlo di battaglia agitando il braccio: «Avanti!».
Il cielo si fa nero all’improvviso: gli arcieri di entrambi gli schieramenti lanciano centinaia di frecce che impattano su scudi e loriche o che vanno a segno facendosi strada nella carne. Anche i frombolieri sono già attivi e scagliano pietre che ammaccano corazze, sfondano elmi e spezzano ossa.
I legionari scagliano i pila e alzano gli scudi tutti nello stesso momento: la loro testuggine è senza falle.
Si levano le prime urla di dolore e di incitamento. I primi a cadere, senza la precisione di un’adeguata protezione, sono soprattutto schiavi.
Chi ha già lanciato si sposta verso l’esterno o le retrovie, mentre i fronti avanzano e sono ormai a pochi passi dal contatto. Le mascelle dei soldati si irrigidiscono, i muscoli si tendono allo spasimo, il sudore cola dalla fronte. Il calpestio sul terreno è contratto, pesantissimo.
L’impatto è terrificante, il frastuono dei metalli assordante.
I combattenti cercano un varco tra gli scudi nemici per affondare le lance, alcuni cavalli s’imbizzarriscono e gli uomini che li cavalcavano crollano nella mischia. Qualche soldato sviene, qualcuno subisce un attacco di cuore. Gli scudi sono pieni di frecce e molti preferiscono rimanere senza difesa per evitare di trascinarsi un peso supplementare che ne condizionerebbe i movimenti, rendendoli meno agili.
Uno contro uno, uno contro due, in mischia, nel caos, ad ammazzarsi.
Oltre centomila uomini stanno combattendo, per l’onore di Roma o per la libertà. È ancora la brama di vivere a unire le opposte fazioni, ma solo un esercito potrà alzare il proprio vessillo, al termine.
L’esaltazione è portentosa. I legionari hanno dedicato un’intera esistenza ad addestrarsi per questo. I ribelli, soprattutto i gladiatori, si sentono dentro la più grande arena della storia.
Spartaco abbatte un centurione e forse pensa: “Sarà storia, questa, per il mio sogno?”.
Crasso governa il proprio cavallo e forse pensa: “Sarà storia, questa, per la mia gloria?”. Il sangue, a Roma, ha il suo peso, ma quello degli schiavi è molto più leggero di quello dei nemici che vivono nei domini più lontani dell’Urbe.
Cadono decine di uomini nello stesso istante; la prima fila dei ribelli è già scomparsa. Le tuniche bianche “Morituri” sono drappi squarciati sul terreno, stuoie per le calighe dei legionari che avanzano.
Si fa avanti la schiera dei ribelli con gli scudi rettangolari, identici a quelli dei legionari, che si mescola alle altre milizie di Spartaco.
È il tumulto della battaglia a campo aperto.
I ribelli, malgrado le decine di prove effettuate durante gli addestramenti, non hanno l’esperienza e le capacità adatte per poter effettuare i cambi di fila con profitto. Né sono in grado di ripiegare e sostituire il fronte in tempi brevi.
L’ordine di Roma fa la differenza.
L’ordine di Roma è perentorio: sterminarli tutti!
Floro e Decio scalpitano. Sono ancora molto distanti tra loro. Hanno percezioni simili: i suoni sono ovattati ed entrambi non vedono nulla, se non una distesa rossa intorno. E si chiedono: “L’azzurro del cielo, lì in mezzo, dov’è? Il verde delle campagne dov’è? Esistono il rosa e il bruno di una pelle ancora intatta?”.
Scudi contro scudi, metallo sul metallo, corpo a corpo. Orge di fendenti e corpi come scudi aggiuntivi, devastati. Arcobaleni di frecce, grandinate di pietre.
Gli schiavi continuano a soccombere: il loro numero è già di molto inferiore a quello dei legionari.
Rigore contro improvvisazione.
Le lance infilzano corpi e corazze, tra grida di agonia e preghiere inutili. Nel disordine, pare che siano le ombre a muovere le armi e quelle dei ribelli, malferme, s’infilano nelle carni dei loro stessi compagni. Gli uomini di Spartaco non hanno più una formazione compatta. I morti si ammassano, formano delle muraglie.
I ritmi sono serratissimi: non si respira più!
I centurioni impartiscono gli ordini per lo scambio delle prime linee e urlano: «Attaccare! Infierire!».
Cascate di morte, polvere e sangue.
Molti uomini sono già esausti, alcuni vengono calpestati. I ribelli sono meno armati, meno organizzati, meno protetti. Quelli che ormai si sentono persi s’improvvisano scudi umani e vanno a pre...