Conspirata
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Conspirata

  1. 444 pagine
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Informazioni sul libro

Roma, 63 a.C. Mancano appena due giorni all'investitura di Marco Tullio Cicerone a console di Roma, quando nelle acque del Tevere viene ritrovato il corpo di un ragazzino orrendamente mutilato. Tutto lascia credere che si sia trattato di un sacrificio umano. Ma davvero dietro l'orrendo delitto ci sono i Galli, come sospetta qualcuno, oppure il responsabile è da cercare dentro le stanze del potere romano?
Una cosa è certa: questo omicidio è un cattivo presagio alla vigilia del consolato e sembra gettare una maledizione sulla Repubblica.
Poche ore dopo il ritrovamento del cadavere, Cicerone è chiamato a difendere un vecchio senatore accusato di alto tradimento, commesso più di trent'anni prima: una prova di lealtà verso la vecchia aristocrazia che potrebbe attirargli molti nemici. L'accusa è chiaramente pretestuosa, e nasconde le reali intenzioni di Giulio Cesare, l'eterno rivale di Cicerone, dal quale lo dividono visione etica e politica.
Ma in una città che sta per conquistare un immenso impero sono in molti a contendersi il potere. Personaggi del calibro di Pompeo, Crasso, Catone, Catilina sono pronti a tutto per difendere i rispettivi interessi e ottenere privilegi. Alleanze e tradimenti, crudeltà e sotterfugi sono all'ordine del giorno, e la grave crisi economica rende ancora più incombente il rischio di una guerra civile.
In questo secondo romanzo della trilogia sull'Antica Roma è ancora una volta Tirone, il fedele segretario di Cicerone, a rivelarci le sue abili manovre per sventare le cospirazioni tramate contro la Repubblica e la sua stessa persona. A mano a mano che l'autorità di Cesare cresce, infatti, egli dovrà affrontare gli inevitabili compromessi, e arriverà a porsi una domanda angosciosa: è giusto usare metodi illegali per salvare la Repubblica?
Dopo il sensazionale favore di pubblico incontrato da Imperium, Robert Harris torna a narrarci gli inquietanti retroscena della fase più critica nella storia della Repubblica romana, nella quale si consumano le trame e gli inganni del potere comuni a ogni epoca.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852015199

Prima parte

CONSOLE
(63 a.C.)

O condicionem miseram non modo administrandae verum etiam conservandae rei publicae!
(“Che dovere ingrato non solo governare la Repubblica, ma anche preservarla!”)
CICERONE, discorso, 9 novembre 63 a.C.

1

Due giorni prima dell’investitura di Marco Tullio Cicerone a console di Roma, il corpo di un ragazzino venne tratto dalle acque del Tevere vicino al punto in cui era ormeggiata la flotta da guerra repubblicana.
In altre circostanze una simile scoperta, per quanto tragica, non avrebbe attirato l’attenzione di un console designato. Ma c’era qualcosa di talmente grottesco in quel cadavere, e di così minaccioso per la pace cittadina, che il magistrato responsabile di mantenere l’ordine nell’Urbe, Caio Ottavio, fece giungere a Cicerone la richiesta di presentarsi sul luogo immediatamente.
Sulle prime Cicerone si mostrò riluttante ad andare, adducendo a pretesto l’eccessivo carico di lavoro. In qualità di candidato consolare che aveva ricevuto più voti spettava a lui, anziché al suo collega, presiedere la seduta d’apertura del Senato, ed era impegnato nella stesura del discorso inaugurale. Ma io sapevo che c’era dell’altro. Era particolarmente impressionato dalla morte. Anche l’uccisione di animali durante i giochi gli provocava turbamento, e questa debolezza – perché, ahimè, in politica un cuore tenero è sempre percepito come un segno di debolezza – cominciava a essere notata. La sua prima reazione fu quella di mandare me al suo posto.
«Certo che andrò» risposi prudentemente. «Ma...» Lasciai la frase in sospeso.
«Ma?» m’incalzò bruscamente. «Ma cosa? Credi che farà una brutta impressione?»
Rimasi zitto e continuai a trascrivere il suo discorso. Il silenzio si prolungava.
«E sia» grugnì infine, alzandosi in piedi. «Ottavio è un uomo ottuso, ma è abbastanza affidabile. Non mi avrebbe convocato se non fosse stato importante. In ogni caso ho bisogno di schiarirmi le idee.»
Erano gli ultimi giorni di dicembre e sotto un cielo plumbeo soffiava un vento forte e tagliente tanto da levare il respiro. Fuori in strada si erano raccolti una decina di questuanti speranzosi di poter parlare con il console designato; non appena Cicerone comparve sulla porta, attraversarono di corsa la strada per raggiungerlo.
«Non ora» dissi, spingendoli indietro. «Non oggi.»
Cicerone si gettò un’estremità del mantello sulla spalla abbassando il mento sul petto, e ci avviammo con passo spedito giù per la collina.
Dovevamo avere percorso circa un miglio, suppongo, tagliando il Foro in diagonale e lasciando la città dalla porta Flumentana. Le acque del Tevere scorrevano gonfie e veloci, agitate da mulinelli marrone giallognolo e da correnti turbinose. Più avanti, di fronte all’isola Tiberina, in mezzo alle banchine e agli argani dei Navalia, notammo un grande assembramento. (A proposito, potete farvi un’idea di quanto tempo sia trascorso da questi eventi, oltre mezzo secolo, se vi dico che l’isola non era ancora collegata dai suoi ponti alle sponde del fiume.) Al nostro avvicinarsi, numerosi tra i presenti riconobbero Cicerone e si diffuse un’ondata di curiosità mentre la folla si apriva per lasciarci passare. Un cordone di legionari acquartierati nel porto proteggeva il nostro transito. Ottavio ci stava aspettando.
«Mi scuso per averti disturbato» disse, stringendo la mano del mio padrone. «Immagino quanto devi essere occupato, nell’imminenza dell’investitura.»
«Mio caro Ottavio, è sempre un piacere vederti. Conosci il mio segretario, Tirone?»
Ottavio mi lanciò un’occhiata distratta. Sebbene oggi sia ricordato soltanto come il padre di Augusto, a quel tempo era un edile della plebe con grandi prospettive. Probabilmente sarebbe diventato lui stesso console se non fosse morto in modo prematuro, a causa di una febbre, circa quattro anni dopo quell’incontro. Ci condusse al riparo del vento all’interno di una delle grandi rimesse per imbarcazioni militari dove lo scheletro di una liburna, messo a nudo per essere riparato, era posato su enormi rulli lignei. Di fianco a esso, a terra, giaceva un oggetto avvolto in una tela da vele. Senza ulteriori cerimonie, Ottavio spostò il tessuto per mostrarci il corpo nudo di un ragazzino.
Ricordo ancora: doveva avere circa dodici anni. Il suo viso era bello e mostrava un’espressione serena, piuttosto femmineo nella sua delicatezza, con tracce di pittura dorata sul naso e sulle guance, e con un nastro rosso legato fra i riccioli castani umidi. Gli avevano tagliato la gola. Il suo corpo era stato aperto giù fino allo scroto e svuotato dei suoi organi. Non c’erano tracce di sangue, soltanto quella cavità scura, allungata, come quella di un pesce sventrato, riempitasi di fango del fiume. In quale maniera sia riuscito Cicerone a fissare quell’immagine e a conservare la sua compostezza non saprei dirlo, ma deglutì con forza e non distolse lo sguardo. Alla fine con voce rauca disse: «Questo è un oltraggio».
«E non è tutto» aggiunse Ottavio. Si accovacciò, prese la testa del giovane tra le mani e la voltò verso sinistra. Mentre il capo si muoveva, la ferita profonda nel collo si apriva e chiudeva in modo osceno, come una seconda bocca che cercasse di sussurrarci un avvertimento. Ottavio pareva del tutto indifferente a quella vista, ma allora era un militare, senza dubbio avvezzo a simili spettacoli. Tirò indietro i capelli del ragazzo per scoprire una profonda rientranza appena sopra l’orecchio destro e vi premette dentro il pollice. «Vedi? È come se fosse stato colpito da dietro. Con un martello, direi.»
«La faccia dipinta. Un nastro fra i capelli. Colpito da dietro con un martello» ripeté Cicerone, rallentando le parole per seguire la strada che la sua logica gli stava indicando. «La gola tagliata. E infine... il corpo sventrato.»
«Esattamente» disse Ottavio. «Sembra che i suoi assassini abbiano voluto ispezionare le sue viscere. Si è trattato di un sacrificio... un sacrificio umano.»
A quelle parole, in quel luogo gelido e buio, avvertii un brivido lungo la schiena e capii di essere in presenza del Male: il Male come forza palpabile, potente come il fulmine.
«Che tu sappia, in città esistono seguaci di qualche culto che potrebbero aver perpetrato un simile abominio?» domandò Cicerone.
«Lo escludo. Ci sono i Galli, naturalmente: si dice che facciano di queste cose. Ma al momento qui in città sono pochi, e quei pochi si comportano bene.»
«E la vittima chi sarebbe? Qualcuno ne ha denunciato la scomparsa?»
«C’è un’altra ragione per cui volevo che venissi e guardassi con i tuoi occhi.» Ottavio rovesciò il corpo del ragazzo sul ventre. «Appena sopra il fondoschiena c’è un piccolo tatuaggio di proprietà, lo vedi? Quelli che hanno scaricato il cadavere non devono averlo notato. C.Ant.M.f.C.n. “Caio Antonio, figlio di Marco, nipote di Caio.” Una famiglia che tu ben conosci! Era uno schiavo del tuo collega consolare, Antonio Ibrida.» Si alzò e si pulì le mani nella tela da vele, poi con noncuranza la distese di nuovo sopra il cadavere per coprirlo. «Che cosa pensi di fare?»
Cicerone fissava quelle patetiche spoglie sul pavimento come ipnotizzato. «Chi altri ne è a conoscenza?»
«Nessuno.»
«Ibrida?»
«Nemmeno.»
«E tutta quella gente fuori?»
«Gira voce che ci sia stato una sorta di omicidio rituale. Tu sai meglio di chiunque altro come reagisce la massa. Dicono che è un cattivo presagio alla vigilia del tuo consolato.»
«Forse hanno ragione.»
«È stato un inverno difficile. Sarebbe bene tranquillizzarli. Pensavo che potremmo rivolgerci al collegio sacerdotale e chiedere che svolgano qualche cerimonia di purificazione...»
«No, no» rispose immediatamente Cicerone, distogliendo lo sguardo dal corpo. «Niente sacerdoti. I sacerdoti non farebbero che peggiorare la situazione.»
«Allora cosa dovremmo fare?»
«Non parlarne con nessuno. Brucia i resti il prima possibile. Non permettere a chicchessia di vederli. Proibisci a chiunque li abbia già visti di parlarne, pena la prigione, o peggio.»
«E la folla?»
«Tu occupati del cadavere. Io penserò alla folla.»
Ottavio si strinse nelle spalle. «Come vuoi.» Sembrava indifferente. Non gli rimaneva che un giorno di servizio: potevo immaginare che fosse felice di liberarsi del problema.
Cicerone si avviò verso la porta e fece alcuni respiri profondi che restituirono un po’ di colore alle sue guance. Poi lo vidi, come mi capitava spesso, raddrizzare le spalle e assumere un’espressione sicura. Uscì e si issò sopra una catasta di legna per arringare la folla.
«Popolo di Roma, mi sono assicurato personalmente che le voci nefaste che corrono per la città sono false!» Doveva urlare rabbiosamente in quel vento pungente per farsi sentire. «Tornate a casa dalle vostre famiglie e godetevi quel che rimane della festa!»
«Ma ho visto il corpo!» gridò un uomo. «Era un sacrificio umano per invocare una maledizione sulla Repubblica!»
Il grido venne raccolto dagli altri. «La città è maledetta!» «Il tuo consolato è maledetto!» «Andate a chiamare i sacerdoti!»
Cicerone sollevò le mani. «Sì, il corpo era in condizioni terribili. Ma cosa vi aspettavate? Il ragazzo è rimasto in acqua per molto tempo. I pesci sono affamati. Si procurano il cibo come possono. Volete davvero portarmi un sacerdote? Per fare cosa? Per maledire i pesci? Per benedire i pesci?» Alcuni dei presenti cominciarono a ridere. «Da quando in qua i romani hanno paura di qualche pesce? Tornate a casa. Divertitevi. Tra due giorni inizierà un nuovo anno, con un nuovo console: uno che, potete starne certi, vigilerà sempre sul vostro benessere!»
Non fu una grande orazione rispetto ai suoi canoni abituali, ma servì allo scopo. Si levarono addirittura alcuni applausi. Il mio padrone saltò giù dalla catasta. I legionari aprirono un varco tra la calca e noi c’incamminammo con passo spedito verso la città. Giunti nei pressi della porta lanciai un’occhiata alle nostre spalle. Ai margini dell’assembramento qualcuno stava già cominciando ad allontanarsi in cerca di nuove distrazioni. Io mi voltai verso Cicerone per congratularmi per l’efficacia delle sue argomentazioni, ma lui era piegato su un canale a lato della strada, intento a vomitare.
Questa era la condizione della città alla vigilia dell’investitura di Cicerone: un vortice di rabbia, dicerie e inquietudine; di veterani storpi e contadini in rovina che elemosinavano a ogni angolo; di bande rumorose di giovani ubriachi che seminavano il panico tra i bottegai; di donne di buona famiglia che si prostituivano apertamente fuori delle taverne; di conflagrazioni improvvise, tempeste violente, notti senza luna e cani che cercavano tra i rifiuti; di fanatici, divinatori, mendicanti, risse. Pompeo era ancora lontano, al comando delle legioni in Oriente, e in sua assenza un’atmosfera irrequieta e mutevole fluttuava per le strade come nebbia di fiume, creando in tutti agitazione. Era diffusa la sensazione che qualche evento straordinario incombesse, ma nessuno aveva un’idea chiara di che cosa potesse trattarsi. Si diceva che i nuovi tribuni stessero lavorando con Cesare e Crasso su un vasto progetto segreto per distribuire le terre pubbliche ai cittadini poveri. Cicerone aveva tentato di saperne di più, ma senza successo. I patrizi erano determinati a opporsi, di qualunque cosa di trattasse. Le merci scarseggiavano, si faceva incetta di cibo e le botteghe erano vuote. Anche gli usurai avevano smesso di concedere prestiti.
Quanto al collega console di Cicerone, Antonio Ibrida – Antonio il Meticcio: metà uomo, metà bestia –, era al tempo stesso selvaggio e ottuso, come si confaceva a un candidato che avesse corso per la carica in una lista congiunta con il nemico giurato di Cicerone, Catilina. Nondimeno, conoscendo i perigli che avrebbero dovuto affrontare, e consapevole di avere bisogno di alleati, Cicerone aveva fatto ogni sforzo possibile per restare in buoni rapporti con lui. Purtroppo i suoi tentativi di avvicinamento non avevano portato a nulla, e vi spiegherò il perché. Era consuetudine per i consoli designati tirare a sorte in ottobre per stabilire quale provincia ciascuno dei due avrebbe governato una volta concluso l’anno di incarico. Ibrida, che affondava nei debiti, mirava alle terre ribelli ma lucrose della Macedonia, dove una vasta fortuna aspettava solo di essere sfruttata. Tuttavia, con costernazione, dovette accontentarsi dei pacifici pascoli della Gallia Cisalpina, dove non si muoveva nemmeno una foglia. Fu a Cicerone che toccò la Macedonia e, mentre il risultato veniva annunciato al Senato, la faccia di Ibrida aveva assunto una tale espressione di sorpresa e risentimento infantile che l’intera assemblea si era sbellicata dalle risate. In seguito a quell’episodio lui e Cicerone non si erano più parlati.
Non deve perciò sorprendere che Cicerone incontrasse tante difficoltà a redigere il suo discorso inaugurale e che quando rientrammo a casa, ed egli provò a riprendere la dettatura, la sua voce continuasse ad affievolirsi. Fissava un punto lontano con aria assente e si domandava ripetutamente ad alta voce perché il ragazzino fosse stato assassinato in quella maniera, e quale significato potesse avere il fatto che appartenesse a Ibrida. Ottavio aveva ragione: i principali sospettati erano i Galli. Il loro culto prevedeva senza dubbio il sacrificio umano. Trasmise un messaggio a un suo amico, Quinto Fabio Sanga, il più autorevole protettore dei Galli in Senato, chiedendogli in via confidenziale se ritenesse possibile un simile oltraggio. Ma Sanga, nel giro di un’ora, gli rispose piuttosto risentito con una lettera nella quale negava ogni accusa e invitava il console designato a non insistere su quella congettura che avrebbe gravemente offeso i Galli. Cicerone sospirò, gettò via la lettera e tentò di riprendere il filo dei suoi pensieri. Ma non riusciva a intrecciarli insieme in una struttura coerente, e poco prima del tramonto domandò di nuovo il mantello e i calzari.
Mi ero immaginato che volesse fare un giro ai giardini pubblici non lontani da casa, dove spesso si recava quando era impegnato a preparare un discorso. Ma quando raggiungemmo la cima della collina, invece di girare a destra proseguì in direzione della porta Esquilina e mi resi conto con sorpresa che la sua intenzione era quella di uscire dai confini sacri per raggiungere il luogo dove i cadaveri venivano cremati, una zona che di solito evitava come la peste. Superammo i portatori con i loro carretti in attesa di lavoro appena oltre la porta e la massiccia residenza ufficiale del carnifex, al quale, come boia pubblico, era vietato vivere all’interno dei confini della città. Infine entrammo nel bosco sacro di Libitina, pieno di corvi gracchianti, e ci avvicinammo al tempio. All’epoca quella era la sede della corporazione degli impresari di pompe funebri: il posto dove si poteva comprare tutto il necessario per un funerale, dagli unguenti da spalmare su un corpo al feretro su cui veniva cremato. Cicerone mi chiese un po’ di denaro e andò più avanti a parlare con un sacerdote. Gli allungò il portamonete e subito si materializzò una coppia di prefiche. Cicerone mi fece cenno di avvicinarmi. «Siamo arrivati appena in tempo» disse.
Che curioso gruppetto dovevamo avere formato mentre attraversavamo il Campo Esquilino in fila indiana: davanti le prefiche con i vasi di incenso, poi il console designato e infine io. Nella luce del crepuscolo eravamo circondati dalle fiammelle danzanti delle pire funerarie, dal pianto dei congiunti e dall’odore nauseabondo di incenso, forte, ma non abbastanza da coprire il puzzo della morte ardente. Le prefiche ci condussero alla ustrina pubblica, dove una pila di cadaveri, adagiati su un carretto, aspettava di essere gettata nelle fiamme. Privi di vestiti e di calzature, quei corpi non reclamati apparivano poveri nella morte come lo erano stati in vita. Soltanto il ragazzino assassinato era coperto: lo riconobbi dal sudario di tela da vele nel quale era stato avvolto. Quando un paio di becchini lo lanciarono senza sforzo sulla griglia metallica, Cicerone chinò il capo e le prefiche che erano state assoldate intonarono una litania particolarmente rumorosa, confidando senza dubbio in una lauta mancia. Le fiamme divamparono e si agitarono nel vento e ben presto fu tutto finito: il giovane se n’era andato verso il destino, quale esso fosse, che attende noi tutti.
Fu una scena che non avrei più dimenticato.
La misericordia più grande che di sicuro ci ha concesso la provvidenza divina è la nostra ignoranza del futuro. Provate a immaginare se fossimo a conoscenza dell’esito dei nostri piani e delle nostre speranze, o potessimo vedere in che modo siamo predestinati a morire: che iattura sarebbe per le nostre esistenze! Invece viviamo nella totale inconsapevolezza, giorno dopo giorno, felici come animali. Ma tutte le cose alla fine tornano alla polvere. Nessun essere umano, nessun sistema governativo, nessuna epoca sfugge a questa legge; ogni cosa sotto le stelle perirà; la roccia più dura verrà erosa. Niente sopravvive, a parte le parole.
Con questo in mente, e nella rinnovata speranza di vivere abbastanza a lungo da poter portare a termine il mio compito, vi racconterò adesso la straordinaria storia dell’anno in cui Cicerone detenne la carica di console della Repubblica romana e di ciò che gli accadde nei quattro anni successivi, un arco di tempo che noi mortali chiamiamo “lustro”, ma che per gli dèi non è che un battito di ciglia.

2

Il giorno successivo, vigilia dell’insediamento, nevicò: una neve fitta, di quelle che di solito si vedono soltanto sulle montagne, che ricoprì i templi del Campidoglio di un soffice marmo bianco e distese un velo spesso come la palma della mano di un uomo sull’intera città. Non avevo mai visto prima un fenomeno del genere né, a dispetto della mia età, ne ho più sentito parlare. La neve a Roma? Doveva trattarsi certamente di un presagio. Ma di che cosa?
Cicerone era chiuso nel suo studio, accanto a un piccolo braciere alimentato a carbone, e continuava a lavorare al suo discorso. Non credeva in alcun modo ai presagi. Quando entrai per comunicargli che stava nevicando, sollevò appena le spalle. «E allora?» E quando cominciai timidamente a proporre le argomentazioni degli stoici in favore delle predizioni – se esistono gli dèi, devono avere cura degli uomini, e se si prendono cura degli uomini, devono inviarci dei segnali della loro volontà –, mi stroncò con una risata. «Di sicuro gli dèi, visti i loro poteri immortali, dovrebbero essere in grado di trovare strumenti di comunicazione più articolati che semplici fiocchi di neve. Perché non ci mandano una lettera?» Tornò al suo lavoro, scuotendo la testa e ridacchiando della mia credulità. «Sii serio, Tirone, occupati dei tuoi compiti, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Dedica
  5. NOTA DEL’AUTORE
  6. Prima parte
  7. Seconda parte
  8. GLOSARIO
  9. DRAMATIS PERSONAE