Lo scontro con Moshe Landau, il giudice del processo Eichmann
Se l’eredità di Moshe Bejski fa così fatica, dopo la sua scomparsa, a farsi strada a Yad Vashem, ancora più difficile è stato in Israele il riconoscimento filosofico e morale di Hannah Arendt.
Lo stesso Moshe Landau, giudice del processo Eichmann e primo presidente della Commissione dei giusti, nel corso di un incontro privato nel dicembre 1999, mi fa capire senza peli sulla lingua quanto fosse stata poco gradita la sua interpretazione sull’operato del criminale nazista. Sono passati quarant’anni dalle polemiche sul libro della Arendt, ma il novantenne giudice d’Israele, noto per la sua intransigenza, non ha ancora cambiato idea.
«Lei conosce la sua storia sentimentale con Heidegger? Anche dopo la guerra ha cercato di rinnovare la sua relazione. È una cosa che non sopporto. Il filosofo era un arcinazista e lei doveva saperlo. Quando fu nominato rettore a Friburgo la prima cosa che fece fu quella di rimuovere tutti gli ebrei dall’università, e in quel momento quel procedimento non era assolutamente necessario. E poi la Arendt ci racconta la strana idea che gli ebrei avrebbero dovuto fare di più per resistere. Come avrebbero potuto farlo nel loro isolamento? Il suo atto di accusa contro la collaborazione degli Judenräte1 è una completa falsificazione della storia ebraica.
«Quando l’ho incontrata a casa di Kurt Blumenfeld2 aveva cercato di giustificarsi e mi aveva espresso il timore che dopo la pubblicazione dei suoi reportage qualche ebreo l’avrebbe potuta assassinare. A questo punto Blumenfeld si era messo a ridere e in modo ironico le aveva risposto: certamente ci sarà qualcuno che ti assassinerà per ciò che hai fatto.»3
Cerco di spiegare a Landau quanto è stata importante l’analisi della Arendt sulla banalità del male, ma il giudice è assolutamente inamovibile. «Eichmann ha fatto uccidere gli ebrei con profonda convinzione. Altro che banale... Amava con tutto il suo cuore il lavoro che faceva. Non mi riconosco nella sua interpretazione. Ha agito in questo modo perché pensava come un nazista, non perché si rifiutava di pensare.»
Ma perché lei è così ostinato ancora oggi nel criticare la Arendt?
«Era una sionista e ammiratrice di Blumenfeld. Dopo la fuga dalla Germania, a Parigi si è data molto da fare per aiutare l’alià, l’emigrazione degli ebrei in Israele, ma poi si è fatta prendere dal complesso tipico degli ebrei della diaspora che si autocensurano nella loro identità per ingraziarsi i gentili.»
Qualche settimana dopo quell’incontro burrascoso, ricevo una lettera di Moshe Landau. Mi scrive in modo perentorio che su una sola cosa potevamo essere d’accordo sulla Arendt: nel costatare il nostro totale disaccordo.
Le parole durissime del giudice del processo Eichmann ci riportano al clima di pesante ostilità che si crea in Israele dopo la pubblicazione sul «New Yorker» delle sue corrispondenze dallo Stato ebraico.
La Arendt viene pesantemente attaccata, soprattutto per il suo giudizio critico sul comportamento dei consigli ebraici, che con la loro cooperazione con le autorità naziste avrebbero facilitato la soluzione finale. La filosofa tedesca, che aveva avuto modo di leggere le ricerche di Raul Hilberg, ritiene che se i capi delle comunità avessero adottato una resistenza passiva forse si sarebbe limitata la portata della distruzione: così i nazisti non avrebbero potuto contare su una massa organizzata, ma avrebbero incontrato il caos e germi di ribellione.
«Ho sostenuto che non esisteva nessuna possibilità di resistenza, ma esisteva la possibilità di non fare nulla. E per non fare nulla non c’era bisogno di essere santi; bastava soltanto dire: “Io non sono che un ebreo e non desidero avere alcun ruolo”.»4 E aggiunge che faceva una chiara e netta distinzione tra le situazioni «terribili e disperate dei campi di concentramento,5 dove non si poteva chiedere alle vittime l’impossibile», e le situazioni dove le persone «avevano ancora una certa, per quanto limitata, libertà di decisione e di azione». Infatti era rimasta scandalizzata quando il giudice Gideon Hausner, nel corso del processo, aveva chiesto a bruciapelo al testimone Moshe Bejski il motivo per cui, di fronte a un’impiccagione di due ebrei, millecinquecento prigionieri del campo di Plaszów erano stati a guardare e non si erano ribellati.6
Ma si pone un interrogativo legittimo: di fronte alla collaborazione imposta dai nazisti ai capi delle comunità con vari mezzi, dalle menzogne al ricatto, c’era una via d’uscita che permettesse almeno di complicare le operazioni della deportazione?
Un esempio ci viene dalla capitolazione degli ebrei di Salonicco dove il rabbino Zvi Koretz, capo dello Judenrat, eseguì gli ordini dell’ufficio di Eichmann di organizzare la comunità in vista del suo reinserimento a Cracovia e in questo modo diventò un tragico tassello dell’apparato di sterminio nazista. Ancora oggi la sua vicenda crea grandi polemiche: Niko Alvo, uno dei pochi sopravvissuti, lo accusa di avere convinto gli ebrei della città a fidarsi delle promesse dei tedeschi, secondo le quali avrebbero potuto trovare una dignitosa occupazione in Polonia.
«Se Koretz ci avesse spronato a una resistenza, una parte importante della comunità si sarebbe potuta salvare perché le misure di controllo dei tedeschi avevano molte falle e centinaia di ebrei avrebbero potuto trovare rifugio nelle montagne o tentare una via di fuga ad Atene. Allora mi sono potuto salvare perché, quando mi sono allontanato dal ghetto e ho buttato via la stella gialla, con mia grande sorpresa non sono stato fermato dalle SS e con un vestito da ferroviere greco ho preso il treno per Atene, senza venire scoperto. Tanti ebrei potevano fare come me, perché la situazione di Salonicco era molto diversa rispetto a quella del ghetto di Varsavia.»7
Diversamente da Koretz, il rabbino ateniese Elyahu Barzilai non volle collaborare. Si rifiutò di fornire l’elenco degli ebrei di Atene, fece sparire l’archivio della comunità e, con l’aiuto della resistenza greca e sborsando una somma di denaro molto elevata, riuscì a salvare una parte importante della comunità, nascondendola in chiese e monasteri di campagna.
Gli interrogativi della Arendt sul comportamento delle istituzioni ebraiche avrebbero richiesto un dibattito sereno e articolato, e invece suscitarono il finimondo perché toccarono un nervo scoperto. Nel momento in cui Israele giudica Eichmann e mette sotto accusa il comportamento dei carnefici, suona stonato che qualcuno parli di passività ebraica.
La Arendt usa poi nelle sue corrispondenze un tono eccessivamente polemico, che viene interpretato come un j’accuse definitivo, senza diritto di replica. Inoltre non si rende conto di un cambiamento importante che Israele sta vivendo con il processo Eichmann. Per anni gli ebrei della diaspora, emigrati in Israele dopo l’Olocausto, erano guardati dall’alto in basso e considerati degli sconfitti. Erano in auge i sionisti e i combattenti, mentre i sopravvissuti della Shoah non avevano quasi diritto di parola. Erano stati per anni considerati come pecore andate al macello senza opporre resistenza.8 Ora finalmente parlavano e trovavano la possibilità di un’integrazione in Israele, e guardavano con timore chi riproponeva il discorso sulla passività.
Gershom Scholem, suo vecchio amico e grande studioso di mistica ebraica, la ammonisce a non tradire in questo modo l’amore per la sua origine.
«Nella tradizione ebraica c’è un concetto, difficile da definire e tuttavia abbastanza concreto, che conosciamo come Ahavat Israel, “l’amore per il popolo ebraico”. In te, come in tanti intellettuali provenienti dalla sinistra tedesca, non ne trovo traccia.»9 Si tratta della stessa accusa di autocensura e di odio di sé che aveva riproposto Moshe Landau.
Se si vuole mantenere questo spirito, suggerisce Sholem, bisogna astenersi da giudizi troppo drastici sulla storia ebraica.
La Arendt risponde di non avere mai messo in discussione la sua ebraicità, senza per questo rinunciare al suo spirito critico. Molto pericoloso è quando in politica si usano le ragioni del cuore per mettere a tacere dei fatti sgradevoli e delle opinioni diverse. Non si può giudicare con l’affetto e i sentimenti. «Non sono animata da alcun “amore” di questo genere ... Nella mia vita non ho mai “amato” nessun popolo e nessuna collettività: né il popolo tedesco, né quello francese, né quello americano, né la classe operaia, né nulla del genere. Io amo “solo” i miei amici e l’unica specie di amore che conosco e in cui credo è l’amore per le persone.»10
Le polemiche di quei giorni ebbero un effetto deleterio. Intorno a lei si creò un muro di gomma. La Arendt non fu mai invitata a parlare in Israele, e la sua risposta a Sholem non venne mai pubblicata dai giornali israeliani. Le autorità accademiche la consideravano una persona non grata e ci vollero una quarantina d’anni prima che finalmente il suo libro su Eichmann venisse pubblicato in ebraico.
Quel rifiuto nato da pregiudizi e da incomprensioni non solo ha impedito in Israele l’apertura di un dibattito serio e corretto sulle sue tesi, ma ha rappresentato un’incredibile occasione mancata. Non c’è stato probabilmente nessun pensatore del Novecento così vicino all’intuizione del Giardino dei giusti di Gerusalemme.
La genesi della memoria del bene e del ricordo di quanti furono capaci a livello individuale di sottrarsi al terribile conformismo del male, trova nella Arendt la più alta forma di riflessione filosofica sulle possibilità del libero arbitrio in un sistema totalitario. Poteva diventare una delle fondatrici morali dell’istituzione di Yad Vashem e invece le sue intuizioni sono state completamente stravolte.
Quando ho cercato di spiegare a Moshe Landau che la sua analisi ci permette di comprendere la dinamica di molti comportamenti dei giusti, mi sembrava gli parlassi di una persona a lui totalmente sconosciuta. «Ma cosa c’entra la Arendt in tutto questo?»
Era come se la filosofa fosse vissuta su Marte e lui su Venere, eppure il giudice, rivendicando orgogliosamente di fare parte di un altro pianeta, si lasciò andare a un’affermazione sorprendente.
«Ci sono molti che sbagliano dicendo che tutto è determinato in anticipo e che persino Eichmann non poteva fare diversamente, per la sua cultura e per il suo ambiente. Non è vero. Anche lui poteva scegliere. Ecco perché ho chiesto la sua condanna a morte. «C’è un detto dei nostri padri: siamo sempre condizionati dall’eredità che ci viene dai geni, dall’educazione, dall’esperienza, ma è dato comunque a ogni uomo il permesso di agire in modo diverso.»
Rimango stupefatto, perché è proprio questa la sostanza della riflessione filosofica della Arendt che si interroga se l’individuo ha la forza di trovare dentro di sé un antidoto nei confronti del male. Ma purtroppo i pregiudizi impediscono il confronto e bloccano la curiosità.
Fare il male senza pensare
Assistendo al processo, la Arendt non aveva trovato nel carattere di Eichmann nulla di demoniaco e di mostruoso, né tanto meno una sua propensione al sadismo, ma una preoccupante normalità. Le era sembrato che «l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento passato, come in quello tenuto durante il processo e lungo tutto il suo interrogatorio, era qualche cosa di interamente negativo, non stupidità, ma mancanza di pensiero».11
Si può discutere sulle convinzioni ideologiche di Eichmann, che certamente era fortemente attratto dalla ideologia hitleriana, ma la filosofa tedesca coglie nel criminale nazista un tratto tipico degli individui nei regimi totalitari che assecondano senza riflettere una burocrazia del male.
La gente comune, per opportunismo, per non contravvenire alle leggi e agli ordini e naturalmente per paura, preferisce rimuovere gli interrogativi morali e voltare la testa dall’altra parte di fronte al male. Ecco allora che la Arendt si interroga se l’esercizio del pensiero sia la chiave di volta per sottrarsi al conformismo di un regime totalitario.
«La domanda che si imponeva era la seguente: potrebbe l’attività del pensare come tale, l’abitudine di esaminare tutto ciò a cui accade di verificarsi o di attirare l’attenzione, indipendentemente dai risultati o dal contenuto specifico, potrebbe questa attività rientrare tra le condizioni che inducono gli uomini ad astenersi dal male o perfino che li “dispongono” contro di esso?»12
La modalità del pensiero era per lei la possibile ancora di salvezza dell’uomo di fronte a un repentino e improvviso ribaltamento dei costumi morali che non sono mai definiti una volta per tutte, ma possono cambiare con la velocità della moda o dei nostri gusti a tavola.
Con la nascita dei totalitarismi i valori che sembravano acquisiti per sempre, come il non uccidere, il non mentire o il rispetto del prossimo e della sua libertà, non solo vengono negati in nome di una ragione superiore, ma sono sostituiti da valori contrari che sono codificati all’interno di un sistema giuridico.
È dunque la legge dello Stato che obbliga a fare il male, a perseguitare gli ebrei, a diventare delatore, a denunciare i «nemici del popolo», a reprimere il proprio giudizio personale e a sostenere la menzogna politica del partito.
Ma qual è il percorso del pensiero che aiuta gli individui a sottrarsi a delle leggi ingiuste e a non farsi condizionare dalla degenerazione dei costumi morali?
La Arendt suggerisce dei comportamenti che non sono la prerogativa di intellettuali e di uomini di cultura, ma sono invece alla portata di tutti: la solitudine, la capacità di un dialogo silenzioso nel proprio io, la capacità di giudicare mettendosi al posto degli altri, l’immaginazione, la forza di provare vergogna per i propri atti ingiusti, l’uso della volontà per dare inizio a un atto di resistenza, la fiducia che la propria azione possa essere seguita da altri, la capacità di perdonare.
Fermati e pensa in solitudine
Il primo passo che permette di sfuggire a quello che lei chiama l’allineamento (Angleichung) al treno della Storia e al ribaltamento dei costumi morali è la capacità di separarsi dal mondo e di pensare in solitudine.
Apparentemente si è soli, ma si può iniziare un proficuo dialogo con se stessi che dà la possibilità di mettere in discussione comportamenti che invece, stando assieme agli altri, sembrerebbero del tutto normali.
L’uscita di sicurezza nelle situazioni d’emergenza, dove vengono meno i riferimenti morali, è per la Arendt la «predisposizione a vivere assieme a se stessi». È la bussola a cui ogni individuo senza eccezione può ricorrere se osa interrogarsi sulle regole del mondo, ma nella maggior parte dei casi gli esseri umani preferiscono evitarla, per non dovere affrontare la paura e il disagio che deriva dal venire meno ...