LUCIANO DE CRESCENZO
STORIA
DELLA FILOSOFIA
MODERNA
Da Niccolò Cusano a Galileo Galilei
Burlarsi della filosofia è veramente filosofare.
BLAISE PASCAL, Pensieri, 4.
Quando si dice rivoluzione, chissà perché, si pensa subito alla fine del Settecento o all’inizio del Novecento, e quindi alla Rivoluzione francese o a quella russa, e mai, dico mai, agli anni del XV e del XVI secolo. Eppure, i maggiori cambiamenti avvennero proprio in quell’epoca. Cito a caso, così come mi vengono in mente, le aree culturali e gli uomini che le caratterizzarono: la filosofia con Marsilio Ficino e Francesco Bacone, la geografia con Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci, l’astronomia con Copernico, Tycho Brahe, Keplero e Galilei, la politica con Machiavelli e Guicciardini, la nascita della stampa con Giovanni Gutenberg, l’arte con Leonardo, Raffaello e Michelangelo, l’invenzione della prospettiva con il Brunelleschi e Leon Battista Alberti, la religione con Martin Lutero, Zwingli e Calvino, e chissà quanti altri ancora che in questo momento mi sfuggono. Ebbene, perché si sappia, tutto questo è passato alla storia col nome di Umanesimo e di Rinascimento.
Per alcuni l’Umanesimo è stato un periodo storico, iniziato nel Quattrocento, nel corso del quale vennero rivalutate le materie umanistiche e quindi i classici latini e greci. Per altri, invece, è la rivalutazione dell’uomo in quanto uomo. Per i primi non si poteva ignorare quanto avevano detto Socrate, Platone, Aristotele, Cicerone, Tacito e Seneca. Per i secondi, invece, era stato Dio a farsi più in là per lasciare spazio all’uomo e alle sue invenzioni. Non a caso, proprio in quegli anni uscì il De hominis dignitate di Pico della Mirandola.
Lo slogan del Medioevo era stato «Siamo nati per soffrire» (che derivava dalla concezione dell’uomo «pellegrino in una valle di lacrime»), quello del Rinascimento il ritornello «Chi vuol esser lieto, sia» di Lorenzo il Magnifico (che derivava dal concetto del «carpe diem» di Orazio) e questo già la dice lunga su quali differenze ci fossero tra i due periodi. Erasmo da Rotterdam un giorno, in una lettera a un amico, confessa di essere stanco di vivere e dice: «Essendo entrato nel cinquantesimo anno credo di aver vissuto abbastanza. Purtuttavia mi piacerebbe tornare giovane, almeno per qualche anno, perché vedo spuntare intorno a me un secolo d’oro». La vita, infatti, tornò a essere fatta di evasione, cultura, gioco e passeggiate con gli amici. Magari all’inizio l’individuo era ancora un pochino timido e impacciato, poi però, man mano che passarono gli anni, cominciò a ragionare con la propria testa e divenne, a detta dello storico Giovanni Huizinga, un «bel giocattolo nelle mani di Dio».
Fino a quel momento l’unico uomo che sapesse leggere e scrivere era stato il monaco o il prete, che, oltre a dire messa, aveva fatto il medico, lo psicanalista e il farmacista. Mai, però, lo scienziato, anche perché la scienza non era ben vista dalle autorità ecclesiastiche. Ma abbinata alla rivoluzione culturale ci fu quella sociale. Cominciarono ad affacciarsi alla ribalta le classi più povere, ovvero le classi dei lavoratori. Nacquero così le industrie tessili, quelle metallurgiche e quelle vetrarie. Per non parlare dei progressi fatti nell’edilizia e nelle costruzioni navali. La scuola, infine, conquistò la disputatio, ovvero la possibilità da parte degli studenti di mettere in dubbio quanto avevano appena udito dal magister e di dirglielo davanti a tutti.
All’epoca, in Italia, gli Stati che contavano erano cinque e precisamente il Regno di Napoli, Venezia, Milano, Firenze e la Chiesa. Quest’ultima non si limitava alle sole mura vaticane, ma governava su una vasta area comprendente il Lazio, le Marche, una parte dell’Emilia, la Romagna e l’Umbria. Le varie corti, a cominciare da quelle dei Medici e degli Sforza, non potevano ignorare le autorità ecclesiastiche e quindi finivano col subirne il potere. Durante il Medioevo la Fede aveva battuto la Ragione due a zero. Il percorso obbligato per un cattolico era casa e chiesa, chiesa e casa, e guai ad allontanarsi anche di un metro. Ma a Napoli si dice: «Dalli e dalli, si scassano pure i metalli», il che, tradotto in italiano, vuol dire: «A forza d’insistere, si piegano anche i metalli». E così un bel giorno la Ragione riuscì a pareggiare. Il primo gol lo segnò Niccolò Cusano.
Niccolò Cusano nacque nel 1401 a Cusa in Germania. Diventato maggiorenne, si rese conto di avere un cognome impronunciabile: Chrypffs, Kreybs, Khrayfs o qualcosa di simile. Allora decise di modificarlo e di farsi chiamare Cusano in omaggio alla sua città natale. Studiò prima a Deventer, poi a Heidelberg e infine a Padova dove si laureò in legge. Il primo processo da avvocato gli andò una vera schifezza: il suo cliente venne condannato a una pena addirittura superiore a quella richiesta dal pubblico ministero e tanto bastò per fargli cambiare mestiere.
La teologia fu il suo vero primo amore. Poi, com’era di moda a quei tempi, si fece prete e cominciò a frequentare gli ambienti italiani. Evidentemente dovette pensare che quelli italiani erano meno tedeschi dei tedeschi e invece si sbagliò: scoprì che erano ancora più tosti. Da giovane scrisse molti libri tra cui l’Idiota, il De pace fidei, il De visione Dei e un saggio intitolato Il gioco della palla.
Superati i trent’anni partecipò al Concilio di Basilea dove si distinse per l’acutezza degli interventi. Ora bisogna sapere che all’epoca i partecipanti ai concili tutto sapevano fare tranne che conciliare. A Basilea, infatti, si formarono subito due partiti, l’uno contro l’altro armato: quelli che vedevano nel Papa un monarca assoluto e quelli che credevano nell’apporto consultivo degli altri membri della Chiesa. Niccolò era tra questi e fece di tutto per mediare tra le due opposte fazioni. Sennonché un brutto giorno, avendo detto in pubblico che Dio e l’Universo erano la stessa cosa, in quanto entrambi infiniti, si buscò una bella accusa di panteismo e si fece qualche annetto di carcere. In un secondo tempo, però, cambiò radicalmente parere: fu eletto vescovo di Bressanone e subito dopo cardinale e vicario generale dello Stato Pontificio. Da quel giorno divenne un fedele servitore del Papa, cosa che gli valse il titolo di primo voltagabbana della storia della filosofia. Morì nel 1464 a Todi. Aveva sessantatré anni.
Niccolò Cusano (1401 - 1464)
Il pensiero di Niccolò Cusano viaggia con un piede nella teologia e un altro nella metafisica. Il concetto stesso d’infinito, ad esempio, lo faceva «andare ai pazzi».
«È difficile per un mortale» secondo Cusano «concepire l’infinito.»
Poi gli capitò un’esperienza indimenticabile. Stava viaggiando su un tre alberi dalla Grecia in l’Italia, quando una notte, non avendo sonno, decise di salire in coperta. Era l’alba e si accorse che intorno a lui c’era solo mare, mare, e ancora mare. Non un lembo di terra, non un’isola o uno scoglio su cui appuntare lo sguardo.
«Questo deve essere l’infinito» pensò, «e questo deve essere Dio.»
Poi vide uno stormo di uccelli che si stava dirigendo verso le coste italiane.
«Oddio!» esclamò. «Come sarebbe bello avere le ali e poter volare per tutta l’eternità fino a raggiungere i bordi dell’infinito!»
A quel punto, però, si rese conto di aver detto una stupidaggine.
«L’espressione “i bordi dell’infinito” è una contraddizione in termini. L’infinito non può avere dei bordi. L’infinito è una circonferenza allungata al massimo e quindi, proprio perché allungata al massimo, è uguale a una retta.»
Alla fine capì che solo la consapevolezza della propria ignoranza l’avrebbe potuto aiutare. Allora tornò a casa e si mise a scrivere un saggio intitolato De docta ignorantia.
«Se non si è ignoranti» concluse, «non è possibile capire le cose che stanno più in alto.»
D’altra parte non fu il primo, né sarà l’ultimo, ad autodefinirsi ignorante. Da Socrate a Adriano Celentano1 c’è sempre stato qualcuno che ha ostentato la propria ignoranza come un titolo di merito. Niccolò Cusano, in particolare, la consigliò come metodo per comprendere le cose che non si capiscono facilmente. E aveva ragione: quando entriamo in un museo, o quando stiamo per cominciare a leggere un libro, dimentichiamoci di noi stessi, fingiamo di essere appena nati, e tutto ci sembrerà più attraente.
Con Cusano mi vedo spesso. Il suo corpo riposa a Roma, nella chiesa di San Pietro in Vincoli, a due passi da casa mia. Mi basta attraversare la strada.
In genere, ogni lunedì, faccio colazione allo Snack Bar di largo Corrado Ricci, e lì, puntualmente, incontro il mio compagno di scuola Eduardo Criscuolo, grande ammiratore di Michelangelo.
Prima l’acquisto dei giornali, poi di seguito: il cappuccino, il cornetto, le chiacchiere con Criscuolo e la visita al Mosè di Michelangelo, sempre in San Pietro in Vincoli. Ebbene, sul lato sinistro della chiesa, appena si entra, c’è la tomba di Niccolò Cusano. Criscuolo ci passa davanti senza nemmeno darci uno sguardo. Io, invece, rallento e gli mando un affettuoso saluto.
Io credo che in natura non esistano né lo zero né l’infinito. Al massimo posso immaginare cose che tendono allo zero o all’infinito ma niente di più. Nell’antica Roma lo zero non esisteva. Fu inventato solo nell’VIII secolo d.C. da un certo Abu al Khawarizmi, un arabo che viveva a Baghdad. Per quanto riguarda, invece, l’infinito vorrei poter dimostrare la sua non esistenza ma mi rendo conto che è difficile. E quindi, per non correre il rischio di essere abbandonato fin dalle prime pagine, invito il lettore a saltare questo capitoletto e a passare a quello successivo, a meno che lui, con un po’ di buona volontà e un filino di geometria studiata a scuola, non si voglia cimentare.
Ciò detto, immaginiamo di essere animali a una sola dimensione. Ognuno di noi è solo un trattino, più o meno lungo, che vive su una retta.
A un certo punto un trattino dice a un...