Occidente estremo
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Occidente estremo

Il nostro futuro tra ascesa dell'impero cinese e declino della potenza americana

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Occidente estremo

Il nostro futuro tra ascesa dell'impero cinese e declino della potenza americana

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«Fu nel 2009 che lasciai Pechino per New York. Per me era un ritorno negli Stati Uniti. Avevo già vissuto sull'altra costa, a San Francisco, fino al 2004. In mezzo, quei cinque anni in Cina sono stati lunghi quasi quanto un secolo. Non per me: per i rapporti di forza tra Asia e Occidente. Lasciai la California quando ancora la Cina era un'allieva, impegnata a emulare il maestro americano. Ho ritrovato un'America stremata dalla più grave crisi economica dopo la Grande Depressione. Una crisi che la Cina ha evitato, in modo magistrale, usando le leve del suo capitalismo di Stato. Così la storia ha avuto un'accelerazione improvvisa. Era chiaro che il XXI secolo sarebbe stato asiatico, ma in poco tempo lo scatto dell'Oriente ha dato la sensazione che i giochi siano già fatti. La Cina sembra padrona del proprio futuro, lanciata in una modernizzazione che brucia le tappe, l'America si trascina faticosamente fuori dal tunnel.» Che gli Stati Uniti siano in declino è un dato di fatto. La parabola dell'impero americano non è diversa da quella di altri imperi per i quali la crescita eccessiva dell'estensione territoriale e l'ambizione egemonica si sono trasformati in un drammatico fattore di debolezza verso l'esterno e di fragilità al proprio interno. L'America che Federico Rampini ritrova dopo cinque anni trascorsi nel cuore della tumultuosa crescita cinese è un paese in cui il debito pubblico e i tagli feroci hanno reso ogni infrastruttura fatiscente, in cui strade, metropolitane e ospedali non sono paragonabili a quelli realizzati nelle grandi capitali asiatiche. La Cina, invece, spinge ormai la sua influenza fino a luoghi insospettabili. La «fabbrica del mondo» si sta rapidamente convertendo in «fabbrica di idee», in un'economia sempre più avanzata e ambiziosa, capace di essere competitiva anche in ambiti creativi, progettuali e persino culturali. Eppure, insospettabilmente, l'America, forse proprio perché attraversata da una fase di decadenza, è diventata anche il laboratorio in cui si elaborano nuovi stili di vita, nuovi modi di rapportarsi all'ambiente, nuove forme di produzione e di consumo sostenibile. Occidente estremo è un mosaico di esperienze vissute, di luoghi e di personaggi incontrati nei due imperi incompetizione. È il racconto, tra Est e Ovest, del futuro che si sta spalancando davanti a noi. Un futuro fatto di grandi scenari politici ed economici, ma anche di città che si trasformano in giardini, di idee rivoluzionarie che giovani ricercatori, spesso asiatici, sanno far germinare in università americane, di uomini che hanno riscoperto il valore di riparare i propri oggetti quotidiani da sé. «A New York ho la sensazione di essere al centro del mondo. Per un giornalista italiano è evidente: tutto ciò che accade negli Stati Uniti fa notizia, acquista immediatamente una grande visibilità, "fa tendenza". A torto o a ragione, una foglia d'acero che cade a Central Park provoca un'onda d'aria che si trasmette attraverso gli oceani. Se l'America è in declino, la sua è una magnifica decadenza. Potrebbe perfino farci bene, a tutti.»

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852017247
II

La sfida di Pechino per l’egemonia

Il futuro padrone degli oceani

Lepanto, 7 ottobre 1571: le navi spagnole, veneziane e genovesi sconfiggono la flotta dell’Impero ottomano.
Settembre 1588: l’Invincibile Armata di re Filippo II fallisce l’invasione dell’Inghilterra.
23 agosto 1884: l’ammiraglio Courbet sgomina la flotta cinese a Fuzhou, assicurando alla Francia il controllo sul Vietnam.
7 giugno 1942: al largo dell’atollo di Midway, a metà strada tra le Hawaii e il Giappone, la Us Navy distrugge la flotta dell’ammiraglio Yamamoto.
Che forme avrà il prossimo «appuntamento» tra due superpotenze marittime?
Le grandi contese navali hanno una rilevanza che supera la sfera militare. Segnano i punti di passaggio, le transizioni da un’epoca a un’altra, gli scontri tra civiltà. Il controllo dei mari ha sempre avuto un’importanza strategica, economica, politica, perfino culturale. Il «Mare Nostrum» dei Romani, la colonizzazione ispanica del Nuovo Mondo, l’Impero della Gran Bretagna su cui non tramontava mai il sole: intere civiltà si sono affermate governando i flussi navali, hanno affidato ai mari comunicazioni, correnti di merci e di idee. Il ricordo di queste sfide storiche nelle epoche di transizione oggi turba la leadership americana. Washington vede il suo dominio sugli oceani insidiato da un nuovo attore: l’emergente potenza navale della Cina. L’ammiraglio Robert Willard, comandante delle forze Usa nel Pacifico, parla di «crescente aggressività» della marina cinese. Quando nel novembre 2007 la portaerei Uss Kitty Hawk si vede negare l’accesso al porto di Hong Kong, nonostante abbia richiesto il permesso di scalo per ripararsi da un tifone marino, è uno sgarbo senza precedenti. Su un altro teatro, il Golfo Persico nel 2010 vede arrivare due navi militari della Repubblica Popolare nel porto di Abu Dhabi: è la prima volta da cinque secoli che bastimenti armati con bandiera cinese si affacciano in quelle acque. Per i vertici della Us Navy è l’inizio di un incubo: fin dove si spingerà la Cina per contrastare l’egemonia marittima degli americani? È così che a Washington lo studio delle grandi sfide navali della storia diventa una guida, e quasi un’ossessione.
Il declino di un impero, l’ascesa del suo rivale e successore, si proietterà ancora una volta sul palcoscenico spettacolare degli oceani? Per l’ammiraglio Willard i precedenti storici offrono una miniera di lezioni. A Lepanto nel 1571 non si gioca solo una battaglia navale, con 13.000 marinai e 28.000 soldati della Lega Santa contro 47.000 uomini sotto i comandi di Ali Pasha. È in realtà una puntata decisiva nel secolare confronto tra il mondo cristiano e l’Islam, la battuta d’arresto nell’avanzata ottomana verso il cuore dell’Europa. La posta in gioco è anche economica, il controllo del Mediterraneo nel traffico delle spezie. Così il pendolo della storia, dopo la metà del XVI secolo, oscilla da Oriente verso Occidente. Lepanto diventa un simbolo, segna l’immaginazione degli artisti del tempo: Tiziano, Tintoretto, Veronese. La stessa valenza epocale emana dalla débâcle del 1588 ai danni della Grande y Felicìsima Armada ai comandi del duca di Medina Sidonia. La ritirata degli spagnoli non è tanto significativa sul piano militare, perché il maltempo fa più danni degli inglesi ma segnala uno spostamento tecnologico ed economico. Così come la flotta di Elisabetta I dimostra di essere la più sofisticata, l’Inghilterra diventa la punta avanzata della modernità. Si candida a dominare l’Atlantico e questo oceano diventa il nuovo baricentro dell’economia mondiale.
L’America dai tempi di Franklin Roosevelt si è assunta in pieno l’eredità dell’egemonia britannica sui mari. La somiglianza tra i due imperi di cultura anglosassone è chiara. Gli Stati Uniti sono circondati dalle acque, la loro supremazia militare ha dovuto appoggiarsi in modo determinante sulla marina e l’aviazione, per proiettarsi a grandi distanze. La Us Navy presidia tutte le rotte commerciali strategiche: l’egemonia sui mari è l’equivalente del ruolo dell’inglese come lingua franca globale o del dollaro come moneta universale. L’isola di Guam, una «portaerei naturale» in mezzo al Pacifico, è la sede della più vasta base militare americana in tutto il pianeta, più grande di ogni base Usa in Europa, in Iraq, in Afghanistan.
Il mare è centrale nella più grande di tutte le guerre, in cui affonda le sue radici storiche l’egemonia americana. Vista dall’Asia e dagli Stati Uniti, quella che noi chiamiamo la Seconda guerra mondiale è solo l’episodio finale di un conflitto ben più lungo: «The Pacific War», la chiamano gli storici americani. Ha inizio dieci anni prima di Pearl Harbor, il 18 settembre 1931, con l’invasione giapponese della Manciuria. Occupando il nord della Cina l’Impero del Sol levante getta la maschera e rivela le sue ambizioni. Povero di materie prime, deve garantirsi un accesso sicuro al Sudest asiatico, allora dominato dagli anglo-olandesi, più i francesi in Indocina. La Manciuria e la Corea sono solo le prime teste di ponte, l’inizio dell’espansionismo nipponico. L’irruzione giapponese in Cina sconvolge il Grande gioco che aveva opposto la Russia zarista e la Gran Bretagna per il controllo dell’Asia. La posta più importante è il controllo delle vie marittime: il Pacifico, il Mare della Cina, l’Oceano Indiano, fino al Golfo Persico. Su quelle rotte strategiche transitano energia e risorse naturali, contese fra i Paesi ricchi dell’Occidente industrializzato, e una nuova protagonista del decollo industriale come Tokyo. La guerra del Pacifico dura un’eternità: quindici anni, di cui la «nostra» Seconda guerra mondiale è l’epilogo. Prima ancora delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki nel 1945, il confronto tra l’America e lo sfidante asiatico passa attraverso un embargo petrolifero, carneficine nei combattimenti corpo a corpo per la conquista degli arcipelaghi, la vittoria americana di Midway. E poi quella che rimane tuttora la più grande battaglia navale di tutti i tempi: dal 23 al 26 ottobre 1944 nel Golfo di Leyte (Filippine), con la Terza flotta americana guidata dalle portaerei Intrepid e Cabot (260 aerei); di fronte a loro un’armata di 28 navi militari e i due più grandi incrociatori mai costruiti, Yamato e Musashi.
La memoria di quelle battaglie è custodita nei grandi cimiteri americani del Pacifico e rende gli Stati Uniti ipersensibili riguardo al controllo di quelle acque. Non è un caso se Guam è la loro base più grande; o se hanno continuato a esasperare l’opinione pubblica giapponese pur di tenere duro sulla loro presenza militare a Okinawa; o se mantengono 28.500 militari in Corea del Sud. Nelle guerre terrestri hanno incassato sconfitte come in Vietnam, ma guai se dovesse vacillare la «Pax Americana» sugli oceani. L’allarme dell’ammiraglio Willard, che definisce «drammatico» il rafforzamento in atto della marina militare cinese, è ripreso dall’esperto di strategia Mark Helprin del Claremont Institute: «Stati Uniti e Cina sono in piena rotta di collisione nel Pacifico. Molto prima di quanto potessimo aspettarci, la Cina raggiungerà con noi la parità militare». Pechino è guidata dalla stessa logica che ispirò prima gli inglesi, poi gli americani: dove si espande la propria forza commerciale, industriale e politica, dove ci sono le fonti di approvvigionamento strategico, bisogna avere le cannoniere a presidiare le rotte.
Sulla più prestigiosa rivista americana di geostrategia, Foreign Affairs, lo storico Robert Kaplan riscopre una profezia del geografo inglese Sir Halford Mackinder. Nel 1904, in un’epoca in cui la Gran Bretagna regnava incontrastata sugli oceani, Mackinder seppe prevedere il declino del suo Paese. Nella sua opera The Geographical Pivot of China History c’è una visione preveggente e originale dell’ascesa della nazione asiatica. Una volta in grado di espandere la propria potenza, «i cinesi potranno aggiungere alle risorse di un vasto continente anche quelle di un’ampia costa oceanica», una possibilità negata invece alla Russia. Mackinder si rendeva conto che la Russia, l’altro gigante eurasiatico, sarebbe stata sempre limitata al ruolo di potenza terrestre, con un fronte oceanico ridotto e bloccato dai ghiacci. Il geografo vedeva invece nella Cina del futuro, con le sue lunghe coste (14.000 km) in aree dai climi temperati, una potenza sia terrestre sia marittima. Arrivò perfino a immaginare che la Cina avrebbe conquistato la Russia.
«La favorevole geografia della Cina» commenta oggi Kaplan «tende a essere sottovalutata nelle analisi sul suo dinamismo economico e il suo rinvigorito nazionalismo. Eppure è essenziale, perché significa che la Cina sarà al centro delle dinamiche geostrategiche anche qualora la sua traiettoria da superpotenza globale non fosse lineare.» I segnali che la Cina ha ambizioni marittime completamente nuove cominciano a infittirsi dal 2006. Nell’ottobre di quell’anno, per la prima volta, un sottomarino cinese si mette all’inseguimento della portaerei Uss Kitty Hawk (sempre lei), ed emerge in superficie a distanza così ravvicinata da poter teoricamente colpire l’ammiraglia americana con un siluro. Nel marzo 2009 una flotta di navi militari cinesi circondano la Usns Impeccable mentre è impegnata in una missione di ricognizione nel Mare della Cina meridionale ma al di fuori delle acque territoriali (12 miglia marine). Sono tanti piccoli segnali di una potenza marittima sempre più sicura di sé, che comincia a «saggiare» il rivale.
La Cina ha 75 nuovi sommergibili in costruzione. Secondo il Crs (Congressional Research Service), «entro quindici anni la Cina si sarà dotata di una flotta di sottomarini più ampia di quella americana». Inoltre sta investendo in radar marini, satelliti, reti di sonar. Le tecniche di cyber-pirateria, nelle quali eccellono gli specialisti informatici dell’Esercito Popolare di Liberazione, sono anche al servizio dei missili balistici puntati contro il mare: gli hacker devono poter accecare la vigilanza satellitare degli americani in caso di attacco contro Taiwan, per esempio. La modernizzazione militare cinese, nell’insieme, ha tra i suoi compiti primari quello di negare alla Us Navy molte agevoli rotte di accesso al Pacifico occidentale. (La definizione «Pacifico occidentale» è ovviamente quella usata dagli Stati Uniti: dalla loro prospettiva si riferisce cioè alla costa dell’Oceano Pacifico che bagna l’Asia.)
In quest’ottica assume un significato nuovo anche la questione di Taiwan, l’isola che il generale Douglas MacArthur dopo la Seconda guerra mondiale definiva «la portaerei inaffondabile» degli Stati Uniti piazzata davanti alle coste cinesi. Secondo uno studio della Rand Corporation, entro il 2020 l’America sarà nell’impossibilità di difendere Taiwan da un eventuale attacco militare della Repubblica Popolare. Sempre ammesso che Pechino non riesca ad annettersi l’isola molto prima senza neppure lanciare un missile, bensì facendo leva sugli strumenti di una colonizzazione economica, finanziaria, turistica, culturale. Ma una volta che Washington dovesse abbandonare Taiwan al suo destino, comincerebbero a dubitare dell’impegno americano anche altri alleati: Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Indonesia nel Pacifico, India e Pakistan nel subcontinente asiatico. Le conseguenze si allargherebbero fino al Corno d’Africa.
Oltre all’obiettivo della riconquista di Taiwan, le forze navali di Pechino stanno proiettando la loro nuova potenza oltre il Mare della Cina meridionale: puntano verso l’Oceano Indiano e tutte le rotte strategiche del petrolio che viene dal mondo arabo. Le incursioni dei pirati, la minaccia del fondamentalismo islamico sono altrettante ragioni che Pechino usa per legittimare la propria espansione marittima. A questo fine, la Repubblica Popolare ha costruito una nuova base navale nell’isola di Hainan, da cui si controlla il Mare della Cina meridionale; su quest’isola vuole dislocare 20 nuovi sottomarini nucleari. Per l’intensità degli scambi energetici che attraversano queste rotte, il Mare della Cina meridionale può diventare «il nuovo Golfo Persico o il nuovo Mediterraneo». Un «Mare Nostrum» del terzo millennio: proprio come il Mediterraneo fu l’epicentro degli scambi dall’Impero romano fino all’apogeo della Repubblica veneziana; e l’Atlantico fu il luogo delle prime tappe della globalizzazione, quelle egemonizzate dagli imperi navali di Spagna e Portogallo, poi dall’Olanda, dall’Inghilterra, infine dagli Stati Uniti. In questo scenario di rivalità sinoamericana per il controllo degli oceani, la potenza navale di Washington sarebbe costretta a ritirarsi progressivamente su una seconda linea di difesa lungo quell’arco di isole del Pacifico che sono Guam, le isole Marshall, Solomon, le Marianne e l’Oceania. Di fronte avrà una Grande Cina capace di proiettarsi in tutto il Sudest asiatico, nell’Oceano Indiano e verso l’Asia centrale, ricca di gas naturale e risorse minerarie.
Lo spostamento nei rapporti di forza non richiede necessariamente un conflitto armato. Nel 2007 l’allora capo dello Us Pacific Command, ammiraglio Timothy Keating, ricevette una proposta-shock dai cinesi: dividere il Pacifico in due sfere d’influenza. «Ci fu un’epoca» ricorda Helprin «in cui l’America e le potenze coloniali europee avevano “The China Station”, un porto di scalo con diritti speciali d’accesso sulle coste cinesi. La Cina finirà per avere la sua “American Station” sulle nostre coste? Questo è l’esito logico, nella traiettoria di una potenza.»

L’altra guerra per l’acqua: a 8000 metri

Agosto 2010: 1500 morti, 4 milioni in fuga dai villaggi sommersi, un quinto del Pakistan è inondato da piogge monsoniche eccezionali. L’allarme umanitario diventa anche una minaccia politica, la disastrosa inefficienza del governo pakistano trasforma la calamità naturale in un’occasione per l’ulteriore avanzata del fondamentalismo islamico. Anche in Cina l’estate 2010 si chiude sotto il segno di una tragedia, 1300 morti solo nella provincia del Gansu per i violenti nubifragi, straripamenti e alluvioni. Sono due esempi recenti della potenza distruttiva dell’acqua scatenata da fenomeni climatici estremi. Due potenze asiatiche, dotate di armi nucleari, si scoprono vulnerabili di fronte a un elemento primordiale. L’emergenza idrica può mettere in ginocchio anche Stati forti. Figlia del dissesto ambientale, l’oscillazione sempre più violenta tra cicli di siccità-desertificazione e grandi inondazioni mortali balza in testa all’agenda dei governi dell’Asia. La prospettiva che un giorno si combattano «guerre per l’acqua» non è fantapolitica.
Cina e Pakistan, con altre nazioni asiatiche che insieme rappresentano il 40% della popolazione mondiale, dipendono dalle stesse riserve idriche primordiali: i ghiacciai del Tibet. Dalle vette dell’Himalaya nascono tutti i grandi fiumi dell’Asia, il più occidentale diventa l’Indus, il più orientale il Fiume Giallo. In mezzo ci sono i due fiumi sacri dell’induismo, Gange e Brahmaputra; i due fiumi dell’Indocina, Mekong e Irrawaddy; lo Yangtze, che traversa tutta la Repubblica Popolare fino a Shanghai. Sono i maestosi corsi d’acqua che hanno alimentato le civiltà più antiche nella storia dell’umanità. Oggi possono rivoltarsi contro i popoli dell’Asia o semplicemente abbandonarli e sparire, come in ampi tratti della Cina ha fatto il Fiume Giallo. Inaridito, sterile.
Troppo pieni o troppo secchi, all’origine delle convulsioni dei fiumi asiatici c’è una causa comune: lo scioglimento e la grande ritirata dei ghiacciai sull’Himalaya. Lo documenta, nell’estate 2010, un’importante esposizione fotografica all’Asia Society di New York, Rivers of Ice, fiumi di ghiaccio. Per la prima volta esibisce al pubblico le prove fotografiche, raccolte con rigore scientifico, che il cambiamento climatico sta provocando una forte riduzione nel volume dei ghiacciai tibetani. Dietro c’è un uomo straordinario, anzi due, che si «parlano» a un secolo di distanza. David Breashears, cinquantacinque anni, è il più celebre alpinista-fotografo americano. Da anni si dedica a tempo pieno alla causa dei ghiacciai morenti in Tibet con la sua organizzazione Glacier Research Imaging Project. Il suo alleato di fatto è un italiano che lo precedette cent’anni fa, il padre nobile della fotografia alpina, Vittorio Sella. Dal dialogo ideale tra Breashears e Sella è nata questa operazione senza precedenti: il raffronto sistematico tra i ghiacciai dell’Himalaya come sono oggi e come erano all’inizio del Novecento.
Incontro Breashears al suo ritorno a New York dopo una delicata missione in Cina. È andato a raccogliere fondi e a negoziare con le autorità, per rendere possibile una tournée dell’esposizione Rivers of Ice a Pechino, Shanghai e Shenzhen. «Il cambiamento climatico» mi dice «è un tema scottante e controverso nel mondo intero. Sappiamo quanto tempo è stato speso per rintuzzare gli attacchi dei negazionisti. Io non voglio entrare in contese politiche, mi limito a usare la forza delle immagini. L’impatto di queste fotografie è chiaro, non c’è bisogno di aggiungere un sovrappiù di polemica. L’acqua che scorre nelle pianure più popolose del pianeta è minacciata, i fiumi da cui dipende la sopravvivenza di 2 miliardi di persone oggi corrono un pericolo mortale. La spiegazione è tutta in queste foto.»
Breashears ha lasciato la sua impronta sulle vette più inaccessibili del pianeta. Primo americano a espugnare per due volte l’Everest, ci è tornato per un totale di otto volte e ha anche realizzato la prima diretta televisiva della storia da quella cima. La passione congiunta per l’alpinismo e per la fotografia ne ha fatto un’autorità in campo cinematografico. Ha vinto quattro Emmy Awards, il più importante per il documentario Everest, girato con la tecnica Imax. C’è la sua mano invisibile anche dietro alcuni grandi film commerciali: fu lui a guidare gli scalatori del film Cliffhanger con Sylvester Stallone e Sette anni in Tibet con Brad Pitt (sulla vita del Dalai Lama da giovane). Ha vissuto in presa diretta la più grande tragedia dell’alpinismo contemporaneo: interruppe le riprese del documentario Everest per partire in soccorso alla spedizione dove morirono otto dei più grandi scalatori mondiali nel 1996.
Ma a un certo punto della sua vita alpinismo e cinema non gli sono bastati. «Ho conosciuto» dice Breashears «il grande alpinista inglese Sir Edmund Hillary e mi è rimasta scolpita una sua frase: “Ricordati che nella vita devi riuscire a fare qualcosa di più importante che scalare montagne”. Lui ci è riuscito, nel Nepal lo ricordano non come rocciatore ma per gli ospedali che ha costruito.» Per Breashears l’occasione si presentò nel 2007, quando la rete tv americana Pbs gli chiese un servizio sull’impatto del cambiamento climatico nell’Himalaya. Una sfida doppiamente difficile sul piano tecnico. Da un lato perché occorreva restituire nelle immagini la profondità, lo spessore volumetrico di ghiacciai che si trovano in luoghi inaccessibili. D’altro lato era indispensabile trovare qualche traccia del passato dei ghiacciai, visibile e documentabile, comprensibile anche per un vasto pubblico. Per Breashears la scoperta delle fotografie custodite a Biella dalla Fondazione Sella è stata una svolta. In quell’archivio del primo Novecento c’è l’elemento indispensabile, il punto di confronto. È una monumentale banca-dati sullo stato dei ghiacciai tibetani all’inizio del secolo scorso. Ripreso con una minuzia meravigliosa, da quello che Breashears definisce «un artista-scienziato», ricco di sensibilità estetica, capace di una tenacia maniacale per raggiungere le postazioni più impervie da cui scattare foto «impossibili». Nel gioco di dissolvenza delle immagini che accoglie i visitatori dell’Asia Society, una grande distesa bianca immortalata da Sella lascia il posto a un’immagine di Breashears dove il candore delle nevi eterne si è rattrappito in altura, e dietro la sua via di fuga ha lasciato una lunga scia nera, una vallata di pietre e terra nuda che sembra una cicatrice oscena.
L’Asia Society è uno dei più grandi centri americani di studi sull’Oriente. Non ha scelto per caso di attirare l’attenzione sui «fiumi di ghiaccio». Nell’esposizione sullo scioglimento delle nevi eterne c’è una chiave della questione tibetana: non solo il dramma ambientale, ma la tragedia politica. La morsa implacabile in cui la Repubblica Popolare stringe il popolo tibetano ha anche altre ragioni, che affondano le radici nella storia. Ma si è aggiunta una motivazione attuale, che si proietta nel terzo millennio e diventa la più importante di tutte. A 8000 metri d’altitudine, l’Himalaya è il serbatoio d’acqua da cui dipende la stabilità di intere nazioni: Cina e India, Pakistan e Bangladesh, Vietnam e Thailandia. Molti di questi Paesi sono alleati degli Stati Uniti, almeno sulla carta. Ma il corso dei loro fiumi lo decide – almeno in parte – chi sta a monte. Se non può prevenire le calamità ambientali, chi controlla le fonti può costruire dighe, trattenere per sé una parte dei fiumi, scaricare i prezzi maggiori sugli altri. Occupando le vaste alture del Tibet, la Cina ha il controllo sui giacimenti idrici più ricchi. L’America può solo guardare da lontano. Nelle guerre dell’acqua, guai ai vicini che osassero sfidare i padroni dei ghiacciai.

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È il nuovo mercato dove si lanciano ma...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Occidente estremo
  4. Introduzione
  5. American decadence
  6. La sfida di Pechino per l’egemonia
  7. Mai più come prima? Valori post-crisi
  8. La vita al tempo delle tecnologie estreme
  9. L’Oriente nel cuore dell’America
  10. Green Metropolis
  11. Addio ambientalismo per ricchi
  12. I limiti della potenza cinese
  13. Dove l’America domina ancora
  14. Epilogo in otto storie
  15. Copyright