Augusto
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Augusto

Il grande baro

  1. 228 pagine
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Augusto

Il grande baro

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Dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., un giovane spregiudicato si impone nell'arena politica di cui sarà protagonista per alcuni decenni: È Ottavio, passato alla storia con il nome di Caio Giulio Cesare Augusto. La biografia dell'imperatore più celebrato dell'antichità scritta da un giornalista e saggista di fama.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852016899
Argomento
Storia

Parte terza

L’OPPOSIZIONE NEGATA
La pace falsa

I

Nel circolo di Mecenate si insisteva sul concetto di Pax Augusta, utile a tutti. Di questo sodalizio, che legava tra loro le menti più raffinate dell’epoca, faceva parte Tiberio, ormai giovinetto. Il ragazzo si dedicava agli studi di oratoria latina, di retorica greca e a quelli di diritto pubblico. Aveva per modello le elegie di Euforione di Calcide, poeta di difficile comprensione. Per le sue composizioni poetiche sceglieva temi di mitologia. Mecenate lo stimava grandemente, e lui poetava cercando di imitare il trasporto amoroso delle elegie di Cornelio Gallo e le alate metafore del lascivus Properzio in lode dell’amata Cinzia. Ma il suo stile era tortuoso. Ironicamente Cicerone lo aveva inserito fra i cantores Euphorionis, come chiamava gli imitatori del poeta di Calcide.
Augusto si prendeva gioco del figliastro per il suo gusto arcaicizzante, per l’uso di espressioni desuete, così come punzecchiava Mecenate rimproverandone gli amici di ornare la loro scrittura con «ricciolini profumati». Non mancava di colpire direttamente il suo ministro; gli si rivolgeva chiamandolo «miele delle genti, avorio di Etruria, divinità di Arezzo, diamante prezioso, raffinato come una cortigiana». L’elegia era la forma d’espressione preferita, sebbene Augusto arricciasse il naso. L’amore era fra i temi centrali delle composizioni poetiche. «Omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori», se tutto vince l’Amore, noi pure siamo vinti dall’Amore, scrive Virgilio nell’egloga a Cornelio Gallo.
Se le armi erano deposte a Roma, bisognava pur ancora guerreggiare in regioni alla periferia dell’impero, come la Gallia e la Spagna, dove Augusto si recò a sedare le rivolte di quei popoli bellicosi che rendevano fragile il dominio romano. La tensione a ovest era provocata dall’aggressività della tribù gallica dei salassi. Contro questi indocili montanari delle Alpi Cozie il principe scatenò la spietatezza di Terenzio Varrone Murena che per domarli impiegò due anni, e alla fine ne vendette ottomila come schiavi al mercato di Eporedia (Ivrea), o più sbrigativamente ne sterminò molti altri gettando le basi per la fondazione della colonia di Augusta Praetoria (Aosta), una fortezza altresì ornata da un greve e marmoreo arco di trionfo. Augusto rendeva omaggio a Varrone e a tutti i capitani che avevano fatto grande Roma e ai quali era stato tributato un trionfo. Ce n’era l’eco in Orazio, in un’ode che subito si diffuse nei circoli culturali dell’Urbe. Per ricordare quegli eroi il principe fece elevare nel Foro intitolato al suo nome statue e monumenti in loro onore. Orazio risaliva nel ricordo a duecento anni prima di Cristo quando Lucio Emilio Paolo sull’Ofanto a Canne, contro il «soverchiante furore» dei soldati di Annibale, cadde sul campo, grande anima, «animae magnae prodigus».
Non soltanto per rendere militarmente più sicuro il dominio romano, ma anche per renderlo più solido economicamente, il principe si spingeva con gli eserciti in quelle contrade. Egli andava alla ricerca dell’oro e di altri metalli di cui i salassi, e poi gli asturi e i cantabri, erano ricchi. Generose erano le loro miniere d’oro, e quell’oro sarebbe potuto servire a riordinare le finanze dello Stato sconvolte dalle guerre civili, ma anche per locupletare Livia cui non mancò di assegnare una delle più generose cave aurifere. Seguiva comunque con cura le vicende finanziarie dello Stato, le entrate e le uscite che apparivano in una sorta di breviarium totius imperii da lui voluto.
Nei rari momenti in cui la guerra languiva Augusto volgeva il pensiero a Virgilio e all’opera, l’Eneide, che il poeta stava scrivendo in suo onore e a sua esaltazione. Il principe, ansioso di leggerne qualche verso, sollecitava l’autore a presentargliene un’anticipazione. Alle trepidanti lettere di Augusto, il poeta umilmente rispondeva scusandosi di non poter esaudire la richiesta essendo assai impegnato nelle gravose ricerche cui si era sottoposto per saldare fra loro la Roma di Romolo e di Augusto al mito di Enea come progenitore dei romani. Augusto doveva apparire come il continuatore di un’antica missione, e quindi come uno strumento del destino. Virgilio avrebbe così spiegato al mondo l’arcano dei fati, «fatorum arcana».
Si discuteva sulla figura di Enea, e si sollevavano dubbi. Era un eroe sacro o profano? Virgilio gli aveva dedicato alcuni versi che da soli davano un’idea di quanto il personaggio fosse raffinato e sublime. Certamente si credeva che il progenitore fosse arrivato sulle coste italiche preceduto da fama di giovane molle ed effeminato. Difatti un re di nome Jarba, cui Enea aveva sottratto in Cartagine la bella Didone, aveva detto, con evidenti intenzioni offensive, che quel miserabile profugo troiano era un secondo Paride avendo anche lui il vizio di rapire le donne di altri. Poi Enea, sospinto dal fato sulle rive del Tevere, era venuto alle mani con un altro re (Turno, capo dei rutuli) al quale, come in precedenti occasioni e secondo il solito, aveva portato via la ragazza del cuore (Lavinia). Fu Turno, prima della singolar tenzone che purtroppo doveva concludersi con la sua morte, a dileggiare la leziosaggine di Enea.
Soprattutto su questo aspetto discutevano i romani, ricordando come l’ardeatino, nel rivolgersi alla propria lancia, diceva: «Fa’ che io abbatta il suo corpo e con forte mano spezzi e frantumi la corazza di questo effeminato frigio [“semiviri Phrygis”]: voglio insozzare nella polvere i capelli stillanti di mirra che Enea arriccia col ferro arroventato», «crinis vibratos calido ferro murraque madentis». Nonostante i disagi dello sfollamento dalle arse rovine di Troia, lui giocava dunque con la sua fluente chioma. Usava il calamistro, che consisteva in un tondino di ferro scanalato intorno al quale si faceva aderire, come una tenaglia, un altro pezzo di ferro ma di forma cilindrica. La mirra, cioè l’unguento per tenere morbidi i capelli e renderli lucenti, era il succo odoroso che nei paesi dell’Oriente si ricavava da una pianta aromatica il cui tronco secondo la leggenda aveva generato addirittura il vago Adone. Ma i molli frigi vinsero sui forti latini perché Enea era sovrastato da un destino di civiltà.
Nella guerra contro gli abietti e barbari cantabri, il principe si fece accompagnare nell’anno 25 dal figliastro Tiberio, appena sedicenne, il quale già in quella occasione poté rivelare spiccate doti di soldato, tanto da essere nominato tribuno. Augusto, che durante l’aspra campagna si era gravemente ammalato, volle accanto a sé un altro valoroso giovane, il nipote Marco Claudio Marcello, figlio di sua sorella Ottavia e coetaneo di Tiberio. Marcello – discendente del grande Marcello, «la spada di Roma» che aveva respinto Annibale – gli era anche genero per avergli dato in sposa la figlia Giulia, appena quattordicenne, avuta da Scribonia. Augusto desiderava che entrambi cominciassero a vivere le loro prime esperienze militari, ma era a tutti evidente come le sue preferenze andassero al nipote-genero Marcello, che aveva perfino ammesso nel suo consilium, e non al figliastro Tiberio. Aveva già testimoniato a Marcello un segno di predilezione in occasione dei festeggiamenti che gli erano stati tributati per il trionfo di Azio. Durante la sfilata verso il Campidoglio ambedue i ragazzi guidavano la quadriga del trionfatore. Marcello era però al posto d’onore, sul cavallo esterno di destra, mentre Tiberio era sul cavallo interno di sinistra.
In Spagna i due ragazzi avevano in realtà più guardato che agito; avevano imparato sul campo i primi rudimenti dell’arte bellica, ed era quello l’unico modo per addestrarsi alla guerra poiché non esistevano vere e proprie scuole militari. Avevano anche organizzato giochi per i soldati negli accampamenti e soprattutto sofferto i disagi delle lunghe marce. Ma furono di grande conforto per Augusto che si era di nuovo ammalato gravemente, di reumatismi, tanto da non poter lasciare per più settimane la tenda, nel castrum di Tarragona. Le legioni romane affrontarono, sconfissero e domarono, ma per breve tempo, le genti di quelle zone montuose, i cantabri e gli asturi, che erano arretrate e dedite ai saccheggi, alle aggressioni, ai delitti.
Assaliti da terra e dal mare, quei popoli non furono in grado di opporre durevole resistenza, e le legioni occupatrici, nel dare un’ulteriore prova della loro forza, imposero nomi romani a quelle terre remote. Tuttavia fra le montagne non aveva termine un’aspra guerriglia che costringeva gli occupanti a inviare sempre nuove forze devastatrici. La guerriglia riscuoteva qualche successo anche a causa del continuo serpeggiare di movimenti rivoltosi nelle file delle legioni romane. Augusto ordinò ad Agrippa di impartire severe punizioni. Fece inoltre nutrire esclusivamente d’orzo per più giorni i soldati più indisciplinati e ne costrinse altri a stare molte ore ritti in piedi.
Per le sue imprese nel Nord della Spagna, il principe fu paragonato a Ercole che in Iberia aveva lottato e innalzato le mitiche colonne. L’iperbolico raffronto era di Orazio che in un suo carme si sdilinquiva per il ritorno a Roma di Augusto victor, vittorioso, e ornato con l’alloro dei lidi ispani. Grazie a quel ritorno Orazio si sentiva nuovamente tranquillo nell’Urbe; quel «giorno festoso» lo scioglieva da «ogni affanno»; non avrebbe più temuto «né tumulti né violenze fino a quando Cesare Augusto fosse vissuto». Pura propaganda. E difatti la propaganda augustea tralasciò di dare rilievo alle malattie che avevano colpito il principe e che spesso lo avevano costretto a non partecipare agli scontri armati. Le sue condizioni di salute tornarono perfino ad aggravarsi. Nel 23 peggiorarono al punto da far temere una tragica soluzione. Debole e debilitato dovette trasferire i suoi poteri per l’intera durata della malattia ai più vicini collaboratori, e ad Agrippa cedette il sigillo anulare. Quarantenne, Augusto aveva dovuto porre un freno ai suoi impegni infiniti, princeps senatus, console, proconsole, generale, e a tutta una lunga serie di incombenze usualmente punteggiate da banchetti e da cene pubbliche e private tanto numerose da devastargli i reni e il fegato.
Al ritorno dalla spedizione spagnola, il principe confermò inequivocabilmente la sua particolare preferenza per Marcello al quale aveva conferito, ragazzino, l’edilità e il pontificato. Augusto non aveva figli maschi, e tuttavia alla sua morte desiderava fortemente di lasciare il potere nelle mani di un familiare, suo successore perché appartenente al proprio sangue. Questa era la prima mossa verso una monarchia ereditaria, una prospettiva resa altresì possibile dalla ereditarietà della auctoritas tribunicia di cui egli si era scientemente fornito. Intendeva, e lo sancì in un editto, conferire allo Stato una forma permanente di sicurezza, sulle basi da lui stesso gettate.
Auctoritas e charisma erano i due aspetti basilari della sua personalità. Charisma eguale a dono di grazia, e difatti lui si faceva ubbidire dalle genti per innate e imperscrutabili qualità superiori. Bastava la sua semplice presenza per imporre qualsiasi cosa senza discussione. Un suo grande amico, Nonio Asprenate, subiva un processo per avvelenamento. Era accusato dall’oratore repubblicano Cassio Severo e rischiava la condanna. Senonché il principe, apparso in aula, andò a sedersi accanto all’amico senza pronunciare nemmeno una parola. Ciò fu sufficiente per l’assoluzione.
Augusto, quando era ancora in attesa che la figlia raggiungesse un’età minima e decente da marito, si era adattato a favorire la candidatura dell’uomo a lui in quel momento più vicino, Agrippa. Le improvvise, per quanto non impreviste nozze della quattordicenne Giulia con il sedicenne Marcello, fecero naturalmente del giovinetto l’erede presuntivo al trono. E Agrippa se ne offese. Entrò in conflitto con Marcello non ritenendo che il ragazzo meritasse tante attenzioni da parte del capo. Affrontò Augusto, ma non ebbe da lui soddisfazione. Ormai Agrippa sapeva con precisione di essere fuori gioco in quanto alla successione. Aveva ben poco da scegliere, e allora preferì partire per l’Oriente. Il principe gli aveva infatti ordinato di tenere sotto controllo le agitate e remote province orientali. E lui obbedì senza fiatare. Più cupo e imbronciato che mai stabilì il quartier generale a Mitilene sull’isola di Lesbo, dove si adattò a vivere disperando di poter vedere risplendere la sua stella. Tale suo stato d’animo di frustrazione gli impediva di occuparsi delle province a lui sottoposte.
Augusto pensava di aver tutto sistemato in tema di successione, ma non aveva fatto i conti con l’imprevedibile. Marcello era ancora giovanissimo e aveva già avuto la carica di tribuno. I poeti, che coglievano la predilezione del principe per lui, ne facevano l’oggetto dei loro carmi. Il greco Crinagora osserva con compiacimento che la patria aveva fatto partire per la Spagna un fanciullo, e ora se lo vedeva tornare uomo; con enfasi Orazio scrive che la fama di Marcello cresceva naturalmente simile a un albero, per la maggior gloria dell’astro lucente dei Giuli.

II

Con grande entusiasmo popolare venne accolto il nuovo ritorno di Augusto vincitore a Roma. Il suo nome fu incluso per decreto senatoriale nel Carmen Saliare. I sacerdoti salii – con indosso il costume di guerra italico, corazza, scudo e spada – attraversarono la città in processione danzando, saltando, battendo l’un l’altro gli scudi, ed esaltando le glorie militari, politiche e civili del principe. In quei giorni gli si avvicinavano rappresentanti della nobilitas e cioè antichi avversari conservatori, ai quali proponeva un compromesso. Accettarono le sue offerte di collaborazione Cneo Calpurnio Pisone, che divenne console in luogo di Varrone Murena, e Lucio Sestio Quirinale che era stato intimo di Marco Bruto, il cesaricida proscritto, e che successe allo stesso Augusto nell’alta magistratura consolare cui il principe teatralmente rinunciava, dopo la congiura ordita contro di lui da Terenzio Varrone che non tollerava che Augusto fosse console per l’undicesima volta. Augusto, mettendo a punto l’istituzione del principato con la volontà di estendere oltre misura i suoi già ampi poteri, riassunse in sé due supreme potestà, una di carattere militare – l’imperium proconsulare maius et infinitum – e una di carattere civile – la tribunicia potestas a vita, «ad tuendam plebem», a difesa del popolo, come lui mentendo diceva, sapendo di mentire. Ciò avveniva il 1° luglio dell’anno 23. L’evento provocava una svolta definitiva nella vita dello Stato, con la scomparsa senza appello della repubblica, pur continuando lui a proclamarsi repubblicano.
In forza dell’imperium maius Augusto aveva agli ordini tutte le milizie, quelle residenti in Italia e quelle provinciali, mentre la tribunicia potestas ne faceva un dittatore senza che egli ne avesse l’aria. Tale potestas sovrastava ogni altra autorità, e gli conferiva un’infinità di poteri: il diritto di veto da opporre al Senato, di cui era infatti il princeps, alle altre assemblee e a ogni magistrato; il diritto dei tribuni; il diritto di costringere chiunque con la forza a fare qualunque cosa; il diritto di convocare e presiedere qualsiasi tipo di assemblea. Poteva a piacimento dichiarare la guerra, fare la pace, sottoscrivere alleanze e trattati con altri Stati. Il tutto era confortato dalla sacrosanctitas, una totale inviolabilità personale in perpetuo. Il commento di Tacito è in proposito particolarmente severo. Il grande storico latino scrive che fu lo stesso Augusto a scegliere il termine di potestà tribunizia per indicare la suprema magistratura dello Stato, per non incorrere nelle figure non amate dai romani, come quelle di re o di dittatore, ma per indicare egualmente in sé un capo assoluto e indiscusso.
Augusto si allontanava da Roma per altri tre anni – dal 22 al 19 – accampandosi in Oriente, a Samo. Con l’intento di andare incontro alle esigenze dei veterani, per farne dei piccoli proprietari e legare a sé masse sempre più vaste, aveva stanziato e ancora stanziava colonie di soldati, lo ricordava lui stesso, in Africa, nelle province di Sicilia, Macedonia, Spagna, Acaia, Asia, Siria, Gallia Narbonese, Pisidia; ne dedusse ventotto anche in Italia che divennero tra le più popolose e fiorenti. In ognuna di esse egli era celebrato come l’amato difensore e il venerato patrono. Del resto ai suoi veterani colà dislocati elargiva sesterzi su sesterzi che egli affermava di trarre dai suoi bottini di guerra. Beneficiò centoventimila soldati, ma non dimenticava di assistere la plebe romana alla quale, oltre il denaro, distribuiva razioni di grano da lui privatamente acquistato. Cospicui donativi destinava infine ai soldati della sua cohors praetoria, un corpo privato costituito da armigeri germani.
Tornava a Roma, e in suo onore il Senato aveva consacrato l’altare della Fortuna Reduce. Tutto aveva un senso. L’altare infatti sorgeva accanto agli antichi templi dell’Onore e della Virtù situati presso la Porta Capena da dove lui era entrato in città percorrendo la via Appia. Ricorreva il 12 ottobre, e quel giorno festoso fu chiamato Augustalia. Alle Vestali, sacerdotesse del focolare domestico e della salute dello Stato, fu ordinato di celebrare annualmente ogni 12 ottobre un sacrificio di ringraziamento per aver Augusto recuperato le insegne che i parti ribelli avevano strappato alle legioni di Crasso.
Durante quegli anni l’Urbe aveva vissuto in forte agitazione. Alla congiura di Marco Emilio Lepido del 30 a.C. era seguita l’altra, a opera di Terenzio Varrone Murena e di Fannio Cepione. Poteva non sorprendere che Cepione, tenace repubblicano, volesse attentare alla vita di Augusto, ma che un simile piano albergasse anche in Varrone, da poco non più console, fu motivo di stupore per il semplice fatto che egli, oltre a essere il fratello di Terenzia, l’incantevole e irresistibile moglie di Mecenate, era un fedele seguace del principe. Nessuno poté salvare dalla morte quei cospiratori di tradizione democratica, anche perché gli attentati ad Augusto – rivelatori dell’esistenza d’una forte opposizione repubblicana – venivano ormai considerati parricidi, così come ogni delitto contro la sua persona si traduceva in un delitto contro la maestà del popolo. Venne per di più calata su queste vicende una cortina di mistero e in particolare si impose su Varrone il segreto di Stato essendo egli un consolare.
Augusto sapeva ben difendere se stesso con un accorto uso delle leve statali e con l’ausilio della propaganda di regime, ma i complotti si ripetevano. Una nuova congiura fu opera di un candidato al consolato del 19, il pretore Egnazio Rufo, il quale pretendeva di accedere alla suprema magistratura pur capeggiando vasti torbidi sociali. Il console in carica, il conservatore Caio Senzio Saturnino, gli oppose un fermo diniego, svelando l’esistenza d’una cospirazione che per prima cosa aveva lo scopo di assassinare il principe non appena fosse tornato dall’Oriente. La congiura si era estesa al punto di sconfinare in una vera e propria rivolta di schiavi, ma la risolutezza di Saturnino condusse alla condanna di Rufo il quale finì giustiziato per lesa maestà insieme a tutti i suoi accoliti. Inizialmente, per occultare le sue mosse rivoluzionarie, Egnazio era ricorso a uno stratagemma. Aveva cioè arruolato un discreto numero di schiavi affermando che di quella sua volenterosa truppa si sarebbe servito per spegnere gli incendi che troppo spesso divampavano nell’Urbe. Ma in realtà, come scoprì Saturnino, era lui che voleva incendiare politicamente Roma ai danni dell’aristocrazia.
Il 19 a.C. fu l’anno in cui Augusto perse Virgilio, il suo eccelso cantore. La morte colse il poeta a Brindisi il 22 settembre, a cinquantun anni. Con questa scomparsa il circolo di Mecenate s’impoveriva paurosamente, sebbene fosse ancora vivo Orazio. Si era anche attutita la tensione morale che aveva caratterizzato la costruzione del mondo augusteo. Il principe, come se presentisse la perdita, aveva voluto accanto a sé l’amico mentre tornava dalla sua spedizione in Oriente. Virgilio si trovava ad Atene, e Augusto gli chiese di concludere insieme il viaggio verso Roma. Si faceva leggere passi interi dell’Eneide, così come molti anni prima, compiuta la vittoriosa impresa di Azio, aveva amato ascoltare da lui le Georgiche per quattro giorni, uno dietro l’altro, negli ozi di Atella in Campania, dove il poeta viveva in frugale solitudine. La lettura affaticava molto Virgilio, timido di carattere e assai gracile fisicamente, minato com’era dalla tubercolosi. Il principe non si limitava ad ascoltare, ma interveniva sul poeta con consigli e con qualche più pressante richiesta, come per esempio era successo nel caso di Cornelio Gallo. Nei confronti di questo ambizioso generale, morto suicida, egli non nutriva più che sentimenti d’odio, e arrivò al punto di imporre a Virgilio di sopprimere i versi conclusivi delle Georgiche in cui se ne tesseva l’elogio. Virgilio, morendo, aveva implorato di dare alle fiamme l’Eneide considerandola un’opera incompiuta. Ma Augusto ne trasgredì le ultime volontà, e impose agli esecutori testamentari Vario Rufo e Plozio Tucca di salvare quei versi e di renderli pubblici, certo che lo avrebbero glorificato in saecula saeculorum.
I...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Frontespizio
  4. Indice
  5. Marmi e cartone
  6. Parte prima - Un uomo di ghiaccio. La guerra vera
  7. Parte seconda - Finzione e realtà. L’impero occulto
  8. Parte terza - L’opposizione negata. La pace falsa
  9. Itinerario bibliografico
  10. Indice dei nomi