Pompei
  1. 294 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Pompei, 79 d.C. Mancano solo due giorni all'immensa eruzione del Vesuvio. Due giorni alla catastrofe che porterà alla morte, in una ventina di ore, una città magnifica. È un'afosa settimana di fine agosto. Lungo la costa i ricchi oziano nelle ville di lusso, nelle piscine, alle terme. Attorno a loro, invisibili, si muovono gli schiavi costretti a subire l'ingiustizia della propria condizione. La flotta navale più grande del mondo staziona pacifica al porto di Miseno, nello splendido golfo di Napoli.
In questo clima di calma apparente, solo un uomo è preoccupato: l'ingegnere Marco Attilio, da poco nominato responsabile dell'Aqua Augusta, l'imponente acquedotto dell'Impero Romano che rifornisce 250.000 persone in nove città del golfo. Giunto in tutta fretta da Roma dopo che il suo predecessore è scomparso misteriosamente, Attilio si rende conto che le sorgenti d'acqua, per la prima volta da tempo immemorabile, vanno di colpo esaurendosi e si mescolano allo zolfo. Grande conoscitore del bene più prezioso, l' aquarius - l'ingegnere delle acque - è convinto che a nord di Pompei, sulle pendici del Vesuvio, qualcosa di grave sia successo nel tratto principale dell'acquedotto.
Non c'è tempo da perdere: Attilio, coraggioso e incorruttibile, promette a Plinio, famoso erudito e comandante della flotta imperiale, che risolverà la crisi prima che i cittadini si ribellino. È conto alla rovescia: ora dopo ora, minuto dopo minuto, alla testa di un manipolo di uomini, Attilio si dirige al centro di un incubo lasciandosi alle spalle, nell'ultimo giorno di Pompei, un'umanità crudele, corrotta e derelitta. Scoprirà che ci sono forze che persino il più potente impero del mondo non è in grado di controllare.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Pompei di Robert Harris, Renato Pera, Renato Pera in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Literature e Historical Fiction. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852015366
Robert Harris

POMPEI

Traduzione di Renato Pera
Mondadori

Pompei

A Gill

Nota dell’Autore
I Romani dividevano il giorno in dodici ore. La prima, Hora prima, cominciava all’alba. L’ultima, Hora duodecima, al tramonto.
La notte era divisa in otto veglie: Vespera, Prima fax, Concubia e Intempesta prima della mezzanotte; Inclinatio, Gallicinium, Conticinium e Diluculum dopo la mezzanotte.
I giorni della settimana erano Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno e Sole.
Pompei si svolge nell’arco di quattro giorni.
Nella quarta settimana di agosto del 79 d.C., il sole spuntava sul golfo di Napoli alle ore 6,20 circa.

La superiorità americana in fatto di scienza, economia, industria, politica, affari, medicina, tecnica, vita sociale, giustizia sociale e, naturalmente, potere militare, era totale e indiscutibile. Perfino gli europei afflitti dagli spasmi dello sciovinismo ferito si inchinavano di fronte all’esempio luminoso che gli Stati Uniti costituivano per il mondo all’inizio del Terzo Millennio.
TOM WOLFE, La bestia umana
Dovunque ruoti la volta del cielo, non c’è al mondo terra che possa vantare i tesori della corona della Natura come l’Italia, sovrana e seconda madre del mondo, con i suoi uomini e le sue donne, i suoi generali e soldati, i suoi schiavi, la sua preminenza in arti e mestieri, la sua abbondanza di brillanti talenti…
PLINIO, Naturalis historia
Come non rispettare un sistema di approvvigionamento idrico che, nel I secolo dopo Cristo, forniva alla città di Roma un quantitativo d’acqua superiore a quello sul quale poteva contare nel 1985 la città di New York?
A. TREVOR HODGE, Roman Aqueducts and Water Supply

MARTE
22 agosto
Due giorni prima dell’eruzione

Conticinium
[ore 4,21]

È stato stabilito uno stretto rapporto fra la magnitudo delle eruzioni e la durata dei precedenti intervalli di riposo. Quasi tutte le grandi eruzioni storiche hanno riguardato vulcani rimasti in sonno per secoli.
JACQUES-MARIE BARDINTZEFF, ALEXANDER R. MCBIRNEY ,
Volcanology (II ed.)
Si mossero dall’acquedotto quando mancavano due ore all’alba, salendo al chiaro di luna lungo le colline affacciate sul porto. Erano sei uomini in fila indiana, con in testa l’ingegnere delle acque. Li aveva buttati giù dal letto lui stesso, quando avevano ancora gli arti un po’ anchilosati, gli occhi velati dal sonno e l’espressione imbronciata; ora li udiva borbottare e lamentarsi alle sue spalle, ma non così a bassa voce come credevano, nell’aria calda e immobile.
«Un lavoro da stupidi» bofonchiò qualcuno.
«I ragazzi non dovrebbero staccarsi dai libri» disse un altro.
Lui allungò il passo. Che blaterino pure quanto vogliono, pensò.
Cominciava già a sentir aumentare il caldo del mattino, annuncio di un altro giorno senza pioggia. Era più giovane di molti di quella squadra e più basso di tutti, con un fisico compatto e muscoloso, i capelli castani tagliati corti. Gli arnesi da lavoro che portava in spalla, una pesante ascia con la testa di bronzo e una pala di legno, gli sfregavano sul collo abbronzato. Ma lui si costrinse ugualmente ad allungare il più possibile le gambe nude, saltando veloce da un punto d’appoggio all’altro fin quando, ormai a una certa altitudine rispetto a Miseno, arrivò a una biforcazione del sentiero. Allora posò a terra gli arnesi e attese che gli altri lo raggiungessero.
Si passò sugli occhi la manica della tunica per asciugarsi il sudore. Che cieli scintillanti e febbrili avevano lì al Sud! Nonostante l’alba fosse ormai vicina, un grande emisfero di stelle si stendeva fino all’orizzonte. Riusciva a vedere le corna della costellazione del Toro, oltre la cinta e la spada del Cacciatore; lì c’era Saturno e anche l’Orsa, e la costellazione chiamata Vendemmiatore che sorgeva sempre per Cesare il ventiduesimo giorno di agosto, dopo le feste dei Vinalia, e segnava l’inizio della vendemmia. L’indomani sera ci sarebbe stata luna piena. Sollevò la mano al cielo, con le dita tozze che risaltavano nere sullo sfondo delle costellazioni scintillanti, le allargò, le strinse a pugno, tornò ad allargarle, e per un attimo ebbe la sensazione di essere l’ombra, il nulla. La luce era invece la sostanza.
Dal porto gli giunse lo sciabordio di remi della guardia notturna che scivolava fra le triremi ormeggiate. All’altra estremità della baia occhieggiava la luce gialla intermittente delle lanterne di due barche da pesca. Un cane abbaiò e un altro gli rispose. E poi udì le voci dei manovali che lentamente salivano il sentiero alle sue spalle. Lo scabro accento locale di Corace il caposquadra – «Guarda il nostro nuovo aquarius che saluta le stelle con la manina!» – e gli schiavi e i liberi, accomunati almeno per una volta dal risentimento, con il fiatone e le loro risatine maliziose.
L’ingegnere abbassò la mano. «Se non altro, con un cielo così non abbiamo bisogno di torce» disse. All’improvviso sentì che le forze gli tornavano e si chinò a prendere da terra gli arnesi, caricandoseli nuovamente sulla spalla. «Dobbiamo rimetterci in movimento.» Poi scrutò l’oscurità davanti a sé. Un sentiero li avrebbe portati verso occidente, aggirando la base navale, l’altro invece verso nord in direzione di Baia, un centro di villeggiatura sul mare. «Credo sia qui che dobbiamo deviare.»
«Lui crede» ripeté Corace in tono di scherno.
L’ingegnere aveva deciso il giorno prima che il modo migliore di trattare il caposquadra era quello di ignorarlo. Senza una parola, quindi, voltò la schiena al mare e alle stelle, cominciando a salire lungo la massa scura della collina. Cos’altro significava possedere le doti del comando, tutto sommato, se non scegliere alla cieca una strada piuttosto che un’altra fingendo fiduciosamente che quella decisione fosse figlia della ragione?
In quel punto il sentiero era più ripido. L’ingegnere dovette arrampicarsi obliquamente, usando a volte la mano libera per tirarsi su; e quando ogni tanto un piede gli scivolava, provocava un piccolo smottamento di sassolini che nell’oscurità rimbalzavano lungo il pendio. I locali guardavano quelle scure colline, arse dagli incendi estivi, nella convinzione che fossero asciutte come il deserto, ma l’ingegnere sapeva che le cose non stavano così. Ciò nonostante, però, cominciò a sentire vacillare la propria sicurezza e cercò di ricordare come gli era apparso il sentiero il giorno prima, alla luce abbacinante del pomeriggio, quando aveva fatto una piccola ricognizione. Il sentiero sinuoso, appena sufficiente al passaggio di un mulo. Le ampie macchie di erba bruciacchiata. E poi, in un tratto pianeggiante, chiazze di verde pallido, quei segni di vita rappresentati dai germogli d’edera che si protendevano verso la massicciata.
Superata una leggera salita si fermò e prese a girare lentamente su se stesso. O gli occhi si erano abituati all’oscurità oppure l’alba era vicina, e in tal caso loro avevano quasi esaurito il tempo a disposizione. Gli uomini si erano fermati alle sue spalle, ne udiva il respiro ansante. Aveva fornito loro un’altra storia da raccontare al ritorno a Miseno, quella del giovane aquarius che li aveva buttati giù dal letto facendoli arrampicare sulle colline in piena notte solo per un “lavoro da stupidi”. Si sentì in bocca un gusto di cenere.
«Ci siamo smarriti, bel giovane?»
Ancora la voce di Corace che lo prendeva in giro.
Commise l’errore di abboccare all’amo: «Sto cercando un masso».
Stavolta non tentarono nemmeno di mettere la sordina alle loro risate.
«Corre a vuoto come un sorcio nell’orinale!»
«Lo so che è qui, da qualche parte. Gli ho fatto sopra un segno con il gesso.»
Altre risate. Lui guardò gli uomini, facendo una specie di carrellata: Corace, tarchiato e dalle spalle ampie; Beccone lo stuccatore, con il suo enorme naso; il paffuto Musa, specializzato nell’impilare mattoni; e i due schiavi, Polite e Corvino. Anche le loro sagome indistinte sembravano prendersi gioco di lui.
«Ridete, ridete pure. Ma vi avverto: se non lo troviamo prima dell’alba, domani notte saremo di nuovo qui. Te compreso, Gavio Corace. La prossima volta, però, fai in modo di restare sobrio.»
Silenzio. Poi Corace sputò e fece mezzo passo avanti, mentre l’ingegnere si preparava ad affrontarlo. Da tre giorni, da quando l’ingegnere era arrivato a Miseno, l’animosità del caposquadra nei suoi confronti non aveva fatto che aumentare, e Corace non perdeva occasione di sminuire la sua autorità di fronte agli altri.
Se verremo alle mani vincerà lui, pensò l’ingegnere. Sono cinque contro uno, getteranno il mio corpo dalla scogliera e diranno che sono scivolato nell’oscurità. Ma come avrebbero preso a Roma la notizia della scomparsa di due ingegneri idraulici dell’acquedotto Augusto in meno di due settimane?
Per un lungo istante i due rimasero a fissarsi, a un passo l’uno dall’altro, così vicini che l’ingegnere riusciva a sentire il fiato puzzolente di vino del caposquadra. Poi uno degli uomini, Beccone, lanciò un grido e puntò il dito.
A malapena visibile alle spalle di Corace c’era un masso, sul quale era stata tracciata una grossa croce bianca.
Il nome dell’ingegnere era Attilio, Marco Attilio Primo per esteso, ma a lui bastava che lo chiamassero Attilio. Da tipo pratico qual era non gli andava di perdere tempo con quei bizzarri nomignoli per i quali andavano matti i suoi concittadini, come Lupo, Pantera, Bello: ma chi volevano prendere in giro? E poi, nella storia della sua professione non c’era nome più onorato di quello della gens Attilia, ingegneri idraulici da quattro generazioni. Il bisnonno, balestriere con la XII Legione “Fulminata”, era stato assegnato da Marco Vipsanio Agrippa ai lavori di costruzione dell’acquedotto Giulio. Il nonno aveva progettato l’Anio Novus, l’Aniene Nuovo. Il padre aveva portato a termine l’acquedotto Claudio facendolo arrivare fin sul colle dell’Esquilino, una serie di archi che si rincorrevano per quasi dodici chilometri. E, il giorno dell’inaugurazione, l’aveva in pratica steso come un tappeto d’argento davanti ai piedi dell’imperatore. E ora lui, a ventisette anni, era stato mandato al Sud, in Campania, per assumere la direzione dell’acquedotto Augusto.
Una dinastia fondata sull’acqua!
Sbirciò nell’oscurità. Era davvero bello l’acquedotto Augusto, una delle più imponenti opere d’ingegneria mai realizzate. Vederselo assegnato era stato un onore. Dall’altra parte della baia, alto tra i pini che ricoprivano gli Appennini, l’acquedotto catturava alle sorgenti l’acqua del Serino e la convogliava verso occidente, facendole attraversare sinuosi passaggi sotterranei, scavalcare crepacci grazie alle arcate sovrapposte, superare vallate grazie a enormi sifoni. Così, dalle fonti del Serino la massa d’acqua scendeva fino alle pianure campane, quindi aggirava l’estremità del Vesuvio, si spingeva a sud lungo la costa napoletana e finalmente arrivava al promontorio di Miseno e alla sua polverosa base navale, dopo aver percorso un centinaio di chilometri con un’inclinazione di soli cinque centimetri ogni cento metri. Era l’acquedotto più lungo del mondo, più lungo anche dei grandi acquedotti di Roma, e molto più complesso perché, mentre i suoi confratelli più a nord dissetavano soltanto una città, alla conduttura a serpentina dell’acquedotto Augusto – la matrice, come veniva chiamata – si approvvigionavano addirittura nove città del golfo di Napoli: Pompei anzitutto, al termine di un lungo raccordo, poi Nola, Acerra, Atella, Napoli, Pozzuoli, Cuma, Baia e infine Miseno.
Era proprio questo il problema, pensò l’ingegnere. Aveva troppo lavoro, quell’acquedotto. Roma poteva contare tutto sommato su più di sei acquedotti, e se uno per qualche motivo si bloccava gli altri provvedevano alla bisogna. Laggiù, invece, non si poteva fare affidamento su riserve d’acqua, soprattutto con quella siccità che si protraeva ormai da oltre due mesi. I pozzi che avevano fornito acqua per generazioni si erano trasformati in cunicoli pieni di polvere. I ruscelli si erano prosciugati. I letti dei fiumi erano diventati tratturi sui quali i contadini portavano i loro animali al mercato. Perfino l’acquedotto Augusto mostrava segni di esaurimento, e il livello del suo enorme bacino si abbassava ogni ora: per questo lui si trovava prima dell’alba sul fianco della collina, invece di essere a letto a dormire.
Dalla scarsella di pelle attaccata alla cintura Attilio estrasse un blocchetto liscio di cedro, che aveva sul fianco una scanalatura sulla quale poggiare il mento. Nel corso degli anni il legno era diventato sempre più lucido e levigato in conseguenza dello sfregamento con la pelle degli antenati dell’ingegnere. Si diceva che al bisnonno l’avesse dato come talismano Vitruvio, architetto del divino Augusto, e il vecchio aveva sostenuto che all’interno del blocco era racchiuso lo spirito di Nettuno, dio delle acque. Ma Attilio non aveva tempo per gli dèi, per i ragazzi con le ali ai piedi, per le donne a cavallo dei delfini, per quelle entità con la barba grigia che, in preda a uno scatto di nervi, scagliavano fulmini dalle cime delle montagne: erano storielle per bambini. La sua fede Attilio la riponeva nelle pietre e nell’acqua, oltre che in quel miracolo quotidiano che si realizzava mescolando due parti di calce spenta con cinque parti di pozzolana, la locale sabbia rossa, dando vita a una sostanza che si sarebbe rappresa sott’acqua diventando più salda e resistente della roccia.
Era comunque da idioti negare l’esistenza della fortuna, e se quel blocchetto di legno che gli Attili si tramandavano di padre in figlio avesse potuto portargli fortuna… Passò il dito sul contorno del blocchetto. L’avrebbe messo subito alla prova.
Aveva lasciato a Roma i papiri di Vitruvio, ma la cosa non aveva importanza perché il loro contenuto gli era stato inculcato fin da bambino, come agli altri ragazzi veniva fatto imparare Virgilio. Era ancora in grado di citare a memoria interi passaggi.
“Le seguenti cose soggette a crescita stanno a indicare la presenza d’acqua: giunchi snelli, salici selvatici, ontani, pure bacche, edera e altre piante del genere che non possono vivere di vita propria senza l’umidità…”
«Vieni qui, Corace» ordinò Attilio. «E anche Corvino. Tu, Beccone, prendi il palo e infilalo nel punto che ti indicherò. E voi due tenete gli occhi aperti.»
Corace gli lanciò un lungo sguardo passandogli davanti.
«Più tardi» gli disse Attilio. Il risentimento del caposquadra era tangibile come la puzza di vino del suo alito, ma avrebbero avuto tutto il tempo di regolare i conti una volta tornati a Miseno. Ora dovevano muoversi in fretta.
Un velo grigio filtrava fra le stelle, la luna era calata. Venticinque chilometri a est, al centro del golfo, cominciava a intravedersi la piramide alberata del Vesuvio, alle spalle del quale il sole sarebbe sorto.
“Ecco come cercare l’acqua: sdraiatevi a faccia in giù, prima dell’alba, nel punto in cui va effettuata la ricerca, e con il mento puntato al suolo guardatevi attorno. In tal modo riuscirete a non sollevare la linea del vostro orizzonte perché il mento sarà immobile…”
Attilio s’inginocchiò sull’erba bruciacchiata, poi si stese e allineò il blocchetto di legno alla croce tracciata sul masso, distante una cinquantina di passi. Quindi poggiò il mento sul blocchetto e allargò le braccia. Il terreno era ancora caldo dal giorno prima, particelle di cenere gli volteggiavano davanti al viso. Niente rugiada. Settantotto giorni senza pioggia. Il mondo bruciava. Al margine del suo campo visivo notò Corace che faceva un gesto osceno dando colpi di bacino: «Il nostro aquarius non ha moglie e cerca di farsi la Madre Terra!», poi, a destra, il Vesuvio si fece scuro e dal suo contorno filtrò all’improvviso una luce. Una lama di calore colpì la guancia di Attilio, che dovette sollevare una mano per proteggere il viso dal bagliore continuando a scrutare a occhi socchiusi la collina.
“Scavate nei punti in cui si vede l’umidità sollevarsi arricciata, perché un tale segno non può trovarsi in una località arida…”
O lo vedi subito o non lo vedi ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Pompei
  3. Copyright