Eroi normali
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Eroi normali

  1. 420 pagine
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Informazioni sul libro

Tutto quello che Stewart Dubinsky ha sempre saputo di suo padre è che nella Seconda guerra mondiale, partito per l'Europa, aveva salvato sua madre dal campo di concentramento. Uomo enigmatico e distante, l'ex soldato si era sempre rifiutato di parlare in famiglia della sua esperienza bellica. Ma, dopo la sua morte, Stewart trova un pacco di lettere indirizzate a una fidanzata di cui nessuno sapeva nulla. Leggendole scopre che suo padre era stato giudicato dalla Corte marziale per aver lasciato fuggire un ufficiale dell' OSS che avrebbe invece dovuto arrestare. Cosa si nascondeva dietro a un fatto così grave? Per scoprirlo Stewart dovrà scavare nel passato, riportando alla luce in tutta la loro violenza i terribili eventi di quegli anni e le scelte drammatiche che hanno sconvolto l'esistenza di quegli "eroi normali" che hanno combattuto nel più brutale dei conflitti. E la vicenda personale di Dubinsky - fatta di coraggio, tradimento e passione - diventa riflessione sulla brutalità della guerra.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852014536

QUARTA PARTE

13

Nuoto

Mio padre aveva imparato a nuotare da bambino a Lake Ellyn, un bacino artificiale a South End, costruito per impedire al Kindle River di esondare nelle stagioni più piovose. A quanto pare anche i suoi amavano l’acqua, perché esistono parecchie foto di tutti i componenti della famiglia, con quei ridicoli costumi interi dell’epoca, che sguazzano nel lago o ai Garfield Baths, un’enorme piscina coperta sempre affollatissima che era uno dei divertimenti preferiti delle famiglie operaie della Kindle County, finché il suo ruolo nella diffusione della polio portò alla chiusura negli anni Cinquanta.
Restavo sempre come ipnotizzato a guardare mio padre che nuotava. La sua grazia e l’allegria sbadata con cui spruzzava l’acqua non c’entravano niente con l’uomo che conoscevo sulla terraferma. E lo stesso valeva per il fisico che si evidenziava quando era in costume. Mio padre era abbastanza alto, più di uno e ottanta, e anche se non sembrava Mike Tyson era comunque piuttosto muscoloso. Ogni volta che vedevo quel corpo possente, di solito nascosto sotto la camicia e la cravatta che indossava fino al momento di andare a dormire, mi meravigliavo. Allora era così, dentro quegli abiti. E mi sentivo contemporaneamente rassicurato e sconcertato.
Poi, quando avevo quattordici anni, mio padre, che non era incline alle vanterie, ammise, su precisa domanda, che era stato il campione juniores della contea nei cento metri dorso. Anche a quei tempi ero famelico di qualunque notizia sul suo conto, e così un giorno, trovandomi all’Associazione sportiva del liceo per conto dell’“Argonauta”, il giornalino scolastico, decisi di guardare in archivio per vedere se trovavo il nome di mio padre.
E lo trovai. Più o meno. Il campione di dorso del 1933 non si chiamava David Dubin, bensì David Dubinsky. Sapevo benissimo, naturalmente, che spesso gli immigrati si americanizzavano il nome. I Cohen erano diventati Coles. I Wawzensky erano diventati Walters. Ma non mi piaceva affatto che lui avesse deciso di cambiarsi il nome subito prima di iniziare il college a Easton, la roccaforte dei gentili. Disconoscere il proprio passato era una squallida ipocrisia, peggio ancora se rappresentava una resa al felice crogiolo americano, che però emarginava tanti cittadini, specialmente quelli di pelle scura, che non si armonizzavano con la miscela. Quando scoprii che papà aveva convinto i suoi genitori a fare lo stesso, in modo che la sua nuova identità non fosse smentita, non potei fare a meno di chiedergliene conto.
Si difese come suo solito, con poche parole. “Mi sembrava più semplice” disse.
“Io non ho intenzione di nascondere le mie origini” ribattei. “A differenza di te, non me ne vergogno.” Questo era un colpo basso. A casa era stata mia madre a insistere perché seguissimo i riti e l’educazione ebraica. Il venerdì sera mangiavamo il pasto del Sabbath, frequentavamo la scuola ebraica, e a modo suo la mamma seguiva anche la cucina kosher, per cui il traife di ogni tipo, compresi i panini al prosciutto che le piacevano tanto, poteva essere mangiato, ma solo se servito su piatti di carta e conservato su un unico ripiano del frigo, riservato a questo scopo. Papà non mi era mai sembrato un esperto nel ramo, probabilmente perché a casa sua non aveva ricevuto alcun tipo di educazione religiosa; comunque, non avevo mai dubitato che la mamma avesse il suo pieno assenso. Ciò nonostante, durante il mio ultimo anno al college, nel 1970, feci uno scherzetto a mio padre e cambiai di nuovo nome. Da allora tutti mi conoscono come Stewart Dubinsky.
La natura, però, sa sempre come pareggiare i conti. La figlia numero 1, fin da quando aveva sei anni, non ha fatto che ripetermi che detestava “Dubinsky” (che per i rognosetti di prima elementare diventava “Stupidinski”) e ha giurato che prenderà il nome di suo marito anche se dovesse sposare uno che si chiama Gigi Pagliaccio. E non offesi mio padre più di quanto lui avesse a sua volta offeso il nonno. Mio nonno, il ciabattino, era ancora vivo quando feci il cambiamento, e ne sembrò contento. Ma mentre passavo tutto il 2003 a recuperare faticosamente ciò che mio padre non aveva ritenuto di dover dividere con me, avevo una piccola fitta al cuore ogni volta che ricordavo di aver rifuggito l’unica cosa sua che mi avesse lasciato.
Questa fu la storia che raccontai a Bear Leach subito dopo averlo conosciuto nel soggiorno di Northumberland Manor. Bear mi tirò fuori tutto quanto con una serie di abili domande e commentò con un sorriso saggio i miei addolorati ripensamenti.
«Be’, Stewart» disse «a volte penso che sono proprio queste le cose che mandano alla malora i rapporti fra padri e figli. Le cose che vengono rifiutate. E quelle che vengono tenute nascoste.»
In questo secondo gruppo potevamo includere il dattiloscritto di mio padre, di cui alla fine chiesi notizie a Leach. A quel punto presumevo che papà avesse tenuto fede alla minaccia di bruciarlo. Quando glielo dissi, Leach cominciò ad agitarsi ondeggiando a destra e a sinistra, borbottando fino a quando riuscì a trovare una cartellina rossa che aveva appoggiato alle ruote della sua sedia. Dentro c’erano almeno un paio di centimetri di carte, e sfogliandole riconobbi all’istante il bel corsivo di mio padre, che aveva fatto parecchie correzioni a mano. E, sciocco come sono, scoppiai a piangere appollaiato su quel ridicolo divanetto.
Al mio arrivo a casa lo avevo già letto tutto fino all’ultima riga, perché una volta sceso dall’aereo ero rimasto tre ore all’aeroporto di Tri-Cities, incapace di aspettare anche solo la mezz’ora necessaria per arrivare a casa prima di sapere come andava a finire. Dovevo essere un bello spettacolo, un ultracinquantenne sovrappeso che si sfregava gli occhi in un’area di attesa deserta, mentre i viaggiatori di passaggio mi lanciavano sguardi costernati pur affrettandosi verso il loro cancello d’imbarco.
Il giorno in cui Leach mi aveva consegnato il dattiloscritto, avevo farfugliato qualcosa tipo che sarebbe diventato un tesoro di famiglia. Ma dopo averlo letto mi chiedevo più che altro come mai fosse rimasto in mano a Leach.
«Devo confessarti, Stewart, che ho sempre ritenuto di esserne in possesso grazie a una serie di circostanze particolari. Come ti ho detto, tuo padre affermò di avere l’intenzione di bruciarlo una volta che glielo avessi restituito, ma dopo averlo letto decisi che sarebbe stata una grave perdita. Per quel motivo mi tenni ben stretto il manoscritto, affermando che ne avevo bisogno per chiarire alcune piccole questioni inerenti all’appello e alle ulteriori tappe processuali. Poi, nel luglio del 1945, tuo padre fu inaspettatamente rilasciato e partì in gran fretta da Regensburg, con tutt’altro in mente. Mi aspettavo che prima o poi mi chiedesse indietro il documento, ma non lo fece, né in Europa né più tardi, quando rientrammo negli Stati Uniti. Nel corso degli anni di tanto in tanto ho pensato di farmi vivo con lui, soprattutto ogni volta che spostavo il dattiloscritto da un ufficio all’altro, e alla fine nella soffitta di casa, ma conclusi che tuo padre aveva fatto la scelta che riteneva la migliore per tutti, e certamente per lui, cioè di andare avanti nella sua vita senza le complicazioni e i ricordi che sarebbero nati se ci fossimo rivisti. Ormai da parecchio tempo questo dattiloscritto è archiviato fra le mie carte presso la Corte suprema del Connecticut, con una nota per i miei esecutori testamentari in cui li incarico di rintracciare David Dubin o i suoi eredi per avere istruzioni su come disporne. Sono stato molto felice di avere tue notizie, naturalmente, perché così abbiamo risparmiato ai miei nipoti una lunga ricerca.»
«Ma perché bruciarlo?» chiesi. «Per via di quell’ipotesi che potesse aver ucciso Martin?»
«Be’, era quello che pensavo, almeno da principio.» Bear si interruppe; era evidente che qualcosa lo disturbava, forse la consapevolezza di essere molto vicino al limite di quello che poteva correttamente rivelare. «Immagino che l’unica cosa che posso dirti con sicurezza, Stewart, sia quello che David ha detto a me.»
«E cioè?»
«Ti sembrerà strano, ma tuo padre e io non abbiamo mai discusso apertamente del manoscritto. Anche dopo che l’avevo letto era chiaro che lui non aveva la minima voglia di parlarne, e lo capivo. La volta che ci andammo più vicino fu un paio di giorni dopo la sentenza. Tuo padre sarebbe rimasto agli arresti domiciliari fino all’appello, ma cominciava ad abituarsi all’idea dei cinque anni di lavori forzati. Gli dissi quello che i penalisti dicono sempre ai loro clienti in queste circostanze, cioè che, dopo, la sua vita sarebbe ricominciata e un giorno avrebbe rivisto tutto con occhi molto diversi. E accennai anche al dattiloscritto, che avevo prudentemente lasciato nella cassaforte del mio ufficio a Francoforte.
«“Credo che dovrebbe tenerlo, Dubin” lo esortai. “Se non altro, per i suoi figli. Per loro sarà molto interessante. Non vorrà farmi credere di aver scritto una cosa del genere soltanto per me. E certo non per ridurre tutto in cenere.” Lui ci rifletté, abbastanza a lungo da indurmi a credere di aver toccato il tasto giusto, ma alla fine serrò la mascella e scosse risolutamente la testa. E a quel punto, Stewart, mi diede la prima e unica spiegazione del perché volesse distruggere il dattiloscritto.
«“La mia più strenua speranza” disse “è che i miei figli non vengano mai a sapere di questa storia.”»

14

Stop

16 novembre 1944, ancora a Nancy
Carissima Grace,
perdona il mio silenzio. Come avrai appreso dai notiziari, l’esercito è di nuovo in marcia, e anche il nostro lavoro ha assunto un ritmo frenetico. Ci sono avvenimenti al fronte che per la loro stessa natura sono molto urgenti, e sappiamo che lo spostamento a un altro quartier generale potrebbe arrivare presto. Noi speriamo che sarà in Germania, meglio ancora, a Berlino.
Mi sento molto meglio dell’ultima volta che ti ho scritto. Ti chiederai cosa significhino quelle lettere che ti ho spedito un paio di settimane fa, inframmezzate dal mio piccolo tuffo nell’azione. Con il trascorrere del tempo ho deciso di lasciarmi alle spalle quell’esperienza, nel suo complesso. Così consigliano i vecchi soldati, lasciare che il passato sia passato, e comprendere che il solco tra la guerra e la vita normale è più ampio del Grand Canyon, e non va attraversato. Credimi, tesoro, un giorno, quando tutto questo sarà finito, voglio che tu ti sieda accanto a me, in modo da poterti accarezzare i capelli mentre ripenserò ad alcuni di questi eventi. Ma ti prego fin d’ora di non prendertela se non avrò molta voglia di raccontare.
Per parlare di cose più piacevoli, oggi mi è arrivato il tuo pacco numero 15. Solo due dei biscotti con la glassa si erano rotti, ma me li sono goduti anche così, credimi. Meglio ancora è stata la bottiglietta di Arrid che mi hai mandato; so che è difficile da trovare e infatti tutti mi hanno molto invidiato. Data la scarsità di combustibile, l’acqua calda è una rarità, e questo significa poche docce e pochi bagni. Ringrazia tuo fratello, ho apprezzato molto il deodorante. Di’ quello che vuoi, ma a volte avere il proprio grande magazzino offre dei vantaggi. A questo proposito, ti vorrei chiedere un favore. Se George avesse della pellicola formato 620, gli comprerei tutta quella che può trovare. Il mio sergente, Biddy, è un bravissimo fotografo, e non riesce più a trovare quel tipo di pellicola. Probabilmente è la persona più simpatica che ho conosciuto da quando mi sono arruolato, e ci terrei ad aiutarlo.
È arrivato l’inverno. Il clima non è più umido, adesso fa un freddo cane. Piove ancora, almeno così viene detto, ma quello che cade sono palline gelide che solidificano entro un’ora. Quando mi siedo alla scrivania metto i guanti di lana, anche se l’aula del tribunale ha un minimo di riscaldamento. Il ciclo pioggia-ghiaccio è molto più terribile per i ragazzi in trincea. Il “piede da trincea” è diventato un’epidemia. Si stima che un terzo dei soldati ne soffra, molti in forma tanto grave da dover essere ricoverati in ospedale. Patton ha ordinato 85.000 paia di calze, e si dice che abbia fatto un discorso alle truppe, affermando che in guerra è molto più importante l’igiene dei piedi che quella dei denti. Le calosce sono scarse. I ragazzi al fronte non finiscono di stupirmi con il loro coraggio e la loro determinazione.
La mia vita non conosce certo quelle durezze e quelle privazioni, e continua, sicura ma noiosa, tra casa e tribunale. Però una novità ce l’ho. Ieri è arrivata la mia promozione (con solo quattro mesi di ritardo), e adesso sono il capitano Dubin, e le parole “facente funzione di” sono sparite dalla mia qualifica di procuratore militare aggiunto. Mi sono messo subito i gradi d’argento e per tutto il giorno sono andato in giro gongolando ogni volta che un tenente faceva il saluto al mio passaggio.
Ti auguro un felicissimo giorno del Ringraziamento, amore mio. L’anno prossimo, di questi tempi, mi aspetto di essere davanti al fuoco insieme a te.
Ti amo e penso sempre a te.
David
Un pomeriggio nella seconda settimana di dicembre un attendente posò sulla mia scrivania la posta: tre lettere e una cartolina. Le stavo ficcando in una tasca della giacca, per assaporarle poi in privato, quando la cartolina attirò la mia attenzione. Era l’immagine in bianco e nero di un edificio pieno di torrette e di ornamenti, con due archi concentrici sopra la porta. La piccola didascalia sul retro identificava il luogo come la sinagoga di Arlon, la più antica del Belgio. Ma a lasciarmi esterrefatto fu il testo.
Dubin,
mi dispiace averti fregato. Robert dice non si poteva fare diverso. Tu sei bravo. Prego non pensare male di me. Forse incontriamo ancora quando non è guerra. Posso dire joyeux Noël a un ebreo?
G.
La grafia di Gita Lodz era puntuta e non particolarmente ordinata, com’era prevedibile. Aveva scritto in inglese, sapendo che un messaggio in francese avrebbe potuto impiegare mesi a superare la censura.
Il giorno seguente rilessi la cartolina una ventina di volte, cercando di capire se aveva dei significati nascosti. Come mai si era data la pena di scrivermi? E a me cosa importava? Finii con il chiedermi se fosse davvero in Belgio o se si trattava di un altro trucco di Martin. Chiesi a un impiegato postale se era possibile rintracciare il luogo da cui era stata spedita la cartolina, che aveva il timbro violetto dell’ufficio postale dell’esercito. Il codice di tre numeri al centro del timbro apparteneva al quartier generale della 1a armata vicino a Spa, in Belgio.
Dopo averci riflettuto, mandai un messaggio per telescrivente al quartier generale di Teedle alla 18a divisione, informandolo di aver ricevuto una comunicazione che mi indicava dove Martin poteva trovarsi. Ormai la 18a era tornata in battaglia, si era spostata da Metz in Lussemburgo e stava respingendo i tedeschi verso le fortificazioni della linea Sigfrido, sul confine occidentale della Germania. Con l’approvazione dello Stato Maggiore, pochi giorni dopo la scomparsa di Martin, Teedle aveva emanato un ordine di arresto per lui, mettendo così formalmente fine alla mia indagine. Ero dunque libero, e feci del mio meglio per non pensare più né a Robert Martin né a Gita Lodz, che mi avevano entrambi ingannato con notevole danno personale. Il giorno in cui Martin se l’era svignata mi ero presentato a Teedle con la coda fra le gambe, e mi ero preso la strigliata prevista, e non soltanto per aver perso le tracce del maggiore. Patton era furibondo per l’esplosione alla Saline Royale, e, a sentire Teedle, “voleva le balle di Martin per il giorno del Ringraziamento”. Il raid c...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. di Scott Turow
  3. Eroi normali
  4. PRIMA PARTE
  5. SECONDA PARTE
  6. TERZA PARTE
  7. QUARTA PARTE
  8. QUINTA PARTE
  9. SESTA PARTE
  10. SETTIMA PARTE
  11. Nota a proposito delle fonti
  12. Copyright