Elogio di una donna normale
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Elogio di una donna normale

Storie di donne e dei loro spericolati sogni di tutti giorni

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  1. 252 pagine
  2. Italian
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Elogio di una donna normale

Storie di donne e dei loro spericolati sogni di tutti giorni

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Cosa vogliono le donne dagli uomini, dalla famiglia, dal lavoro e, soprattutto, da se stesse? Le donne normali, quelle che ogni giorno cercano di esprimersi e realizzarsi nella sfera affettiva, ma anche all'esterno, nel mondo, che cercano la felicità dentro e fuori casa. «Ci vuole coraggio, di questi tempi, a essere normali. A riconoscere come normali i propri desideri, le proprie aspirazioni» sottolinea Irene Bernardini, psicologa, nelle prime pagine di questo umanissimo (e sincero) racconto dell'animo femminile. «Ho imparato che le donne hanno immense riserve di coraggio e di dignità. E per farle affiorare serve a volte uno scossone da parte di un'altra donna.» È questo l'atteggiamento, sensibile ma fermo, con cui lei - l'«altra» donna - accompagna, fianco a fianco, «per un pezzo di strada» le sue pazienti: madri, mogli, compagne, amanti, casalinghe o affermate professioniste, innamorate, deluse, tradite. Come Elisa, quarantenne single in carriera, un'esistenza all'apparenza perfetta, in realtà incapace di amare ed essere amata; o Elena, trentadue anni, stimata specialista in ginecologia e ostetricia, lavoro a contratto in una clinica universitaria finché non resta incinta di un collega «molto sposato» e le viene garbatamente suggerito di farsi da parte; o Grace, che cerca, con fatica e intelligenza, di creare un rapporto con i figli del suo compagno, perché bisogna «rispettare i bambini senza la fretta di amarli e farsi amare solo perché sono le creature del proprio uomo». L'amore, i figli, il lavoro, la vita sociale sono bisogni faticosamente conciliabili, e trovare un equilibrio non è così facile. Costruire una relazione che non si misuri soltanto con un «battito di farfalle nello stomaco», che non confonda sentimenti ed emozioni; vivere gli affetti senza la tentazione di abdicare ai propri sogni e ai propri talenti; essere madri non pensando i figli come un prolungamento di sé: non c'è un'unica ricetta per raggiungere questi equilibri delicati, per conciliare al meglio le esigenze e le aspirazioni, per sentirsi una «persona intera». Occorre forse talvolta essere un po' acrobate, ma non è necessario essere speciali. In fondo, le qualità più preziose, ci dice la Bernardini, sono proprio il coraggio di essere normali, la capacità di non strafare e di attingere con orgoglio alle risorse più tipicamente femminili: l'intelligenza affettiva, l'empatia, la generosità.

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Informazioni

XI

The doctor is in

Fa proprio bene, cocca, arrabbiarsi un po’ e poi fare la pace, fa bene alla salute degli amori e dei sogni. Lucy e io abbiamo riaperto il banchetto di Psychiatric Help, quello dentro il cuore, ed è stata una buona idea. Ogni volta che mi arrabbio un po’ con le donne che ascolto e incontro, ogni volta che per questo mi tocca un supplemento di domande e di pensieri, succede poi che loro, le donne, tornano sempre a incantarmi, a farmi sperare. Perché hanno un modo di ragionare che si nutre di realtà anche spicciola e, al tempo stesso, ha un respiro etico quasi involontario, un modo di ragionare in cui la testa non lascia a casa il corpo, in cui senti parlare di quel che è successo oggi, ma nel discorrere di un piccolo fatto attuale senti risuonare il senso antico di quel che è stato e il suo protendersi gioioso o dolente verso il futuro. Intuizioni, a volte così geniali e insieme di carne, che mi commuovono.
Senti, per esempio, che saggezza a proposito dell’esperienza drammatica delle molestie sessuali nell’infanzia: sono lettere a un giornale e non un simposio scientifico, eppure…
Ho 43 anni da due giorni, una figlia di quasi 4 anni, che è il sentimento più pulito e bello della mia vita. Non sono mai stata considerata nella mia numerosa famiglia (4 figli di genitori giovanissimi). Un padre pedofilo a cui ho saputo dire di no anche se avevo solo 5 anni, con un coraggio e una determinazione che non so spiegare ancora oggi. Gli ho fatto paura, mentre mia sorella lo ha subìto. Ma non mi sono salvata, ho subìto la stesso violenza psicologica senza i privilegi che poteva avere mia sorella, più ubbidiente. Tutti erano convinti che io valevo poco o niente, anzi niente, così crescevo dimenticata e abbandonata anche se in mezzo a tanta gente. E mia madre? Lei aiuta giustamente mia sorella perché lei ha sofferto. Dopo che tutto il marcio è venuto alla luce, si è schierata dalla sua parte. Ma per me è rimasto tutto uguale, tanto io so cavarmela da sola e infatti sono sola, sola dentro. Per fortuna ho la mia bimba. Ti chiederai chi è mio marito. Sembrerò cattiva, è un buon uomo che non è adatto a me ma che mi terrò perché mi sento di combattere e difendere non so nemmeno più che cosa.
Il coraggio e la determinazione di quella bimba che ha detto no suscita un’ammirazione sconfinata. «Gli ho fatto paura»: un gigante, quella bambina. L’obbedienza dell’altra bimba sciagurata mette i brividi. I suoi privilegi: già, perché uno degli aspetti più crudeli dell’esperienza dell’abuso è proprio la trappola della seduzione. Se ci stai, sei la mia principessa. Se non ci stai, sei scacciata dal cerchio magico della considerazione. Orrore. Il coraggio e la determinazione di quella bimba di 5 anni ora hanno compiuto 43 anni e un po’ di giorni. Sono ancora tutti lì. Per combattere, per difendere quella bambina e un’altra bambina, la sua. E un uomo buono.
Anch’io ho subìto per parecchi anni, da colui che diceva che mi voleva proteggere e che avrebbe sostituito in tutto mio padre, delle attenzioni particolari che non volevo. A 16 anni ho deciso di chiudere con quella storia e sono scappata di casa, riuscendo a trovare il coraggio per denunciare quel mostro. Certo, in quel periodo la giustizia è stata troppo clemente. Ho passato la mia infanzia, l’adolescenza, chiedendomi cosa avessi fatto di sbagliato. La risposta ora, a 31 anni, ce l’ho: nulla, non abbiamo fatto nulla…
No, non avete fatto nulla. Questa è la cosa più difficile, convincersi di non avere colpe. Rimontare la china di quel sentimento subdolo e pervasivo che toglie valore e rispetto per sé, che è il veleno che intossica la vita di chi ha avuto l’infanzia lordata dalla violenza. E quanta violenza c’è nell’espressione «attenzioni particolari»!
«Una maschera vuota dentro, un guscio senza tartaruga» aveva detto di sé un’altra donna con la medesima esperienza. Sono lettere, cocca, e-mail inviate a una psicologa di carta, e non le riflessioni evolute e sofisticate di chi abbia passato i suoi pomeriggi dall’analista. Eppure toccano in poche righe gli snodi decisivi di quell’orribile vicenda. In poche righe, una ricognizione di vita e di senso.
Primo colloquio con Rossella. Ha da poco perso sua madre e, come capita in circostanze simili, Rossella sta piangendo se stessa, sta riattraversando i dolori della sua infanzia:
«Ho avuto un pessimo rapporto con mia madre. Mia madre ha avuto un pessimo rapporto con sua madre. Io da piccola rifiutavo di essere una femmina, mi vestivo da maschio, giocavo solo con i maschi. Oggi capisco: io non volevo essere come mia madre. Una donna che non faceva altro che lamentarsi, recriminare su tutto, dipingersi come la vittima di mille ingiustizie. E aveva un modo di farlo che ti faceva sentire in colpa, anzi ti faceva sentire inutile. Non eri un conforto per lei, ma un ingombro. Non l’ha mai detto, ma è come se l’avesse detto mille volte: se non fosse per te…, sei la mia galera. Mi aveva fatto il vuoto intorno: niente amici, i nonni si frequentavano pochissimo. Mio padre metteva tutte le sue energie a tenere a bada lei, figurati se aveva tempo per me.
«Fino ai 35 anni non pensavo di diventare madre, non volevo essere come lei. Lo sapevo, me lo dicevo: mai come lei. Poi il desiderio ha avuto la meglio, ma mi dicevo che io sarei stata diversa. Ho una figlia di 8 anni e un maschio di 10. Ho cercato di dare ai miei bambini la serenità, un mondo popolato da persone affettuose, ho fatto persino in modo che avessero buoni rapporti anche con mia madre. Adesso lei è morta, l’abbiamo curata in casa nostra perché mi faceva pena come persona che soffriva, e non perché era la mia mamma. Sono piena di dolore, riguardando i vecchi album, per quella bambina triste che cercava di non farsi notare e si rifugiava nei libri e negli amici immaginari.
«Pensavo di aver chiuso i conti da un pezzo con mia madre, di aver messo via da anni la speranza che lei potesse darmi prima o poi un po’ di gioia. Vedermi, almeno. Invece la sua morte è anche la morte di quella speranza. Non so come spiegare: mi ritrovo come daccapo, a dover fare il funerale non a lei, ma a me, e al bisogno che avevo di lei e che forse ho conservato dentro fino a oggi. E mi accorgo che il mio atteggiamento è diverso: più istintivo verso il maschio, più “meditato” con la bambina. Mia figlia è tutta diversa da me quando ero piccola: è simpatica, estroversa, mi fa partecipe della sua vita. Ma a volte mi pesa il suo bisogno di starmi vicina, ho bisogno di solitudine, ma ho paura che possa sentirsi respinta. Ho paura di farle soffrire quello che ho sofferto io… Io sono differente, però. Ecco, vengo da lei per capire insieme a lei se io sono differente…».
Secondo te, cocca, è segno di forza o di debolezza andare da una psicologa per capire insieme a lei se con tua figlia sei differente da tua madre? Lo farebbe un uomo? E anche qui, che grandiosa ricognizione della propria storia e insieme dei propri compiti verso il futuro!
Già, proprio una bella impresa il rapporto madre-figlia. Complicata, entusiasmante. Complicata perché il gioco degli specchi può dare le vertigini. Perché il compito di imparare che un figlio non ti appartiene, che è altro da te anche se gli hai dato la vita, che però di quella vita occorre prendersi cura perché è solo la cura che può fare di quella vita una buona vita: un compito che con una figlia femmina è una sfida quotidiana.
Una sfida, perché se da una parte l’andirivieni delle identificazioni veicola amore e comprensione profonda e intimità e complicità, dall’altra rischia di trasformare la figlia in una sorta di schermo bianco su cui proiettare il film dei nostri rimpianti, delle nostre sofferenze, delle nostre ambizioni. Una sfida che può essere entusiasmante proprio perché obbliga a destreggiarsi tra l’abbaglio che vede quella figlia come uguale, talmente uguale da destinarla a ripetere o a riscattare la nostra storia di figlia, e la percezione, a volte dolorosa, della sua alterità, della sua differenza da noi, una differenza che può essere sentita come tradimento. Una sfida entusiasmante perché obbliga a pensare, a coltivare dubbi, a farsi domande importanti.
Proprio come fa Rossella. I suoi pensieri, le sue domande sono un grande regalo per la sua bambina: una persona differente, da amare e tenere vicina. A cui dire «Tra poco, più tardi, ora ho da fare» quando ha bisogno della sua solitudine, eredità di quella bambina che «cercava di non farsi notare e si rifugiava nei libri e negli amici immaginari». Il lavoro con Rossella non si protrarrà a lungo, io sarò poco più che una sponda, un pretesto. Però sarò, sono, già contenta di averla incontrata.
Parlando di Rossella mi viene in mente la e-mail ricevuta da Carlotta, che aveva dovuto interrompere il nostro lavoro in studio per l’aggravarsi della malattia del padre:
Cara dottoressa,
non l’ho mai usato prima l’indirizzo di posta che lei mi aveva dato anche se avrei avuto spesso il bisogno di scriverle: mi ero messa in testa che l’avrei fatto quando avessi avuto qualcosa di buono da dirle. Non si offenda, ma lei è una persona a cui io vorrei dire qualcosa di buono. Non c’è stato niente di buono negli ultimi due mesi. Cedo. Mio padre è morto giovedì. Lei sa chi era lui per me. Lei sa chi era lui. Per due mesi io l’ho dovuto lavare, vestire, nutrire. Non potevo permettermi un’assistenza notte e giorno, dal lavoro ho dovuto mettermi in aspettativa non retribuita. Non ho trovato aiuti, non ci sono aiuti se non hai molto molto denaro. L’ho fatto io. Ho fatto tutto io. E non è la fatica che mi ha devastato, non è il dolore, non è la pena. È la violenza per me e per lui di non aver potuto rispettare il mio e il suo bisogno di non varcare il confine. Io ho dovuto occuparmi del suo corpo, il corpo distrutto e umiliato dalla malattia di un uomo che mi faceva volare in cielo per riprendermi tra le sue braccia fidate. Lui ha dovuto sopportare che sua figlia lo lavasse come un bambino. Lui, la dignità in persona. I miei fratelli? Non scherziamo, dottoressa. Queste sono cose da figlie. La mia laurea in ingegneria è un dettaglio. No, questo non è un paese per vecchi. Questo non è un paese per donne. Ma non so dove andare. Mi faccio viva presto. Con qualcosa di buono.
È andata in modo strano, cocca, la lettura di questa e-mail. Faccio un giro largo, ma vedrai che un senso ce l’ha. Qualche giorno prima avevo ascoltato un’intervista a Maurizio Pollini, il più grande pianista contemporaneo, credo: poche parole le sue, il minimo indispensabile, ma cariche, stracariche di cultura e intelligenza. Va per i 70, Pollini. Quel giorno, arrivando in studio, ho scaricato da iTunes la raccolta dei Preludi di Chopin eseguiti da lui che ormai avevo solo su un vecchio disco in vinile. E me li sono messi in sottofondo mentre compulsavo la posta. Una musica che mi è cara perché da ragazzina osavo suonarne anch’io qualcuno tra i meno difficili. E perché quando sono andata per la prima volta al cimitero di Père Lachaise di Parigi (un bosco in mezzo alla città, un posto bellissimo, struggente) a cercare la tomba di Marcel Proust, sono scivolata sulle foglie morte di quell’autunno gelido e sono precipitata a faccia in giù proprio sulla lapide di Chopin.
Insomma, proprio mentre leggevo l’e-mail di Carlotta è partito il Preludio N. 20 in C minore, meglio noto col titolo Per il funerale di un amico. La lettera è finita prima del minuto e quarantasei del Preludio. E allora, con quegli accordi sempre più mesti e sconsolati nelle orecchie, sono rimasta lì a pensare a quel papà costretto a farsi accudire come un bambino da una figlia. E a lei costretta a violare il corpo del padre e il suo pudore di figlia. No, non è un paese per vecchi. Non è un paese per bambini. Non è un paese per donne. A Carlotta ho risposto che la sua e-mail mi aveva molto commosso, mi aveva fatto arrabbiare, mi aveva fatto ricordare: Parigi, Chopin, mio padre. Molte cose buone. Mi ha scritto ancora, ci vediamo la settimana prossima.
Senti poi che cosa mi ha detto Angela: è venuta da me per i suoi disturbi del comportamento alimentare (anoressia e bulimia, in parole povere). Io non sono abbastanza esperta in quella materia così complessa, e l’ho indirizzata alla collega dell’Istituto Il Minotauro di Milano che coordina la loro équipe specializzata. Però un po’ la invidio, la collega che affiancherà Angela. Stai a sentire e capirai perché:
Sono stata un’adolescente cicciottella e solitaria, non mi sono mai piaciuta davvero, ma in qualche modo convivevo con me stessa. Poi qualche chilo messo su nelle vacanze di Natale, una dieta per rimettermi in forma, i complimenti che diventano un’arma a doppio taglio. E il peso che ha continuato a scendere, inesorabile, complice un momento difficile in famiglia che si è sovrapposto alle motivazioni iniziali. Non mangiando mi sembrava di mantenere il controllo almeno su me stessa, non mi rendevo conto che invece lo stavo perdendo. Sono passati cinque anni, adesso ne ho 31, sto meglio ma non sto bene. Ed è una coltellata quando mia madre mi chiede come va il mio stomaco. Mi viene voglia di gridarle in faccia che il mio stomaco non ha mai avuto niente, è la testa che non va, che non è la gastrite, ma sono stata anoressica e ora sono bulimica. Forse è colpa mia che non volevo parlargliene per vergogna, perché lo vivo come una colpa, perché mi sento stupida come se fosse vero che chi ha disturbi alimentari ci cade perché ha l’obiettivo di essere una modella e non per insicurezza e senso di inadeguatezza, e quel terribile senso di vuoto che tanto nemmeno «tutto il pane del mondo» potrà mai colmare. Ma fa lo stesso male che lei non abbia saputo o voluto vedere. La capisco, ho il mio bel caratterino e forse se usasse il vero nome delle cose sarei pure capace di prenderla a male. Ma in fondo, forse, mi sentirei almeno meno sbagliata…
Meglio di un manuale di psicopatologia dei disturbi alimentari. Meglio, perché c’è tutto quel che c’è da capire, ma c’è anche tutto il dolore che un’esperienza come quella di Angela scaraventa sull’anima. C’è il tema del controllo o, meglio, dell’illusione di controllare tutto e tutti controllando il proprio corpo, finendo poi in realtà per smarrirsi sempre più. C’è il tema del vuoto, incolmabile. C’è il tema del pieno, insostenibile. C’è il senso di colpa, accanto all’orgoglio smisurato. C’è la grande ambivalenza che ci fa desiderare fino allo struggimento una vicinanza che, al tempo stesso, è temuta e respinta. La vicinanza con la madre, più di tutto, una mancanza straziante e insieme un pericolo da sventare a ogni costo. E poi c’è anche la consapevolezza dell’odiosa banalizzazione mediatica secondo cui le ragazze anoressiche sarebbero le vittime sciocche e passive dei modelli femminili dominanti. Come se, una volta convinti gli stilisti a far sfilare ragazze dalla taglia 44 in su, potessimo risolvere il problema. Un altro modo, subdolo e sottile, di squalificare le donne.
Anoressia e bulimia sono un male grande, profondo, complicato. Che ha la perfidia di attecchire preferibilmente sul terreno fertile di personalità ricche e complesse, di ragazze sensibili e intelligenti e profonde. Le parole di Angela sono gravide di consapevolezza. E la consapevolezza è una forma d’amore. Una forma alta di amore per se stesse. Beata la collega del Minotauro.
Sai perché io indirizzo così volentieri le persone, quelle che per qualche motivo non mi sento adatta a seguire personalmente, al Minotauro? Un centro di eccellenza, di fama europea, venticinque anni di ricerca e intervento clinico e sociale a favore degli adolescenti, e non solo: penso al loro lavoro sulla psicologia femminile, sui disturbi del comportamento alimentare, appunto, alla clinica dei «Giovani adulti». Sono bravi, i colleghi del Minotauro, i migliori, secondo me. Ma c’è una cosa che più di tutte mi incanta: la straordinaria capacità che hanno di allevare i giovani.
Nel loro recente Convegno – ne fanno pochi, di convegni nazionali, perché aspettano di aver raccolto tanta esperienza e tanto pensiero, e di averli organizzati al meglio – mi sono letteralmente commossa ascoltando i contributi dei loro junior: in ogni sessione di lavoro, su temi molto complessi e delicati – per esempio sul lavoro psicologico con i ragazzi che hanno tentato di togliersi la vita o che promettono, attendibilmente, di farlo –, accanto ai maestri sono intervenuti, sempre, trentenni o men che trentenni dotati di competenza straordinaria, rigore, umiltà e sicurezza al tempo stesso. Insomma, al Minotauro sanno aprire orizzonti di futuro. In tema di giovani, predicano bene e razzolano meglio. Una rarità, mi pare, di questi tempi.
A proposito di adolescenti, senti che cosa mi scrive questa deliziosa sedicenne che si firma «poetessa»:
Il mio problema è che sono timida. Non so iniziare e continuare una conversazione come vedo fare a certe mie amiche. Certi mi dicono che mi isolo, che dovrei spingermi di più, ma come? Invece i miei amici più cari, e ne ho di amici cari, mi consigliano di non cambiare, non per gli altri. Mi dicono che è bello stare con me, che sono un’amica vera. Sono carina e, con chi conosco, sono simpatica. Però non mi dispiacerebbe essere più estroversa, mi sembra che solo così potrei sentirmi veramente accettata. Nello stesso tempo io, alla fine, così come sono mi piaccio. Però quando mi guardo in giro, quando vedo quelli della mia età in televisione, mi sembrano tutti più disinvolti di me…
Carina, no? Viene proprio voglia di salvarla dal trappolone, la poetessa. Un trappolone, intendiamoci, in cui rischiamo di cadere tutti quanti, ben oltre i 16 anni. Parlo dell’equivalenza fra «...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Elogio di una donna normale
  3. Introduzione
  4. I. Parlando con lei, da uomo a uomo
  5. II. Farfalle nello stomaco: emozioni o sentimenti?
  6. III. Medea, commercialista in Milano
  7. IV. Grace e le altre
  8. V. F igli, lavoro: aut aut?
  9. VI. I talenti, le passioni: il futuro
  10. VII. «Childfree»: mamma è bello? Anche no
  11. VIII. «Childless»: mamma è bello? Sì, molto
  12. IX. Sulla cresta dell’onda
  13. X. The doctor is out
  14. XI. The doctor is in
  15. XII. Aurore e Lise: donne
  16. Insomma…
  17. Ringraziamenti
  18. Colophon