Il sorriso dell'agnello
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Il sorriso dell'agnello

  1. 322 pagine
  2. Italian
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Il sorriso dell'agnello

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Informazioni sul libro

Il primo romanzo di David Grossman, incentrato sul problema di Israele e della questione palestinese affrontato dalle voci dei quattro protagonisti che si alternano nel racconto: Uri, giovane soldato idealista di guarnigione nei territori occupati, l'innocente scagliato nel "cuore di una menzogna"; sua moglie Shosh, psicologa tormentata dal suicidio di un paziente; il comandante Katzman, un sopravvissuto all'Olocausto che non si fa più illusioni; e Khilmi, il cantastorie arabo che ha perso un figlio terrorista.
Tutti ostaggi di un territorio dove la giustizia si è trasformata nel suo esatto contrario, vittime della corrosione etica e morale provocata dall'occupazione, in cui speranza, amore e tradimento assumono nuovi e inquietanti contorni. Romanzo d'ispirazione politica che approda a una verità esistenziale, Il sorriso dell'agnello è anche un'opera d'intenso fascino linguistico e poetico, un libro dove l'uso delle voci e delle immagini crea un ponte con la grande tradizione favolistica araba.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852016608

1

No, no, Khilmi, credimi, li ho inventati io, li ho inventati tutti io: Shosh, la donna che ho amato, la donna da cui mi sono separato tre giorni fa; e Katzman, che non è qui, è rimasto lontano, in Italia; e quel ragazzo morto d’amore, di cui non ho mai saputo il nome; e anche te, Khilmi. Sarà meglio per te, vedrai, essere solo un frutto della mia fantasia. Qui potrai essere sicuro che tutto è davvero quello che sembra. Senza sorprese. Certo, non ti propongo di divenire parte della mia vita, che è così pericolosa e in cui nulla è davvero quello che sembra, sarà come una storia, Khilmi, sì? come kan-ya-ma-kan?
Allora cominciamo, prima che io arrivi al tuo villaggio, prima che venga a dirti ciò che ho tanta paura di dirti. Non è meglio, per tutti e due, che ci nascondiamo, che ci avviluppiamo insieme nelle coperte? E così, Khilmi, kan-ya-ma-kan, c’era-e-non-c’era-una-volta, come cominciano tutte le tue storie, o c’era-una-volta, come si contentano di dire da noi, c’era una volta, in un paese lontano...
Ho sempre pensato che cose simili possono accadere solo sotto i rami del tuo albero di limoni, Khilmi, nella penombra della tua grotta, fra le piccole gru, le ruote dentate, i tralicci fatti di ragnatele e gli orci che un giorno riempirai di aria rarefatta, così potrai volartene via di nuovo. È quello che ho sempre pensato, ma a quanto pare mi sbagliavo: pensavo che del kan-ya-ma-kan ci potesse essere anche una versione telaviviana, sì, una versione che potesse reggere anche nella forte luce del sole, nella chiara luce delle lampade fluorescenti, in quelle stanze linde e imbiancate dove registrano e trascrivono ogni parola che si dice.
E allora, kan-ya-ma-kan, Khilmi. Devo dirlo come te, appoggiando il dorso al tronco del limone, con gli occhi chiusi, bofonchiando come se dovessi estrarmi un filo lungo lungo dal ventre, ed eccolo, il kan-ya-ma-kan: c’era una volta una ragazza piccolina, con un volto chiaro e aperto, un nasetto all’insù, i capelli biondi legati sulla nuca e un paio di occhiali con una montatura rotonda. La ragazza si chiamava Shosh.
C’era una volta una brava ragazza che era andata a trovare se stessa nel bosco e si era perduta, ma si era sparsa attorno semi d’amore, e per ritornare a se stessa si era scavata una galleria in mezzo a persone dure come macigni e aveva strisciato fra loro disegnando ciò che lei chiamava un anello, kan-ya-ma-kan.
Basta. Non faccio che recitare. Non ho la forza di raccontare questa storia. Non ho la forza di andare a raccontare a Khilmi cos’è successo. Adesso dovrei far marcia indietro e ritornare a Tel Aviv, rientrare nella storia di Shosh. Perché da sola lei non ce la farà, e anche Katzman mi ha detto, mi ha supplicato: «Vai da lei, Uri, solo tu puoi aiutarla».
No, non io. Io ho bisogno di tutta la mia forza, adesso, per demolire ciò che è stato nostro, le cose che ci siamo detti, i nostri sogni. Ma non sarà facile: sono già tre giorni, da quando l’ho lasciata, che rido dei nostri più intimi segreti, dei nostri giuramenti, sfascio i mobili che avevo fatto per noi, cancello le parole “meravigliosamente semplici”, così lei le definiva, ma non ci riesco. Si direbbe che i miraggi e le menzogne sono più saldi di quello che sembra, non cadono al solo additarli. Tento di estrarli da dentro di me, e sento le mie stesse radici tendersi come per strapparsi. So che una o due delle mie menzogne sono riuscite a mascherarsi da sofferenze personali, parole che possono essere tradotte solo dentro il mio corpo; e non so quanto rimarrà di me dopo questa demolizione.
Kan-ya-ma-kan, c’era una volta, e in fondo c’è ancora oggi: villaggi che si destano ai due lati della strada; antiche principesse, vestite di splendidi abiti ricamati, che escono nel buio per raccogliere escrementi con cui alimentare il fuoco nei loro forni tabùn; anche il fumo, che comincia ad alzarsi in lievi volute; e anche i campi, che adesso sono grigi ma fra qualche istante, all’alba, saranno tutti in fiamme.
Come quei paesini in Italia. Forse è questo che mi attira qui. Forse è perché ne ho tanta nostalgia. Sant’Annarella, che si risveglia dopo la notte del terremoto; anche qui gli olivi si stiracchiano al mattino, sbadigliano attraverso le spaccature nodose dei tronchi, con le loro foglie grigioazzurre. Ma a Sant’Annarella la catastrofe era stata breve, veloce; qui, invece, sono già cinque armi che continua, sonnecchiando. Il tempo, dice Abner, si è infiltrato, qui, nella trama dell’ingiustizia, come un veleno che paralizza il corpo e corrode la mente. Così ha detto Abner.
Ecco un asino. Ehi, amico! Sei ancora piccolo, non ti hanno insegnato ad aver paura delle macchine? A tirarti da parte per non essere investito? Va bene, vuol dire che aspetterò fino a che non ti sarai mosso. Ah, vedo, ti hanno inceppato le zampe. Comincio a interessarti? No? E allora perché mi guardi così? Hai una bella crinierina, tutta inzuppata di rugiada. Vai dalla mamma, vai, vedrai come ti lecca. Io ora devo galoppare. No, aspetta, come ti puoi muovere con le zampe così legate? Ti giro attorno, piano piano. Grazie di essere venuto ad arricchire la mia storia. Ehi, somarello, ho visto tuo fratello morto, spaccato in due e putrefatto in un vicolo del quartiere el-Sa’adiyah, e perciò mi è un po’ difficile starmene qui a farti le smorfie, perché io, somaruccio, vedo attraverso la tua pelle, vedo tutto quello che hai dentro. Scusami, a quanto pare qualcosa in me si è guastato, non sempre ho saputo vedere cosa si nasconde dietro le apparenze.
Ma dove sto andando? Anche Khilmi è solo un kan-ya-ma-kan, è solo una favola che inventa favole. Come posso credere, così, a quelle sciocchezze? Le storie che racconta su Darios, il suo patrono e protettore, o sul cacciatore che disegnava leoni nella sabbia, e perfino su suo figlio morto, Yazdi, quel povero idiota: anche lui una favola, una favola incomprensibile.
Shosh ha detto una volta che le cose che crediamo di capire, le nozioni di cui disponiamo, sono come gli individui più deboli di un immaginario branco di animali. Diceva che questa è “la legge darwiniana della coscienza”: così gli altri animali del branco si difendono dagli effetti mortali dell’intelletto umano, lasciandoci la carne più magra e un ancora più magro godimento nella caccia.
È stato durante il nostro viaggio all’estero che Shosh ha cominciato a parlare di caccia, a esprimere idee che io non capivo. Mi domandavo perché si interessasse di caccia, mentre noi eravamo agricoltori, tutti e due, o almeno eravamo sempre stati convinti di esserlo, fiduciosi nella rustica felicità della zuppa di patate o del filo ricamato nella coperta matrimoniale. Perché eravamo diventati cacciatori? Chi dovevamo cacciare?
Kan-ya-ma-kan, la morte si è fatta tremendamente vicina. La morte di Yazdi, figlio di Khilmi, e la carogna dell’asino nel vicolo, e il ragazzo di Shosh. Tutti come fiammiferi spenti, ma se li metterò insieme si accenderà una fiamma alla cui luce potrò vedere me stesso, sapere chi sono. Tre giorni fa ho fatto funzionare il registratore di Shosh e l’ho sentita dire al ragazzo: Mordy, tu non sai chi sei e cos’hai dentro, solo quando tutto comincerà a esprimersi, a sgorgare, lo saprai. E io ho paura di ciò che sgorgherà da me, adesso.
Ma basta. L’ho cancellata. Non le appartengo più. Io appartengo a questa strada stretta e tortuosa, alle galline scure che scappano da sotto le mie ruote mentre guido nella nebbia molle che soffia sulle colline, sugli olivi, sui muretti di fango, sulle pecore sporche e sui sentieri tracciati nella polvere, perché questa è Sant’Annarella che si risveglia dopo la notte del disastro, così improvviso che anche la ripresa sarà rapida e la gente sorriderà di nuovo come quel bambino sporco che Katzman aveva fatto galoppare tenendoselo sulla schiena attorno al Pronto Soccorso, attorno alle tende con la croce rossa, sulla terra spaccata, nei campi che respiravano affannosi nella notte; ed è là che desidero tornare, anche se vi ho passato solo due settimane, perché là ho imparato ad amare, ad amare me stesso, là ho lasciato che tutto di me si esprimesse e là, infine, ho saputo tutto.
Fermati. Torna indietro. Nessuno ti ha chiesto di prendere un’automobile e andare a dire a Khilmi che suo figlio è morto. È il disastro che ti attira ad Andal, come sempre, sei il corriere della cattiva novella. Torna indietro, Uri-infuri, non è affar tuo.
È stata una notte senza fine. Già da molto tempo le mie notti sono tormentate dai pensieri e dalla fame. Quasi avessi proclamato di nuovo lo sciopero della fame, come quella volta, da ragazzo, quando ero interno all’Istituto di Agraria di Kfar-ha-Yarok. Anche stavolta avrei avuto le mie buone ragioni, per tutto ciò che Shosh ha fatto a me, per tutto ciò che ha fatto al ragazzo; ma non è per questo che ho smesso di mangiare, è stato quando Shosh ha accavallato le gambe e ha detto che dovevamo parlare con chiarezza, francamente, e le dita hanno cominciato a tremarle, che mi si è chiuso lo stomaco e non sono più riuscito a mangiare.
L’ultima notte è stata la più dura, perché a Djunni c’è stato uno scontro armato. All’alba i soldati sono rientrati al Comando e ho sentito bollire la pentola grande in cucina, ho sentito l’odore del caffè e quei discorsi sommessi, tanto sommessi da spaventarmi, perché poco prima avevo sentito decollare un elicottero, e gli elicotteri portano sempre cattive notizie. Ero disteso nella cella di reclusione che avevano improvvisato per me, guardavo la grata della finestra e non riuscivo a smettere di fiutare l’odore della carogna. Certo era solo la mia immaginazione, perché quel vicolo è troppo lontano dal Comando, ma io lo respiravo, quell’odore, e credevo d’impazzire dalla fame e dall’angoscia.
Poi ho udito Katzman scendere le scale, e ho tirato un sospiro di sollievo. I passi di Katzman sono riconoscibili fra mille.Così l’ho visto la prima volta, a Sant’Annarella: barcollava in mezzo alla strada come una bestia malata, come se dovesse appoggiarsi ai muri, ma i muri erano tutti crollati. Stavolta, però, aveva un mitra a tracolla. È finito tutto, ho pensato, tutto quello che abbiamo condiviso.
È venuto, ha armeggiato con le chiavi, ha aperto la porta. Mi ha guardato dall’alto in basso e ha detto con calma: «Smettila di fare il bambino, apri gli occhi, lo so che non dormi». Ho aperto gli occhi e l’ho guardato. Era così magro, e il labbro superiore, quello paralizzato, gli cadeva sulla bocca tristemente. Gli ho chiesto se c’erano state delle perdite.
«Tre dei loro» ha detto.
«E l’elicottero?»
«Quello del generale. È stato con noi tutta la notte. Un brutto affare, Uri.»
Si è seduto sul mio letto, si è preso la testa tra le mani. I suoi capelli radi erano scompigliati e sporchi; puzzava di sudore. Ho avuto pietà di lui perché sapevo che sarebbe stato costretto a farla finita con me; davvero, dopo quello che gli avevo fatto, non poteva lasciarmi stare lì, a Djunni.
«Un po’ di caffè, Uri?»
Ecco, in quel momento avrei dovuto dirgli: se proprio lo vuoi sapere, Katzman, sono tre giorni, sessanta e più ore per essere precisi, che non metto niente in bocca, e non mangerò finché non farai rimuovere quella carogna dal vicolo. Non era per l’asino morto, ma per una ragione completamente diversa che non potevo ingoiare nemmeno un pezzo di pane; perciò gli ho detto solo: «I carcerati non hanno diritto che a un tè tiepido, la mattina». E lui ha ribattuto calmo, senza arrabbiarsi: «Puttanate, Uri, lo sai benissimo perché sei chiuso qui». Aveva ragione.
È andata così:
«Uri.»
«Cosa?»
«Uno di quei tre che sono stati uccisi stanotte...»
«Sì?»
«Era il figlio del tuo amico.»
«Quale mio amico?»
«Il vecchio. Quello di Andal.»
Ero sbalordito. Ho risentito Khilmi dire chiaramente, come se fosse lì in quella stanza: «È un bambino idiota, quello Yazdi»; ho rivisto Khilmi così com’era l’ultima volta che siamo stati insieme nella sua grotta: sorrideva tranquillo, dicendomi che se solo avessi voluto, avrei potuto essere anch’io uno splendido idiota; e mi sono ricordato, in quel momento, anche di Shosh, della dura espressione della sua faccia, e delle vene blu che le si erano gonfiate sul collo mentre mi diceva: «Non hai idea, Uri, di come fa presto una menzogna a svilupparsi nei tessuti vitali».
Allora ho sussurrato a Katzman: «Era un idiota, Yazdi, un ritardato. Un bambino sfruttato da Al Fatah. Khilmi ha comprato sua madre prima che Yazdi nascesse, per un pugno di banconote umidicce l’ha comprata, così dice sempre. Il padre l’aveva portata nella grotta di Khilmi che era solo una bambina spaurita». Katzman si è stropicciato gli occhi; sembrava più pallido e infelice del solito, e quando ho sollevato lo sguardo, ho visto che la chiave era rimasta nella serratura.
«Qualcuno, vedi, Katzman, uno di un villaggio vicino, l’aveva messa incinta; sono cose che succedono più spesso di quanto si creda, da queste parti, e non è vero che facciano fuori le ragazze che disonorano la famiglia, come si dice. A volte cercano di sistemare le cose di nascosto. Così, il padre della ragazzina è andato da Khilmi e gli ha chiesto di sposarla, di fare da paravento.» Ero teso, il mio cervello turbinava perché pensavo che con un salto sarei potuto arrivare alla porta, e così ho continuato a parlare a Katzman, ma dicevo una cosa e ne pensavo un’altra (dopotutto, avevo imparato qualcosa, in quegli ultimi giorni). «La mamma di Yazdi era tutta pelle e ossa, ma gonfia, sembrava una stringa da scarpe con un nodo in mezzo. Così facevano da queste parti con le ragazze che si erano messe nei pasticci, le maritavano a Khilmi: lo prendevano in giro perché accettava, e lui li lasciava credere di averlo fregato, perché non era con loro che lui era in guerra. Dovresti conoscerlo, quel tipo, Katzman, per capire...» A quel punto sono schizzato dal letto, come il lupo di Cappuccetto Rosso, ho preso dalla seggiola la mia camicia militare e dopo un attimo ero fuori, in mutande, richiudevo a chiave la porta e correvo via libero come il vento.
Affrettando il passo lungo il corridoio, mi sono messo la camicia sbagliando i bottoni (Shosh mi sistemava sempre il colletto), sono arrivato al secondo piano, ridacchiando, ho aperto la porta, ho preso a tastoni, nel buio, un paio di anonimi pantaloni e un maglione militare, e sono uscito. I pantaloni mi stavano grandi, ma poco male. Attraversando di corsa, anche se in punta di piedi, la mensa ufficiali, ho sentito Sheffer raccontare dello scontro. Un vero orso, quello Sheffer. Ieri mi ha quasi sbranato. Accanto al gabinetto c’era una radio da campo. Dentro, qualcuno, pisciava e fischiettava. E io, allora, gli ho rubato la radio. Sta’ più attento, un’altra volta. Fuori, nel cortile sul retro, erano parcheggiate le macchine. Un vapore caldo si alzava dai motori. Ho scelto la piccola Carmel di Katzman, una macchina che conosco bene. Le chiavi erano nel cruscotto. La sentinella mi ha lanciato un’occhiata nervosa. Niente paura, con un colpo di clacson me la sono tolta di torno.
Poi tutto si è aperto davanti a me.
Ma prima, prima dell’aria aperta e dei villaggi dalle case dipinte, e prima di Khilmi, sono ritornato un attimo da quell’asino. Ho attraversato di corsa le viuzze dietro il mercato, fra le saracinesche abbassate dei negozi, ho mormorato un buongiorno ai canarini e ai cardellini che dormivano nelle gabbie, ho oltrepassato la piattaforma rotonda di Abu Marwan, il poliziotto di Djunni, sempre impeccabile; ho sfiorato il vecchio pozzo, ho spruzzato fango dalle eterne pozzanghere davanti alla moschea, e mi sono fermato in mezzo al vicolo.
Qui, nella limpida luce dell’alba, sembrava che il fetore si fosse congelato. Sopra la carogna spaccata c’erano due o tre uccellacci che, sono sicuro, non avrebbero mai osato farsi vedere alla luce del giorno. C’erano anche due cani, piuttosto bassi, che mi hanno guardato con sospetto da dietro la carcassa. Ma solo per un momento, e subito si sono rimessi al lavoro.
Nel silenzio profondo ho sentito quel rumore. I cani di Sant’Annarella ci facevano impazzire, la notte, quando trascinavano i cadaveri da sotto le rovine o dalle fosse comuni, e li mangiavano, e noi eravamo troppo stanchi per andare a scacciarli. E adesso, qui: questo succhiare e rosicchiare, lo sbattere dei denti contro le ossa. Ho guardato meglio: gli uccelli saltellavano tranquilli lungo la fila di costole scarnite, vicinissimi ai denti dei cani, ma non ne avevano affatto paura. Nessuna delle due parti voleva la guerra. E io, perché mi trovavo lì? Non lo sapevo, ma ero contento di esserci. Ero lì per salutare l’asino, per vederlo decomporsi nella polvere del vicolo, consumato dai cani e dagli uccelli. Ho cominciato a capire.
Sono tornato indietro lentamente, passando accanto a un triciclo carico di cassette d’uva, in mezzo alle case che svuotavano i vasi da notte; e intanto ricordavo, ricapitolavo, mi ripetevo le parole più importanti. La mia mente non si fermava un attimo. Khilmi racconta a se stesso le sue storie per ricordarsele, mentre io le racconto per dimenticarle, per frantumarle in minuscole briciole e liberarmene, liberarmi di tutto ciò che mi si è avviluppato attorno in quest’ultimo anno e mezzo: il successo sempre maggiore ottenuto da Shosh al Centro, e i giovani delinquenti che lei ha saputo penetrare fin nel più intimo, con la facilità con cui si schiaccia una noce, e anche il mio matto andar su e giù fra il Comando e il vicolo, fra la gente del posto e le loro stanche e piagnucolose proteste contro ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
  11. 9
  12. 10
  13. 11
  14. 12
  15. 13
  16. 14
  17. 15
  18. 16
  19. 17
  20. 18
  21. 19
  22. 20
  23. 21
  24. 22
  25. 23
  26. 24
  27. 25
  28. 26
  29. Copyright