La grande storia di Roma
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La grande storia di Roma

Dall'alba al tramonto

  1. 540 pagine
  2. Italian
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La grande storia di Roma

Dall'alba al tramonto

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Con questa Storia di Roma, Antonio Spinosa, il noto biografo, ricostruisce in un racconto appassionato le vicende che hanno segnato la nascita, l'ascesa e il declino della città fondata da Romolo. Un libro di grande leggibilità che restituisce un volto e un'anima alle schiere di re, imperatori, consoli, condottieri, donne, avvocati e sacerdoti che hanno reso immortale nel mondo il ricordo dell'Urbe eterna.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852016912
Argomento
History
Categoria
World History
Parte terza

ROMA DEI CESARI

Le colonne e gli archi
Dove si racconta come i tre personaggi più potenti di Roma, Cesare, Pompeo e Crasso, si uniscano in un triumvirato e poi si sciolgano. Catilina e Cicerone si scontrano: l’oratore perde la pazienza. La perde anche Cesare, che varca il Rubicone per andare incontro a ventitré pugnalate. Ottaviano, ragazzo prodigio. Con Azio si salva l’Occidente e si prepara il suicidio di Antonio, nipote di Cesare, e di Cleopatra, sua amante. Ecco Augusto che deve molto a Mecenate, ad Agrippa e a Virgilio. Con Tiberio, che sceglie Capri, comincia una interminabile sfilza di Cesari, grandi e piccini. Chi era Nerone? In un anno quattro imperatori. La protesta del Vesuvio. Il giudizio sui romani del capo britanno Càlgago. La guerra giudaica (Tito). La tassa sull’orina (Vespasiano). Le guerre contro i daci (Traiano) e contro i parti (Marco Aurelio). Adriano a Tivoli. Peste e crisi finanziaria. Caracalla divide in due ali il palazzo imperiale, ecc., ecc.

I

Cesare e Crasso si erano stretti in un’alleanza che appariva a tutti tanto strana quanto labile. Pur essendo molto diversi tra loro – l’uno generoso e sensibile, l’altro avaro e spietato – cercavano d’intendersi. Il ricco capitalista, in odio a Pompeo di cui temeva il ritorno, si appoggiava a Cesare, e questi, che aveva sempre più bisogno di sostegni finanziari, trovava quanto gli serviva nell’odioso plutocrate. Gli ottimati temevano quell’unione e si adoperavano per porre entrambi i personaggi in cattiva luce. Parlavano di un complotto escogitato dai due, sebbene ne sembrasse il principale ispiratore un patrizio ambizioso e deluso, Lucio Sergio Catilina. Pompeiano prima e sillano poi, Catilina non era amato dagli ottimati che lo ostacolavano nelle sue aspirazioni politiche. Per cui egli covava un profondo desiderio di vendetta. Gli ottimati gli avevano respinto nel 65 la candidatura a console con l’accusa di essersi arricchito depredando la provincia d’Africa sottoposta alla sua autorità di governatore.
Catilina era un cattivo soggetto, e aveva attivamente partecipato alle atrocità della dittatura sillana. Pallido in volto, lo sguardo lascivo, gli occhi iniettati di sangue, il portamento ora tardo ora sollecito: tutto rivelava la sua natura di forsennato. Era di nobile stirpe decaduta, vivace d’ingegno e vigoroso nel fisico, ma perverso aveva l’animo. Suoi seguaci erano gli individui più screditati: banditi, assassini, falliti, bari, spergiuri. Aveva avuto amori contrari alla legge e alla morale. Si parlava d’una sua relazione con una vestale e di incesto consumato con la propria figlia. Si diceva che la seconda moglie, Aurelia Orestilia, fosse figlia d’una sua amante. Nessuna persona a modo trovava da lodare in Orestilia null’altro che la bellezza. La dama aveva un figlio di primo letto che si opponeva al matrimonio della madre con Catilina, e questi, per aver via libera alle nozze, ordinò di ucciderlo. Tutto ciò si raccontava in una Roma dilaniata dalle fazioni in lotta. Gli ottimati possedevano il Senato come arengo, mentre i popolari si esprimevano in assemblea nel Foro e in Campo Marzio. C’erano infine i cavalieri che formavano una plutocrazia basata su una vivace attività fondiaria e commerciale, e che da lungo tempo tiranneggiavano Roma. Erano i più illetterati. Di loro si diceva che non avevano mai letto un libro, a meno che non fosse il libro dei conti.
Il popolo era impaurito. Accadevano in città fatti sconcertanti, come quello d’una statua che era precipitata al suolo cadendo dal piedistallo. La cosa assumeva un particolare significato perché la scultura rappresentava Romolo alle mammelle della Lupa. In questo clima si mormorava che Cesare, Crasso e Catilina si fossero accordati segretamente con Publio Cornelio Silla, nipote del dittatore, e con Publio Autronio Peto, per trucidare i consoli in carica, Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato, e impadronirsi così del potere. Le voci di questa congiura di Catilina del 65 non trovavano conferma, e la partecipazione di Cesare appariva improbabile per il fatto che il complotto armato prevedeva l’assassinio di Cotta, suo zio materno il quale, da console, gli garantiva protezione e favori.
Un concreto appoggio fu realmente offerto da Cesare a Catilina quando questi l’anno successivo poté ripresentarsi al consolato essendo nel frattempo cadute nei suoi confronti le accuse di malversazione e di corruzione, grazie a un sagace intervento di Clodio il Bello. Concorrente di Catilina alla carica di console era Cicerone, e ciò bastava perché Cesare si schierasse a favore di Catilina.
In Senato Cicerone pronunciò un’abile arringa, in toga candida come si conveniva ai concorrenti. Definì Catilina uomo bieco e miserabile. Con veemenza gli ricordò i suoi crimini. Vinse clamorosamente le elezioni con un subisso di voti, e Catilina ne uscì sconfitto. La contesa elettorale aveva messo l’uno di fronte all’altro Cesare e Cicerone, il quale cominciava a guardare con sospetto l’avversario che pure si mostrava cortese e sorridente. Cicerone ne indovinava la natura audace e risoluta nascosta dietro il fare affabile e gioviale.
Cicerone era acuto e geniale intellettualmente, ma in politica si rivelava una instabile banderuola. Era nato ad Arpino, la stessa rocca che cinquant’anni prima aveva dato i natali a Caio Mario. Essendo figlio d’un cardatore, ma pur sempre eques, avrebbe dovuto militare tra i popolari, ma la labilità del carattere e l’incapacità di resistere all’adulazione lo sospingevano ora di qua ora di là. Con una punta di sufficienza, i cesariani lo chiamavano il Cicer, dalla verruca che, a forma di cece, dominava una sua guancia.
Pompeo era sempre lo spauracchio dei popolari. Per metterlo in difficoltà in previsione del suo ritorno a Roma, Cesare e Crasso indussero il tribuno della plebe Servilio Rullo a presentare una speciale proposta di riforma agraria. La legge era diretta a danneggiare Pompeo in quanto, se approvata, gli avrebbe sottratto la possibilità di reperire terre da assegnare ai suoi legionari. Con la proposta di Rullo si affidava per cinque anni a un decemvirato la piena facoltà di distribuire a tutti i cittadini le terre pubbliche d’Italia, di Siria e anche delle regioni conquistate da Pompeo. La legge era ostacolata da Cicerone per il suo carattere rivoluzionario. Potevano essere eletti a questo decemvirato esclusivamente i candidati presenti a Roma, e ciò metteva fuori gioco proprio Pompeo ancora trattenuto in Oriente.
Le nuove norme avrebbero favorito l’esodo dall’Urbe di vasti strati popolari sottraendoli all’indigenza e alla fame. Roma sarebbe stata ripulita da turbe di miserabili che l’affollavano e la depredavano. Ma questo fu l’aspetto che paradossalmente portò al fallimento dell’iniziativa. La plebe urbana mostrò scarso entusiasmo per la riforma. L’osteggiò poiché avrebbe obbligato i più poveri a trasferirsi in lontani e incolti poderi per guadagnarsi da vivere zappando e arando, mentre più comodo era rimanere a Roma dove i più sfaticati avrebbero sempre trovato gratuitamente un po’ di grano per sopravvivere e qualche spettacolo per dilettarsi.
Cesare era già stato eletto all’eccelsa dignità di pontefice massimo. Trentasettenne, aveva preso il posto del nobilissimo Metello Pio, scomparso. I suoi avversari – Publio Servilio Isaurico, consolare e trionfatore sillano, e Quinto Lutazio Catulo, capo degli ottimati – erano stati sconfitti sonoramente. Li aveva battuti proprio lui che in politica era ancora alle prime armi e che professava nella vita un distaccato epicureismo. Lasciò la semplice casa paterna della Suburra per traslocare nel magnifico edificio pubblico della Regia che sorgeva sulla via Sacra accanto al tempio di Vesta.
Pur mantenendo una naturale affabilità, Cesare in questa sua nuova condizione si comportava come un predestinato, come un discendente di dèi e di re. Allusivamente riprendeva e sviluppava il tema che aveva lanciato sei anni prima in occasione dei funerali della zia Giulia, quando aveva parlato del divino antenato, Iulo figlio di Enea. E di Iulo scrisse una biografia con intenti autopropagandistici. Per festeggiare l’elezione, imbandì un sontuoso banchetto. La lista delle vivande comprendeva ricci di mare, ostriche crude, galline bollite, polli arrosto, beccafichi, tordi, lombi di capriolo e di cinghiale, pasticci di pesci e di zinne di scrofa, anatre, lepri, asparagi, pane del Piceno.
Pompeo era impegnato in Oriente. A Roma quel pericoloso personaggio di nome Catilina, sempre più radicalpopolare, aveva ordito una congiura, una vera e propria insurrezione armata che mirava a destituire dal potere l’oligarchia senatoria. Senonché Marco Tullio Cicerone, allora console, scoprì il piano destabilizzante. Immediatamente convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, per motivi di sicurezza, e non nella consueta sede della Curia Ostilia. Catilina, che era appena tornato a Roma dall’Etruria, ebbe l’impudenza di partecipare alla seduta senatoriale con l’idea di disorientare l’assemblea sostenendo la sua estraneità a ogni tentativo di rivolta. I patres, scorgendolo nella sala, si allontanarono da lui come fosse un appestato, ed egli rimase solitario in un seggio isolato. Si alzò egualmente a parlare, ma poco dopo Cicerone lo interruppe esclamando: «Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra?», fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza? «Per quanto tempo ancora la tua follia si farà gioco di noi? Fino a che punto si spingerà la tua condotta temeraria? Ti rendi conto che i tuoi piani sono stati scoperti? Il Senato è al corrente di tutto, sa che cosa hai fatto la notte scorsa e le altre precedenti, dove sei stato, chi hai convocato, quale decisione hai preso». Poi, rivolgendosi ai senatori disse: «Eppure un uomo simile è ancora vivo, anzi viene perfino in Senato. O tempora, o mores».
A questa bruciante invettiva, Catilina fu indotto a fuggire da Roma, e Cicerone, dopo tumultuosi eventi, fece arrestare e giustiziare con un laccio alla gola nelle fetide grotte del Tullianum i cinque maggiori responsabili della congiura, senza alcun rispetto per le norme di procedura, violando il diritto degli imputati a essere processati. Egli diede alla folla l’annuncio dell’esecuzione con una sola parola gonfia di compiacimento: «Vixerunt», vissero. Indifferente al fatto di aver forzato il corso della giustizia.
I cavalieri lo portarono in trionfo. Sfidando l’ira del Senato e del popolo, Cesare aveva cercato di salvare i cospiratori. Ma la foga di Cicerone batté anche lui. L’arpinate inviò l’altro console contro Catilina che aveva riparato in Etruria per organizzarvi un esercito. Raggiunto nei pressi di Pistoia, il capo della ribellione fu a sua volta ucciso. Era l’anno 62. Per Cicerone ci fu la proclamazione a pater patriae.
Pompeo era stato il grande assente, ma tutti avevano agito con l’idea, incubo o speranza, del suo ritorno a Roma, un ritorno ormai imminente perché Mitridate, il più pericoloso nemico esterno della repubblica, era morto e seppellito. Il rientro di Pompeo coincise con la movimentata pretura di Cesare, il quale mostrava di volersi schierare con lui e indurlo a prendere posizione contro gli oligarchi. Pompeo sbarcò a Brindisi verso la fine dello stesso 62, vincitore in Asia e colmo di gloria dopo una lunga guerra. Aveva costretto al suicidio Mitridate VI, il re del Ponto che, attraverso la Tracia, la Macedonia e l’Illiria, intendeva gettarsi su Roma come un Annibale d’Oriente; aveva ridotto alla condizione di province romane il Ponto, la Cilicia, la Siria, la Fenicia, ponendo le basi dell’intera organizzazione romana in Oriente. La città di Gerusalemme aveva dovuto aprirgli le porte, soltanto i parti riuscirono a mantenersi autonomi.
Con chi si sarebbe alleato a Roma il grande generale? Il Senato temeva che egli avrebbe condotto le sue legioni contro l’Urbe per impossessarsi della repubblica come aveva fatto Silla, per instaurare una dittatura militare. Cicerone sperava di non averlo contro; altri fuggirono, come Licinio Crasso. Non mancarono coloro che si precipitarono tra le braccia del duce vittorioso. Cesare non si mosse, e poté meglio volgere gli eventi a proprio favore con l’intrigo e l’astuzia, approfittando dell’assenza di Crasso che lasciava nelle sue mani il partito popolare. In realtà tutto andò diversamente poiché Pompeo, una volta a Brindisi, decise di congedare i suoi quarantamila soldati e di rientrare nell’Urbe come un privato cittadino. Tutti respirarono e si chiedevano le ragioni della scelta imprevista. Si disse che Pompeo non aveva la necessaria intelligenza politica per gettarsi in un’impresa colossale. A lui sarebbe piaciuto di mettersi alla testa d’uno Stato assoluto, d’una monarchia, ma gli mancava il coraggio necessario a conseguire questo risultato mediante un sanguinoso e rischioso colpo di Stato. Magari pensava di arrivarvi seguendo un’altra via, quella di un matrimonio politico. Gli fu comunque tributato un trionfo incredibilmente fastoso.
Cesare, che aveva terminato il periodo di pretura urbana, ebbe in sorte, nella distribuzione delle province, la Spagna ulteriore dove era già stato otto anni prima con l’incarico di questore. Breve era stata quella volta la sua missione preso dalla smania di rientrare anzitempo a Roma. Era avvenuto in quel viaggio che Cesare, arrivato a Gades (Cadice), si trovasse davanti alla statua di Alessandro il Grande, e, preso da rabbia, scoppiasse a piangere. Versava lacrime sulla sua ignavia, sugli anni filati via senza gloria, mentre col dorso della mano si asciugava il volto. La statua di Alessandro, immensa e imponente, dominava il Foro della rocca, davanti al tempio di Ercole. Quel re, che due secoli e mezzo prima aveva illuminato il mondo, gli appariva come qualcosa di ineguagliabile, un sogno, un mondo irraggiungibile per virtù militare, astuzia, magnanimità, eccellenza del sapere, bellezza della persona e fortuna. Ai seguaci che lo attorniavano stupiti, Cesare aveva detto: «Non vi pare causa degna di dolore che alla mia età Alessandro già regnasse su tanti popoli, mentre io non abbia ancora compiuto nulla di glorioso?».
Cesare aveva allora trentadue anni, e non era che uno dei venti questori annuali della repubblica, ricoprendo appena il primo grado del cursus honorum, mentre l’immortale Basileus alla stessa età aveva già esteso il suo dominio sull’intero mondo orientale fondando città e dinastie, marciando nei deserti, scavalcando monti e fiumi, non appagando mai completamente il suo sconfinato desiderio di potenza e di novità. L’universo gli sembrava stretto.
Davanti a quell’effigie, con alle spalle l’oceano infuriato e bianco di schiuma, il romano aveva tracciato un bilancio, a metà cammino della sua vita. Che cosa era per lui il presente, che cosa era stato il passato, quale sarebbe stato il futuro? Per la prima volta si era trovato a fare i conti con se stesso in modo netto e chiaro. Urgeva muoversi per non perdere altro tempo. Bisognava congedarsi dalla Spagna, tornare a Roma e cogliervi le occasioni di maggiori imprese. Aveva fatto i bagagli senza godere nemmeno degli aspetti allegri della città che era chiamata Gades iocosae per essere il luogo delle più incantevoli danzatrici della terra. E questo sì che per lui era stato un sacrificio.
Nel marzo del 61 tornava in Spagna da propretore, vale a dire da governatore. Un giorno stava già per salire sulla lettiga quando una gran massa di creditori, aizzata dai suoi nemici, lo accerchiò impedendogli di muoversi. A liberarlo dall’assedio accorse il ben noto Crasso, il più ricco dei romani, il dives, che si assunse l’onere di pagare un quinto dei debiti, pari a una somma smisurata. Il dives temeva ancora Pompeo e per indebolirlo aveva bisogno dell’ingegno e del vigore di Cesare, per cui ne pagò volentieri i debiti con l’idea di legarlo indissolubilmente a sé.
Cesare poté partire, e lo fece in tutta fretta, senza attendere le istruzioni del Senato, contro ogni legge e usanza. Raggiungere rapidamente la provincia spagnola gli consentiva di mettere subito a frutto la sua nuova carica rastrellando tributi e procurandosi grandi quantità di oro e di argento dalle miniere per pagare i rimanenti debiti. In poco meno di quattro settimane, raggiunse Corduba (Cordova), sua residenza e capitale della Betica. Nelle vesti di capo della provincia, rafforzò il suo esercito e affrontò i popoli delle regioni montuose della Lusitania e della Galizia. Ebbe onori in Spagna per le sue prime imprese di conquistatore. Inoltre poté rastrellare come bottino di guerra grandi tesori che in parte versò nelle casse dello Stato e in parte utilizzò per pagare i debitori. Irrequieto come sempre, tornò in patria senza aspettare l’arrivo del successore. Era diventato famoso, e a Roma, in mezzo a profonde e insanabili lotte di fazione, già appariva come l’uomo della provvidenza, in grado di risolvere in pochi giorni situazioni da tempo inestricabili.
Con l’idea di estendere la propria base politica rappresentata dai populares, propugnava una nuova coalizione e invitava a farne parte Pompeo che guidava il ceto dei cavalieri. Ma non poteva accordarsi con il Magno senza averlo prima riavvicinato al di lui avversario Crasso, tanto più che, pur essendo alfine certo della elezione a console, aveva bisogno del sostegno di entrambi. E ciò per neutralizzare l’ostilità degli oligarchi. Fra Cesare, Pompeo e Crasso venne sottoscritta un’intesa segreta per abbattere la supremazia del Senato e conquistare il potere. L’accordo, che era privo di valore legale, prese il nome di triumvirato.
Nell’ambito di questo segreto patto d’unità d’azione, Crasso e Pompeo assicuravano il sostegno a Cesare per l’elezione a console. Cesare e Crasso si obbligavano a difendere Pompeo nella richiesta di ottenere dal Senato la conferma degli atti protocollari d’Asia e la distribuzione delle terre italiche ai veterani. Cesare e Pompeo si impegnavano affinché Crasso potesse ricevere il governo di una ricca provincia e appalti vantaggiosi. Ciò andava a beneficio dello stesso Cesare poiché egli faceva parte delle società finanziarie e appaltatrici del dives. Al di là di questi accordi, Caio Giulio aveva ben più ambiziose mire che non rivelava ai compagni.
Crasso, pur accettando di riappacificarsi con Pompeo e di far parte del triumvirato, non contribuì alle ingenti spese che Cesare dovette sostenere durante la campagna elettorale per garantirsi, anche attraverso profonde azioni di corruttela, il voto degli elettori. Cesare fu invece aiutato da Lucio Lucceio, buon politico e fine scrittore, in corsa a sua volta per il consolato e amico di Pompeo. Cesare sperava di essere eletto console insieme con Lucceio per quanto lo avesse avuto temibile avversario in occasione della sua difesa di Catilina; ma ora le cose erano cambiate. Lucceio disponeva di immense fortune, e poté far scorrere molto oro. Gli ottimati se ne allarmarono, temendo che Cesare, giunto alla massima autorità dello Stato, non avrebbe più avuto freno se affiancato da un console suo amico. Fornirono quindi a loro volta d’una grande quantità di denaro il loro candidato, Marco Calpurnio Bibulo, il quale, imitando Lucceio, si diede a comprar suffragi.

II

La candidatura di Cesare gettava nella disperazione il Senato, anche perché gli aruspici prevedevano al giovane uno strepitoso successo. Cesare e Bibulo vinsero le elezioni, mentre Lucceio fu duramente sconfitto. Il popolo festeggiò lungamente il capo dei democratici attorniandolo sul Campidoglio durante il rito nel quale si prevedeva di sacrificare un toro a Giove. Poi fu accompagnato in giubilante corteo nella domus publica sulla via Sacra dove si era accasato. Nelle vesti di neoconsole ricorse immediatamente all’arte della simulazione di cui era maestro per estendere la cerchia dei clienti. Adulava i più poveri e sollecitava la distribuzione d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I fatti e la storia. La lupa
  4. Parte prima. ROMA MONARCHICA. La lupa
  5. Parte seconda. ROMA REPUBBLICANA. I fasci
  6. Parte terza. ROMA DEI CESARI. Le colonne e gli archi
  7. Parte quarta. ROMA DOMATA. La polvere
  8. Le fonti
  9. Copyright