Imperatrix
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Imperatrix

Elena, Costantino e la croce

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  1. 168 pagine
  2. Italian
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Imperatrix

Elena, Costantino e la croce

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«Da questi muri, da questi colori, da queste mie mani, la pellegrina venuta da tanto lontano si alzerà, riprenderà a camminare, continuerà a cercare la verità. La sta cercando ancora. La cercherà sempre.» Piero della Francesca sta dipingendo le Storie della Vera Croce in San Francesco ad Arezzo e ne discute con il padre guardiano della chiesa. Mentre la ritrae, immagina il destino di Elena, madre dell'imperatore Costantino, autrice, durante un pellegrinaggio in Palestina, del ritrovamento della croce su cui Cristo morì. Il dialogo fra i due personaggi offre a Edgarda Ferri un suggestivo espediente narrativo per rievocare la vita di questa straordinaria figura femminile assurta, insieme al figlio, a simbolo del trionfo della fede cristiana sul paganesimo. Di umili origini, Elena è una «stabularia», una locandiera, della Bitinia, una regione dell'Asia Minore, quando intorno al 270 Costanzo Cloro, cavaliere illirico che combatte nell'esercito romano, la sceglie come concubina. Lei lo segue nei suoi lunghi viaggi e dalla loro unione nascerà Costantino.
Sono anni di fermento: l'impero romano si sta dissolvendo, le invasioni barbariche hanno distrutto enormi ricchezze, le campagne sono desolate, la religione cristiana è in costante espansione; Roma, il caput mundi esaltato da cantori e poeti, è impoverita e avvilita.
Costanzo fa una rapida carriera e, divenuto membro della tetrarchia istituita da Diocleziano, abbandona Elena per sposare Teodora, figliastra dell'imperatore Massimiano, di cui è stato nominato «Cesare». Quando, nel 306, alla morte del padre, Costantino viene acclamato imperatore dall'esercito, Elena emerge dall'ombra in cui è finora vissuta e il suo nome viene nobilitato dall'appellativo di Flavia Giulia e dal titolo di «Augusta».
Consigliera prediletta del figlio, che la tiene alla sua destra nelle occasioni ufficiali, esprimerà le virtù richieste alle donne appartenenti alla famiglia imperiale: maestosità, solennità, pacatezza. In un clima di veleni e rivalità, che culminerà nella condanna a morte da parte di Costantino della moglie Fausta e del figlio Crispo, Elena accompagnerà l'imperatore nella sua inarrestabile ascesa ai vertici del potere, sancita nel 330 dalla nascita di Costantinopoli, la nuova capitale dell'impero. Inoltre, fondando chiese in Terra Santa e partecipando alla ricerca del Santo Sepolcro di Gerusalemme, sosterrà Costantino nel suo avvicinamento alla fede cristiana, legittimata dal famoso editto del 313.
Edgarda Ferri conduce il lettore in un affascinante viaggio attraverso i secoli, facendo emergere dall'oblio la biografia di una donna forte e determinata, la cui vita si intreccia con i più importanti personaggi del tardo impero romano, e che è ancora oggi oggetto di culto e di studio per la cristianità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852017469

LE GRANDI PERSECUZIONI

Diocleziano si era messo sotto la protezione di Giove, divinità pagana cara ai popoli greci e romani: segno già abbastanza evidente che la tolleranza verso i cristiani si stava di nuovo esaurendo. All’inizio non era sembrato un problema urgente. I seguaci di Cristo non avevano fino ad allora assunto comportamenti provocatori. Nei primi anni del regno, l’imperatore aveva addirittura dispensato i governatori di provincia e i magistrati cristiani dal compiere sacrifici agli dei. Del resto, gli conveniva tener conto che il loro appoggio poteva risultare prezioso: lo sapevano tutti che Claudio il Gotico non avrebbe mai potuto riconquistare Alessandria senza il loro aiuto. In ogni caso, l’imperatore era contrario allo spargimento di sangue. Superstiziosissimo, sapeva inoltre che una persecuzione religiosa contro una minoranza, peraltro oramai inserita in tutti i punti vitali dell’impero, avrebbe comportato pericoli seri.
Il suo atteggiamento incominciò a cambiare quando, durante un sacrificio agli dei, gli aruspici non riuscirono a trarre responsi divini dai visceri delle vittime. Le chiome sciolte, le vesti stracciate, squassata dal furore profetico, la druidessa si disperava per il disastro mentre, dal fondo della spelonca, giungeva l’eco della voce di Apollo vaticinante: «Sulla terra vivono uomini capaci di far dire il falso agli oracoli». Sconvolto, Diocleziano aveva chiesto chi fossero gli uomini cui alludeva l’indignata divinità. «Sono i cristiani, fermi e cocciuti sostenitori che la verità si possa leggere soltanto sulle loro Scritture» gli aveva risposto uno dei sacrificatori indicando, uno per uno, tutti quelli che facevano parte della corte, comprese le guardie del corpo imperiale. Diocleziano ordinò a tutti i presenti di compiere un sacrificio agli dei. Subito. E chi non avesse obbedito sarebbe stato radiato da qualsiasi incarico.
Molti militari e molti cortigiani si dimisero mentre erano ancora davanti a lui: pronti a perdere ogni grado militare o sociale, a cominciare dal loro stipendio. Ma non ci furono arresti, né feriti, né morti. Benché escludesse automaticamente i suoi membri da ogni incarico pubblico, per il momento la professione della religione cristiana rimase licita, lecita. Alcuni funzionari di corte, come Gorgonio, Pietro, Doroteo, continuarono infatti a esercitare i loro compiti nel palazzo imperiale, mentre nessuno osò ricordare a Diocleziano che sua moglie Prisca era pagana e sacrificava agli dei, ma si teneva costantemente in contatto con la comunità dei cristiani.
Fu Galerio a convincere Diocleziano che era giunto il tempo di sradicare dall’impero la religione di Cristo. Rozzo, straripante di grasso e violenza, il figlio della sacerdotessa dei monti fecondata da un dio serpente si era precipitato a Nicomedia per incitarlo a reagire con la forza e col sangue. Diocleziano aveva trascorso i mesi dell’inverno fra il 302 e il 303 a discutere con lui e con Ierocle, il governatore della Bitinia (autore di un’opera dove, mettendo a confronto la figura di Gesù con quella di Apollonio di Tiana, favoriva quella del celebre mago e taumaturgo), convinto della necessità di eliminare i cristiani che, rifiutandosi di sacrificare e libare alla salute dell’imperatore, dimostravano di non riconoscere la sua divinità e la sua unicità col popolo romano. Frenato ancora una volta dal ribrezzo del sangue, Diocleziano aveva infine fatto ricorso al parere dell’oracolo di Mileto, che prontamente gli aveva risposto: «È giunto il momento di dare inizio alla persecuzione».
Il 23 febbraio dell’anno 303, Diocleziano decise che ogni innovazione in materia religiosa era da considerarsi un delitto: «E perciò, noi ci diamo la massima cura di punire la scellerata ostinazione di uomini malvagi che contrappongono nuove e sconosciute sette alle antiche pratiche religiose». Ordinò che i loro fondatori e capi fossero bruciati sul rogo, la più severa delle punizioni. I loro partigiani, soprattutto se fanatici, sarebbero stati puniti con la morte, e le loro proprietà sequestrate a favore del fisco: «Perché la peste di questa scelleratezza deve essere estirpata dalle radici della nostra età felice». Ordinò la distruzione delle chiese cristiane, il rogo delle Scritture, la riduzione in schiavitù dei liberti al servizio imperiale, e l’«infamia» per il clero, privato del diritto di ricorrere in giudizio e di conseguenza soggetto a qualsiasi azione legale.
Gli agenti imperiali eseguirono gli ordini. Alla presenza del prefetto pretorio, entrarono nella chiesa cristiana di Nicomedia distruggendo gli oggetti di culto e l’intero edificio. Il giorno dopo fu arrestato e bruciato un cristiano che aveva avuto l’ardire di stracciare pubblicamente una copia dell’editto affisso a un angolo di strada: «Legitime coctus» scrisse Lattanzio, che aveva assistito all’esecuzione e ascoltato l’imperatore mentre insisteva: «Andare contro gli dei immortali, o resistere loro, è opera empia; e la vecchia religione non deve essere corretta da una nuova. E infatti è un grandissimo crimine ritoccare ciò che i nostri antenati un tempo hanno definito fisso. Applichiamoci dunque a punire la testardaggine dei malvagi che oppongono alle vecchie religioni nuove sette».
Poco tempo dopo, il palazzo imperiale prese fuoco. Di lì a qualche giorno, un secondo incendio costrinse Diocleziano a uscire dalla città «per non correre il rischio di essere bruciato vivo». Costantino sostenne che si era trattato di un fulmine: poteva testimoniarlo, lo aveva visto con i suoi occhi. Il fulmine era considerato un segno nefasto, quasi sempre preludeva alla morte dell’imperatore. Fuggito insieme alla corte, Galerio aveva convinto Diocleziano che non si trattava di fulmini, ma di un incendio: e ad appiccare l’incendio erano stati i cristiani che abitavano nel palazzo imperiale. Diocleziano scatenò le guardie, arrestò tutti quelli che si erano dichiarati cristiani, torturò quelli che si rifiutavano di rivelare i nomi dei responsabili, ordinò a tutti i componenti della corte di compiere sacrifici agli dei. Fecero sacrificio, senza battere ciglio, sua moglie Prisca e sua figlia Valeria. Tutti quelli che si rifiutarono furono decapitati o bruciati. L’ordine dell’imperatore fu applicato anche nelle altre province dell’impero. I cristiani furono accusati degli incendi e dei saccheggi delle residenze dei governatori della Cappadocia e della Siria: quando, in verità, tutti sapevano che la rivolta era nata dai cittadini che si erano ribellati sotto l’oramai insopportabile peso delle tasse.
Con un secondo editto, Diocleziano ordinò l’arresto di tutti i vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i lettori delle province ribelli. Le carceri non bastarono più a contenerli. «Una schiera sterminata di prigionieri fu riunita in ogni dove» scrissero i testimoni «e dovunque le prigioni, costruite diverso tempo prima per assassini e violatori di tombe, furono riempite di vescovi, di presbiteri e diaconi, di lettori e di esorcisti. Al punto che non vi fu più spazio per i criminali condannati.» Per svuotare le carceri, un terzo editto promise la liberazione per tutti coloro che avessero sacrificato agli dei e la morte per chi si fosse rifiutato. In ogni parte dell’impero i giudici obbligarono i cristiani a compiere sacrifici pubblici. «In caso di resistenza,» si precisava «il prigioniero sarà afferrato per le mani e trascinato all’altare. Gli sarà ficcato nella mano destra tutto l’occorrente per il sacrificio e sarà liberato soltanto se lo compirà.»
L’ordine di Diocleziano non fu sempre applicato alla lettera. Molti pagani erano infatti già stanchi di sangue. Dopotutto, i cristiani dimostravano di essere i cittadini più onesti e morigerati dell’impero: pagavano regolarmente le tasse, amministravano onestamente i beni che erano stati loro affidati, si sposavano una volta soltanto, facevano crescere i loro figli lontani dalla violenza. Una violenza che sempre più dilagava, soprattutto nelle campagne e nelle strade periferiche delle città, dove abitanti inermi e pacifici erano derubati, minacciati di morte o addirittura uccisi con coltelli, pugnali, lacci da strangolamento; dove i mercanti e i viaggiatori erano assaliti e spogliati dei loro carri carichi di spezie, stoffe, vasellame, denaro; dove i bambini rubati erano rivenduti al mercato degli schiavi. Nel pensiero cristiano il rifiuto della guerra e della violenza era infatti un comandamento assoluto, inderogabile: «Per un cristiano» aveva scritto Lattanzio nella sua opera Le istituzioni divine, l’uso della violenza è proibito. Anche in caso di legittima difesa».
Il 20 novembre 303, con un anno di anticipo, Diocleziano arrivò a Roma per celebrare il ventennale del suo regno. La sua presenza nell’antica capitale assunse un significato straordinario. Il fastoso programma prevedeva la sua salita in Campidoglio per sacrificare a Giove Capitolino, sotto la cui protezione si era messo da quando era stato acclamato imperatore. Il sacrificio doveva essere celebrato davanti a tutta Roma, e insieme a lui tutta Roma avrebbe ringraziato gli dei per la loro assistenza. Erano state organizzate grandi feste di popolo, con donazioni e distribuzioni di vino e cibo arrostito lungo le strade, corse con le bighe, duelli di gladiatori nelle arene, sfilate militari, esibizioni di ballerini, giocolieri, cantanti. Infastidito dal chiasso e dal trambusto del traffico, da una folla che strepitava più di un pollaio di galline eccitate per la presenza di un gallo, dalle acclamazioni volgari e sboccate, dalla meccanicità delle genuflessioni e dal cinismo di una città dove il Senato non contava più niente, i sacerdoti e i funzionari erano corrotti e i cittadini erano privi di qualsiasi senso morale, Diocleziano ripartì senza aspettare gli omaggi del Senato. Costretto a viaggiare in lettiga per un malore che lo aveva assalito non appena aveva oltrepassato le mura di Roma, attraversò l’Italia e le regioni balcaniche sotto intemperie e alluvioni; e, sempre più debole, più depresso, più solo, si chiuse nella reggia di Nicomedia tralasciando, persino, di andare a ringraziare gli dei.
Per tre mesi l’imperatore non esercitò le sue funzioni e non si seppe più niente di lui. Addirittura girò la voce che fosse già morto. Invece riapparve nella primavera del 304 quando, solennemente, emanò il quarto editto di persecuzione contro i cristiani. In assoluto, il peggiore. Tutti i cittadini dell’impero erano obbligati a sacrificare pubblicamente, mangiando una parte della vittima e bevendo il vino del sacrificio. Chiunque si fosse rifiutato, sarebbe stato torturato, ucciso, mandato ai lavori forzati nelle miniere senza processo né possibilità di difesa. Fu uno sterminio. Molti pagani salvarono amici e conoscenti cristiani dichiarando di averli visti con i loro stessi occhi compiere il sacrificio, o liberandoli prima che arrivassero all’altare. Trascinato già svenuto nel recinto del sacrificio, sciolto dai ceppi come se fosse morto, un cristiano fu addirittura sollevato, gettato fuori di peso e contato tra quelli che avevano sacrificato. Un altro, che non smetteva di urlare che mai e poi mai avrebbe reso onore agli dei, fu zittito con un pugno alla bocca e scaraventato fuori dalla prigione.
I martiri si moltiplicarono, soprattutto nelle province dell’Africa, in Mauritania, in Egitto e in Palestina. Morti sotto tortura, bruciati, decapitati, inchiodati sulle croci a testa in giù come i malfattori, lasciati appesi fino a morire di fame e di sete. A decine, centinaia, migliaia. Uomini, donne, bambini e vecchi. Una piccola città della Frigia fu circondata e incendiata con dentro tutti i suoi abitanti. A tanti cristiani in Arabia fu tagliata la testa a colpi di scure, in Cappadocia furono spezzate le gambe, in Mesopotamia essi furono appesi capovolti sopra un fuoco lentissimo e morirono soffocati dal fumo, ad Alessandria subirono mutilazioni al naso, alle orecchie, alle mani, ad Antiochia furono arrostiti sulle graticole, nel Ponto ebbero le dita trafitte da chiodi e spilloni e il petto, la schiena, i testicoli, la vagina ustionati da piombo fuso rovente. Molti si uccisero per evitare la pena del supplizio. Molti cedettero, spergiurando di non essere cristiani e sacrificando agli dei.
Nei primi anni, anche Costanzo perseguitò i cristiani della Gallia. In seguito, si limitò ad applicare una piccola parte degli editti imperiali vietando le preghiere e le riunioni in luoghi pubblici e ordinando la distruzione delle chiese. «Lasciò che si distruggessero i luoghi di riunione. Serbò invece incolume il vero Tempio di Dio, che è negli uomini» scrisse infatti Lattanzio. Il mite soldato che aveva lasciato Elena e il loro bambino per sposare Teodora chiamò infine alla sua presenza i cristiani che lo servivano nella reggia: dagli alti magistrati ai più umili servitori. Disse loro che potevano scegliere: chi avesse sacrificato agli dei sarebbe rimasto a palazzo godendo di tutti i privilegi finora accordati; gli altri sarebbero stati espulsi dal palazzo imperiale, privati della sua amicizia e della sua benevolenza. Si videro allora i cristiani che avevano rifiutato di sacrificare agli dei mettersi in fila e uscire singhiozzando dalle mura imperiali. E si vide Costanzo fermarli e dire: «Voi, e non gli altri, rimarrete al mio servizio, perché quelli che oggi hanno tradito la loro fede per un pezzo di pane saranno pronti, domani, a tradire anche l’imperatore». Li arruolò come guardie del corpo, li incaricò della custodia dell’impero, dichiarò che dovevano essere considerati i suoi amici più intimi, che bisognava trattarli con riguardo e stimarli molto più di un forziere ricolmo di grandi tesori.
Il primo giorno di maggio dell’anno 305, Diocleziano salì sulla collina dedicata a Giove, appena fuori dalle mura di Nicomedia. Dall’alto di una tribuna sovrastata dalla gigantesca statua del suo dio protettore, l’imperatore contemplò in silenzio l’immenso, ondeggiante e purpureo mare dei labari issati su lunghe aste metalliche culminanti con le statuette dorate degli animali che contrassegnavano ciascuna legione: il leone, la tigre, il giaguaro, l’aquila, il serpente. Vide l’esercito schierato in quadrato, scintillante di corazze, elmi, armi da grande parata, fissare lo sguardo su di lui, assiso sul trono d’oro massiccio accanto alla moglie Prisca, alla figlia Valeria, al suo Cesare Galerio, al prediletto Costantino. Costantino aveva venticinque anni e un figlio di due, nato dalla concubina Minervina, probabilmente morta di parto. Il bambino si chiamava Crispo. Costantino l’aveva affidato a Elena.
Avvolto nella veste intessuta d’oro e tempestata di pietre preziose, Diocleziano iniziò a parlare ai suoi soldati. Era una giornata di sole. A molti parve che i suoi occhi brillassero più del consueto. Qualcuno giurò che stava piangendo. Diocleziano incominciò: «Sono vecchio e malato, ho bisogno di quiete. Lascio il regno perché tale è il volere delle invitte divinità del fato». Annunciò solennemente: «In questo preciso momento anche l’altro Augusto, Massimiano, come aveva promesso, sta compiendo il mio stesso atto a Milano». Disse ancora: «Fra poche ore lascerò questa città, e tutti voi. Ai piedi della tribuna è pronto il carro che mi porterà ad Asphalatos, dove mi rifugerò fino alla fine dei miei giorni». E concluse: «Costanzo e Galerio assumeranno il titolo di Augusto. Ho scelto i loro Cesari: soldati valorosi, giovani. Soprattutto giovani, perché l’impero ha bisogno di sangue nuovo». Scandì i loro nomi: «Cesare di Costanzo sarà l’ufficiale Severo...» un altro ex barbaro, figlio di contadini illirici, valoroso in battaglia, resistente alla fatica, e anche al vino. Mentre stava per fare il nome del Cesare di Galerio, tutti fissarono gli occhi su Costantino: il principe prediletto, il «tribuno di massimo rango», fidanzato con la figlia di Massimiano e già destinato a far parte della famiglia imperiale. Invece si vide Galerio tendere un braccio all’indietro, scostare violentemente il figlio di Costanzo e di Elena, spingere avanti suo nipote Massimino Daia: un soldato ubriacone e senza valore. Allora l’esercito vide Daia spogliarsi della splendente armatura e, seminudo, avanzare verso il trono per inginocchiarsi ai piedi di Diocleziano. Si vide Diocleziano togliersi solennemente di dosso la porpora e tendere le braccia verso Daia per posargli sulle spalle il proprio manto.
Dal primo giorno di maggio dell’anno 305, Galerio e Flavio Valerio Costanzo, questo era l’appellativo che spettava al vecchio compagno di Elena, furono i nuovi Augusti. Costanzo governava l’Occidente. Risiedeva ufficialmente a Treviri, ma sempre più spesso si trasferiva a Eboracum (oggi York), al confine fra la Britannia romana e quella non ancora del tutto colonizzata, robustamente difesa da torri di guardia e mura di selce, pietrisco, mattoni, lastre di pietra. La ridondanza e la magnificenza con cui l’impero era solito imporsi alle province che via via conquistava era stata prudentemente evitata sull’isola fin dai tempi di Settimio Severo, il primo imperatore romano con la pelle scura, che negli ultimi tre anni di vita aveva soggiornato a Eboracum. Porte, monumenti, edifici pubblici, fori, archi e anfiteatri, costruiti con terrapieni e strutture in legno, anziché con marmi e pietre pregiate, avevano tenuto conto più dell’utilità che dell’ornamento. Anche le belle e comode ville sparse nelle campagne avevano rispettato uno stile sommesso, con statue e fontane nascoste nel folto dei giardini e dei parchi attraversati da torrenti e costellati di laghetti, dove liberamente correvano i cavalli e placidamente pascolavano i montoni e le pecore.
Distesa lungo il corso dell’Ouse, Eboracum era un centro nevralgico che teneva sotto controllo la Britannia: ribelle, battagliera, mai del tutto domata. Su incarico di Massimiano, il barbaro capitano di mare Carausio, appartenente a una tribù insediata sulla costa del Mare del Nord, aveva battuto i pirati sassoni e francesi. Ma invece di ritirarsi nei suoi territori, accontentandosi di regali e di onori, Carausio si era autoproclamato imperatore pretendendo la Britannia e la costa settentrionale della Gallia; e, condannato a morte dai romani per alto tradimento, tiranneggiava gran parte dell’isola. Costanzo era partito dal porto di Gesoriacum (oggi Boulogne-sur-Mer), aveva attraversato il mare con la sua flotta svelta e leggera, aveva imboccato il Tamigi. Era inverno, la nebbia confondeva le manovre delle navi romane. Affrontando pericoli e sovrumane fatiche, aveva raggiunto Londra, dove non aveva trovato resistenza ed era stato salutato come «restauratore dell’eterna luce di Roma». Senza usare violenza, senza abbandonarsi a vendette, aveva riorganizzato la difesa della città, ricacciato un’orda di razziatori alemanni, riportato la pace e la stabilità tanto care ai romani, e tanto a lungo interrotte.

IL RIFUGIO DEL VECCHIO IMPERATORE

Massimiano si era ritirato nella campagna lucana insieme alla moglie e alla figlia Fausta, fidanzata con Costantino da quando aveva tre anni. Aveva deposto la porpora solo perché lo aveva promesso a Diocleziano, ma non lo riteneva giusto: il patto era quello di lasciare il titolo di Augusto dopo vent’anni di regno, mentre a lui ne mancavano quasi altri due. Dopo aver attraversato la città sul suo grande carro coperto, Diocleziano aveva raggiunto l’insediamento greco di Asphalatos (oggi Spalato), la residenza della sua vecchiaia. Costruito a ridosso di una baia protetta, il palazzo si presentava come una mastodontica rocca, una fortezza poggiata su grandi e squadrati blocchi di pietra portati dall’isola della Brazza. Di pianta quadrata, era chiuso su tre lati da mura munite di porte e torrioni. Il quarto lato, aperto sull’imbarcadero, aveva una loggia con due torri al centro di una galleria coperta. Le mura rivolte alla terraferma erano alte 18 metri, spesse 2, lunghe 215. Quelle rivolte al mare erano appena un poco più corte. Dentro le mura, al centro del grande quadrato tracciato come un campo militare romano, e tagliato dal cardo e dal decumano, sorgeva la sala imperiale: alta 9 metri, di forma circolare all’interno ed esagonale all’esterno, con un grande peristilio rettangolare scoperto e circondato da portici poggiati su colonne di marmo grigio e rosa ornate da capitelli corinzi. Sotto la sala, era stato scavato un largo corridoio che, in caso di pericolo, portava direttamente al mare.
Le stanze di Diocleziano, l’appartamento privato di Prisca, i saloni di rappresentanza, la biblioteca, il triclinio, le fontane, i bagni, i pavimenti erano decorati con marmi intarsiati, vetri siriani ornati con delicati motivi di uccelli, palmette, frutta, fiori, mosaici dorati, affreschi dipinti a colori vivaci. Di fronte al tempio di Giove, il dio che lo aveva protetto nel corso della sua formidabile carriera, Diocleziano aveva ordinato la costruzione di un mausoleo appoggiato su ventiquattro colonne, coperto da una cupola scintillante di lamine d’oro, destinato alla sua sepoltura e a quella della sua sposa. Il palazzo era circondato da grandi orti, prati, campi coltivati a verdure e percorsi da cavalli dalle criniere bionde e leggere. Sulle alture, pastori dalle lunghe giubbe foderate di pelo e le bracae di pelle, come ancora portavano i barbari, custodivano placidi greggi zufolando in una canna intagliata, intrecciando canestri, cagliando il latte per ricavarne formaggi, inseguendo il sogno di una scodella calda, un paio di stivali con la suola nuova, un tetto, una donna, dei figli. A pochi passi da loro, l’uomo che aveva preteso di essere trattato come un dio fino a quando era stato imperatore cercava di lenire i tormenti dei suoi nervi sfiniti e delle sue fragili ossa coltivando cavoli.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Imperatrix
  3. La stabularia
  4. Il cavaliere illirico
  5. Verso la fine di un mondo
  6. L’uomo che sconvolse il destino di Elena
  7. Il cristianesimo
  8. Tutte le divinità dell’impero
  9. Le persecuzioni di Decio e Valeriano
  10. La nascita di Costantino
  11. Elena, una vittima del potere
  12. Le quattro capitali dell’impero
  13. Le donne di Costanzo
  14. Come un principe
  15. Le grandi persecuzioni
  16. Il rifugio del vecchio imperatore
  17. Costantino e Costanzo
  18. Il figlio imperatore
  19. Il ritorno di Elena
  20. Il ribelle Massenzio
  21. Morte del primo rivale
  22. Morte del secondo rivale
  23. Eutropia
  24. Verso Roma
  25. Il sogno di Costantino
  26. La battaglia di Ponte Milvio
  27. Costantino a Roma
  28. Morte del terzo rivale
  29. I primi segni della croce
  30. Feste per il compleanno di Elena e il matrimonio di Crispo
  31. Venti di guerra
  32. Sconfitta e rovina dell’ultimo rivale
  33. La nuova Roma
  34. Portatore di pace
  35. Veleni e orrendi, misteriosi delitti
  36. Dopo il delitto
  37. Verso Costantinopoli
  38. Lettere a Gerusalemme
  39. La partenza
  40. Il tempio di Gerusalemme
  41. La fondazione di Costantinopoli
  42. Il viaggio di Elena
  43. Elena a Gerusalemme
  44. La ricerca della croce
  45. Epilogo
  46. Bibliografia
  47. Dello stesso autore
  48. Colophon