Ulisse era un fico
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Ulisse era un fico

  1. 180 pagine
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Ulisse era un fico

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"Perché leggere l' Odissea?" potrebbero chiedersi i ragazzi di oggi. Perché perdere tempo con la mitologia che racconta storie di migliaia di anni fa quando adesso abbiamo a disposizione i videogiochi, la televisione e i film in 3D?
Perché, parola di Luciano De Crescenzo, le storie degli eroi e degli dèi dell'Olimpo sono piene di colpi di scena, di amori, tradimenti, viaggi da sogno e vendette alla Rambo. Perché la mitologia è "la capostipite di tutte le telenovelas, la madre di tutti i romanzi d'avventura, il prototipo di tutti i serial". Perché Ulisse era, più di tanti vip del nostro tempo, un vero "fico".
Dopo Socrate e compagnia bella, De Crescenzo dedica al nipote e a tutte le nuove generazioni questo atto d'amore per Ulisse e tutti i miti greci, nella speranza, pagina dopo pagina, di trasmettere, come un contagio, la sua passione: "Vorrei farti travolgere dalle avventure di Ettore e Achille, farti sorridere per le bisbocce fra Zeus ed Era, commuovere per la vicenda di Orfeo ed Euridice. Tu che così tanto tempo passi davanti allo specchio, avrai da pensare leggendo il mito di Narciso, e troverai un compagno della tua voglia di ribellione nel testardo Prometeo. L'amore, che in questi anni stai scoprendo, lo troverai riflesso ed esaltato nella favola di Amore e Psiche, ma anche nei suoi aspetti meno 'platonici', nei ritratti di Dioniso e Afrodite. In mezzo a dèi ed eroi ritroverai pregi e difetti di noi umani, e ti sorprenderai che storie raccontate migliaia di anni fa abbiano così tanti punti in comune con la tua vita di ogni giorno".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852014185

DÈI

Il mito di Narciso

Caro Michelangelo,
il primo mito di cui voglio parlarti è quello di Narciso. Tu forse ancora non lo sai ma noi esseri umani siamo tutti un po’ narcisi, anche quelli non propriamente bellissimi: ci piace guardarci nello specchio, e più di tutto ci piacerebbe vederci in televisione.
La tesi che siamo tutti narcisi, è bene chiarirlo, non è mia, ma di Freud. L’inventore della psicoanalisi, all’inizio, era convinto che il narcisismo fosse solo una perversione, poi, avendone trovato tracce in quasi tutti i pazienti, gli venne il sospetto che si trattasse invece di una componente comune della psiche umana, “complemento libidico dell’istinto di conservazione”. Detto più terra terra, ognuno di noi, anche quando ama, pretende di riscontrare nel proprio partner dei segni di gradimento. Ebbene, dice Freud, quando ciò accade è come se considerassimo la persona amata uno specchio dove poterci guardare.
Narciso, diciamolo subito, era un po’ narcisista. Fin da piccolo non manifestò alcun segno di curiosità verso il mondo esterno: amici o amiche non ne aveva, tantomeno fidanzate o amanti. Ma procediamo con ordine e cominciamo col parlare dei suoi genitori.
Una bella mattina la cerulea Liriope, mentre faceva il bagno nuda, fu sedotta dal fiume Cefiso, “in un avvolgente gorgo” per dirla con Ovidio. Dopo nove mesi...
La bella partorì tale un bambino
che già poteva innamorar col riso;
e tosto consultò, s’era destino
che lunga età vivesse il suo Narciso,
che tal nomollo. E a lei: «Sì» l’indovino
«se non vedrà» rispose «il proprio viso».
Ovidio, Metamorfosi, III
Tradotto in parole più attuali, il giorno stesso in cui partorì Narciso, sua madre chiese a un indovino, il cieco Tiresia, quante probabilità avesse il neonato di giungere alla vecchiaia. E Tiresia rispose:
«Vivrà finché non vedrà la propria immagine.»
O, per essere più precisi, si se non noverit, che significa “finché non conoscerà se stesso”. Immaginiamoci come ci rimase la povera Liriope: fu costretta a far sparire di casa tutte le superfici riflettenti, e come tali gli specchi, i vetri, le pentole di rame, le lastre di argento e via enumerando.
Giunto all’età di sedici anni, Narciso divenne il più bel giovanotto del paese. «Dal monte Elicona al mare» dicevano a Tespi, «nessuno è pari, in quanto a bellezza, al figlio di Liriope, e chiunque lo vorrebbe come amante.» Ma il ragazzo, lo abbiamo già detto, non amava il prossimo suo.
Lui ben mille garzon, mille bramaro
donzelle accarezzar; ma tal dispetto
in sì tenera età nutre e alterezza,
che i lor voti non ode e li disprezza.
Ovidio, Metamorfosi, III
Nulli illum iuvenes, nullae tetigere puellae, come dire che non si filava nessuno, né i maschietti, né le femminucce. Una volta un ragazzo, un certo Aminia, gli scrisse un bigliettino:
“Dammi un pegno che m’ami, o dolce amico, ché, senza di te, preferirei morire!”
Ebbene, quale pegno pensate gli abbia inviato Narciso? Una spada! Sissignore, proprio una spada, come a dire: «Ammazzati pure, tanto io me ne frego!». E quello si ammazzò sul serio: si recò una sera davanti al suo portone e s’infilzò con la spada che aveva appena avuta in regalo, dopo avere invocato, però, sul capo dell’amato la vendetta degli Dei.
Che un uomo potesse suicidarsi perché non corrisposto da un ragazzo non era un caso insolito nel mondo greco. In proposito, ti voglio citare uno degli idilli più struggenti di Teocrito, poeta siracusano del III secolo a.C., che ben si adatterebbe al caso di Aminia e Narciso.
Un uomo appassionato amava un giovane crudele,
bello d’aspetto, ma non di cuore:
odiava chi l’amava e niente era dolce in lui,
non conosceva Eros, né il suo potere, né la forza
del suo arco, né le amare ferite dentro il petto.
Teocrito, Idilli, XXIII
Ma l’amore, si sa, non si scoraggia per così poco: più viene ostacolato e più si attizza, e soprattutto passa sopra a qualsiasi difetto della persona amata.
Anche così era bello: la sua collera dava nuova
passione all’amante, che alla fine non resse alla
fiamma impetuosa. Andò a quella casa nemica
e pianse davanti alla porta. Baciò la sua soglia,
e lasciò che il dolore fluisse. «Ragazzo crudele,
ragazzo di pietra, implacabile, indegno d’amore,
io vengo a portarti l’ultimo dono: il mio cappio.
Non voglio più affliggerti con la mia presenza:
io vado dove tutti gli amanti trovano il farmaco
giusto per dimenticare, il fiume dell’Oblio.
Seppure nemmeno accostandolo alle labbra, e
bevendolo tutto di un fiato, riuscirei a spegnere
questo amore. Un saluto d’addio alla tua porta.»
Teocrito, Idilli, XXIII
Detto fatto, l’amante s’impicca: fissa il cappio alla trave della porta e sale su una grossa pietra. Prima, però, di dare il calcio alla “pietra fatale”, così come la definisce Teocrito, supplica ancora una volta il ragazzo crudele.
Fammi un favore, fanciullo, in quest’ultima ora:
quando uscirai e alla tua porta mi vedrai impiccato,
non ignorarmi: fermati e piangi, solo un istante.
Poi staccami dal nodo e vestimi con i tuoi vestiti,
e dammi un estremo, unico bacio. Dona per un attimo
le tue labbra al mio cadavere. Non temere: io non
potrò abbracciarti. E prima di andare via, grida
forte, tre volte: «Riposa in pace, mio caro».
E scrivi questo epitaffio: «Fermati viandante,
è l’amore che l’ha ucciso. Aveva un amico crudele!».
Teocrito, Idilli, XXIII
Che il fanciullo fosse crudele, non ci sono dubbi; Teocrito, infatti, chiude l’idillio scrivendo:
Aprì la porta il ragazzo e vide il cadavere,
ma il suo cuore non ne fu commosso e non pianse.
Se ne andò tranquillo alle gare del ginnasio
e poi, come sempre, se ne andò in piscina.
Teocrito, Idilli, XXIII
Più o meno così era anche Narciso: non aveva amici e non parlava con nessuno. Unica sua passione, la caccia, ovviamente da solo. E stava per l’appunto cacciando un cervo, quando incontrò la bella Eco. Ma chi era Eco? Era una ninfa dei Monti, una delle Oreadi, celebre invece per la sua parlantina.
Si racconta che un giorno Zeus, avendo notato questa propensione di Eco per il pettegolezzo, l’avesse spinta a distrarre sua moglie Era, in modo da potersela filare con una sua amante, senza essere visto.
«Tu» disse alla ninfa, «raccontale le ultime novità dell’Olimpo, dille di quella volta in cui Afrodite fu scoperta a letto con Ares, e di tutte le arrabbiature che si prese Efesto, insomma, tienila impegnata per un paio d’ore.»
Era però si accorse che Eco “la intratteneva con sua accorta favella finché il consorte con la rival fuggiva” (Ovidio, Metamorfosi, III) e la volle punire. Le mise una mano sulla bocca e le tolse l’uso della parola.
«Da oggi in poi» le disse «con quella stessa lingua con la quale mi hai frastornato, potrai solo raddoppiare i suoni che udranno le tue orecchie, e non potrai parlare, se non al termine dell’altrui parlare.»
Ovidio, Metamorfosi, III
Povera Eco: non solo le avevano tolto la facoltà di spettegolare, ma anche di comunicare i propri sentimenti all’uomo che amava. E già, perché nel frattempo Eco si era perdutamente innamorata di Narciso. Com'era successo? Be’, per caso, mentre vagava per le foreste sulle falde dell’Elicona.
Quando essa lo vide aggirarsi tra i boschi, si accese di tenero amore e di nascosto ne seguì le orme, e quanto più gli si accostava, tanto più le s’infiammava il cuore, così come lo zolfo che è in cima alle fiaccole prende fuoco non appena vede la fiamma che gli si avvicina. Oh, poterlo fermare! Oh, potergli rivolgere frasi amorose e suadenti preghiere!
Ovidio, Metamorfosi, III
Ma come fare a dirgli tutto quello che aveva nel cuore? Lei, in pratica era muta, era una che poteva solo ripetere le ultime sillabe che udiva. Ecco, comunque, parola più parola meno, quello che si dissero quel giorno Eco e Narciso:
«Chi è costei che m’insegue?»
«... segueee.»
«Cosa vuoi da me orribile donna?»
«... donnaaa.»
«Lo vuoi capire o no che voglio restar solo!»
«... solooo.»
«Vattene via, ho detto: vattene via!»
«... viaaa» ripeté Eco, e Narciso se ne andò.
E da quel giorno Eco, sentendosi rifiutata, visse in solitarie caverne e si coprì di foglie il volto reso rosso dalla vergogna. E così accadde che la passione e il dolore per il rifiuto ebbero ragione di lei: cominciò a consumarsi dal di dentro, la pelle le si raggrinzì addosso, e nel giro di pochi giorni sparì del tutto. Di lei restò nell’aria solo la voce, o per meglio dire la capacità di ripetere l’ultima parola che udiva. Ormai Eco era diventata un suono.
Ovidio, Metamorfosi, III
L’episodio del suicidio di Aminia e subito dopo quello di Eco, consumatasi per amore, rese impopolare Narciso.
«Ma chi si crede di essere questo vanesio!» cominciò a dire la gente. «Che possa essere rifiutato al pari di come rifiuta!» La voce, a forza di circolare, giunse agli Dei e in particolare alla Dea di Ramnunte, la terribile Nemesi. E così accadde che un giorno Narciso venne attratto da una limpida fonte situata in mezzo ai monti.
Ovidio, Metamorfosi, III
Si trattava, racconta Ovidio, di un minuscolo lago al quale non si erano mai accostati né pastori, né capre, né uccelli, né fiere.
Qui, dall’arsura e dal cacciar già lasso,
tratto al bel di quel loco il giovinetto
per dissetarsi un dì rivolse il passo;
ma un’altra sete, ohimè, crebbegli in petto!
Ché mentre chino a ber pende sul basso
fonte, avvisa nell’onda il proprio aspetto:
attento il guata, e tanto error l’ingombra,
che stima corpo una fuggevol ombra.
Ovidio, Metamorfosi, III
Ma cosa vide Narciso nell’acqua?
Per la prima volta vide i suoi occhi, e li scambiò per una coppia di stelle, e per la prima volta vide i suoi capelli e li trovò degni di Apollo o di Dioniso, e per la prima volta vide le sue guance ancora imberbi, il collo d’avorio, la tenera bocca, e l’incarnato rosa misto al candore della neve. Ignaro, cominciò a bramar se stesso. Lodò e fu lodato. Desiderò e fu desiderato. E quante volte baciò la fonte ingannatrice, e quante volte immerse nell'acqua le tremanti braccia, pur non riuscendo ad abbracciare la persona amata!
Ovidio, Metamorfosi, III
Raramente un amante, rivolgendosi all’amato, riuscì a essere più tenero di Narciso, il giorno in cui s’innamorò della propria immagine! Senti quel che fu capace di dirsi:
«Chiunque tu sia, ragazzo, esci dall’acqua e vienimi incontro! Perché hai deciso di farmi soffrire? Perché mi sfuggi? Perché fai di tutto per sottrarti al mio amore? Eppure quando ti tendo le braccia, anche tu me le tendi; e quando sorrido, anche tu mi sorridi, e quando piango anche tu piangi, e mischi le tue lacrime alle mie nella medesima acqua.»
Ovidio, Metamorfosi, III
Da questo punto in poi il mito di Narciso si dirama in diversi finali a seconda degli autori. Provo a citartene alcuni.
In una raccolta di favole del Duecento, nota come Il Novellino, leggiamo che il “molto bellissimo” Narciso, avvilito dall’inutilità dei suoi sforzi, si lasciò cadere nel laghetto e, salute a noi, vi morì annegato, anche perché, malgrado fosse figlio di un fiume e di una ninfa delle acque, non sapeva nuotare. Eccotene la versione originale:
Narcis fue molto bellissimo. Un giorno avenne ch’e’ si riposava sopra una bella fontana. Guardò nell’acqua e vide l’ombra sua ch’iera molto bellissima: incominciò a riguardarla e rallegrarsi sopra la fonte, e l’ombra sua facea il simigliante; e così credette che quella fosse persona che avesse vita, che istesse nell’acqua, e non si acorgea che fosse l’ombra sua. Cominciò ad amare, e inamoronne sì forte, che la volle pigliare; e l’acqua si turbò e l’ombra spario, ond’elli incominciò a piangere sopra la fonte; e l’acqua schiarando, vide l’ombra che piangea in sembiante sì com’egli. Allora Narcis si lasciò cadere nella fonte, di guisa che vi morìo e annegò.
Il Novellino, XLVI
Più fantasiosa la versione di Pausania. L’autore della più antica Guida della Grecia sostiene che Narciso, in realtà, era stato molto innamorato di una sua sorella gemella, morta di malattia, e che, quando si chinò sulla fonte per bere, gli sembrò di vederla rinascere.
Narcisso avea una sorella gemella, in tutte le altre cose simile a lui nell’aspetto, così come ambedue avean simile la chioma e la veste con cui erano vestiti, e alla caccia andavano insieme; si accese allora Narcisso d’amore per la sorella. Allorquando però la fanciulla morì, recandosi egli ogni giorno alla fonte, pur comprendendo che quella che vedeva altri non era che la sua immagine riflessa, era pur sempre per lui un all...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Introduzione
  3. Dèi
  4. Eroi
  5. Ulisse