Il vento gelido soffiava a raffiche dall’East River facendo svolazzare il cappotto della dottoressa Kay Scarpetta, che camminava di buon passo lungo 30th Street.
Mancava una settimana a Natale, ma non c’era nemmeno un accenno di atmosfera festiva in quello che lei chiamava il “triangolo tragico” di Manhattan, tre vertici uniti da squallore e morte: alle sue spalle il Memorial Park, il tendone bianco dove erano conservati sotto vuoto i resti umani mai identificati o ritirati dopo l’11 settembre; più avanti, sulla sinistra, l’edificio di mattoni rossi in stile gotico che un tempo ospitava l’ospedale psichiatrico di Bellevue e ora era un centro di accoglienza per i senzatetto; di fronte, l’OCME, l’Istituto di medicina legale. Lì una delle saracinesche grigie dell’ingresso di servizio era aperta e un camion si stava avvicinando in retromarcia per scaricare assi di compensato. Per tutta la giornata c’era stato un gran baccano, un martellare costante nei corridoi dell’obitorio, dove i rumori risultavano amplificati come in un anfiteatro. Gli operai montavano a ritmo serrato bare di pino di tutte le misure, per adulti e bambini poveri. Ma le bare non bastavano mai. Conseguenza della crisi. Come tutto.
Kay Scarpetta era già pentita di avere comprato il cheeseburger con patatine fritte che portava con sé nella confezione di cartone. Chissà quanto tempo era stato esposto nella vetrina della mensa alla facoltà di Medicina della NYU. Erano quasi le tre del pomeriggio, troppo tardi per pranzare. Sapeva che quel panino sarebbe stato disgustoso, ma purtroppo non aveva avuto il tempo di ordinare dal menu o di prendere un’insalata al buffet, in modo da mangiare qualcosa di più sano o almeno più appetitoso. Erano arrivati quindici cadaveri da quella mattina: suicidi, vittime di incidenti, morti ammazzati e indigenti periti senza assistenza medica o in totale solitudine.
Aveva cominciato alle sei per portarsi avanti con il lavoro e alle nove aveva già completato le prime due autopsie, tenendosi per ultima la peggiore: una giovane donna con lesioni e artefatti di difficile spiegazione, su cui aveva passato molto tempo. Ci si era dedicata per oltre cinque ore: aveva preso meticolosamente appunti, fatto disegni precisi e scattato decine di fotografie. Aveva inoltre conservato l’intero cervello dentro un secchio di formalina per poterlo esaminare ulteriormente in seguito e aveva raccolto più fluidi, sezioni di organi e tessuti di quanto facesse abitualmente, cercando di conservare e documentare tutto il possibile. Era un caso molto particolare, non tanto perché insolito, quanto perché pieno di contraddizioni.
Le modalità e la causa del decesso della ventiseienne Toni Darien erano di una banalità deprimente. Non c’era voluto un esame post mortem particolarmente lungo per trovare risposta alle domande più elementari. Si trattava di un omicidio per trauma contusivo, un solo colpo alla nuca inferto con un oggetto probabilmente verniciato di vari colori. Quel che non tornava era tutto il resto. Subito dopo il ritrovamento del cadavere, poco prima dell’alba, ai margini di Central Park, a una decina di metri da East 110th Street, si era ipotizzato che la ragazza fosse andata a fare jogging la sera prima e fosse stata aggredita, violentata e uccisa sotto la pioggia. Aveva i pantaloni della tuta e le mutande intorno alle caviglie, il pile e il reggiseno sportivo tirati su, il seno scoperto e intorno al collo una sciarpa in Polartec legata stretta, con due nodi. A prima vista, gli agenti di polizia e i tecnici dell’Istituto di medicina legale intervenuti sul posto avevano pensato che fosse stata strangolata.
Ma non era così. Quando Kay aveva esaminato il cadavere nella sala anatomica, non aveva trovato nulla che indicasse che a causare la morte, o anche soltanto a contribuirvi, fosse stata la sciarpa: nessun segno di asfissia, nessuna reazione vitale tipo arrossamento o ecchimosi, solo un’abrasione non essudativa al collo, come se la sciarpa fosse stata legata dopo la morte.Era sicuramente possibile che l’assassino l’avesse colpita alla testa e solo in seguito le avesse stretto la sciarpa intorno al collo, forse senza rendersi conto che era già morta. Ma, in tal caso, quanto tempo aveva passato con lei? In base alle contusioni, all’edema e all’emorragia nella corteccia cerebrale, la donna non doveva essere morta subito, ma forse addirittura qualche ora dopo il trauma. Eppure accanto al cadavere c’era pochissimo sangue. La ferita alla nuca era stata notata solo dopo che era stato girato. Si trattava di una lacerazione di circa quattro centimetri, accompagnata da notevole gonfiore, ma da cui era fuoriuscito pochissimo liquido. L’assenza di sangue era stata attribuita alla pioggia, ma Kay nutriva forti dubbi al riguardo. Una lacerazione del cuoio capelluto di quelle dimensioni avrebbe dovuto sanguinare copiosamente ed era poco probabile che una pioggia intermittente e di intensità moderata fosse riuscita a lavar via quasi del tutto il sangue da capelli lunghi e folti come quelli di Toni Darien. Possibile che l’aggressore le avesse spaccato la testa e dopo fosse rimasto con lei all’aperto, in una fredda notte di pioggia, per poi stringerle una sciarpa intorno al collo in modo da essere sicuro che non sopravvivesse? Oppure si era trattato di un gioco sessuale particolarmente violento finito male? Perché il livor e il rigor mortis contrastavano così nettamente con gli indizi osservati sulla scena del ritrovamento? Sembrava che la ragazza fosse deceduta nel parco la sera precedente, e nello stesso tempo pareva morta da almeno trentasei ore. Kay era perplessa. Forse stava rimuginando troppo su quel caso, o forse non riusciva a pensare con lucidità perché era stressata e in ipoglicemia, non avendo mandato giù niente in tutta la giornata, a parte troppi caffè.
Stava per arrivare in ritardo alla riunione delle tre e voleva essere a casa per le sei, per poter andare in palestra e cenare con il marito, Benton Wesley, prima di correre alla CNN. Non aveva nessuna voglia di partecipare al Crispin Report ed era pentita di aver accettato. Perché si era lasciata convincere ad andare in televisione a parlare con Carley Crispin delle alterazioni post mortem dei capelli e dell’importanza della microscopia e delle altre discipline forensi? Erano argomenti sui quali l’opinione pubblica nutriva molte false convinzioni proprio a causa della televisione. Eppure Kay si era lasciata coinvolgere. Con la confezione del cheeseburger in mano, varcò la soglia del magazzino, pieno di scatoloni e casse di forniture per ufficio e medicali, di carrelli metallici e assi di compensato. La guardia, al telefono dietro la parete in plexiglas, la lasciò passare senza quasi vederla.
Arrivata in cima alla rampa, Kay aprì la pesante porta di metallo con la scheda magnetica che aveva appesa al collo ed entrò in una specie di catacomba piastrellata di bianco, con rifiniture verdi e corrimani che sembravano portare dappertutto e da nessuna parte. Nei primi tempi, quando aveva cominciato a lavorare lì come anatomopatologa part-time, si perdeva spesso. Le capitava di finire nel laboratorio di antropologia invece che di neuropatologia o cardiopatologia, oppure nello spogliatoio degli uomini invece che in quello delle donne, o nella sala di isolamento invece che in quella settoria, oppure nella cella frigorifera, nella scala sbagliata o addirittura al piano sbagliato, quando prendeva il vecchio montacarichi di acciaio.
Poi aveva capito la logica della planimetria dell’edificio, strutturata in base a sensati flussi circolari che partivano tutti dall’ingresso di servizio, il quale, come il magazzino, era dotato di una grande saracinesca. Quando gli addetti ai trasporti consegnavano un cadavere, la barella veniva scaricata davanti all’ingresso di servizio e fatta passare sotto un rilevatore di radiazioni montato sopra la porta. Se non scattava nessun allarme – segno che non erano presenti sostanze radioattive quali per esempio i farmaci usati per la radioterapia nella cura di certi tumori – la fermata successiva era sulla bascula, dove il cadavere veniva pesato e misurato. Da lì prendeva direzioni diverse a seconda delle condizioni in cui era. Se era molto malconcio, o considerato potenzialmente pericoloso per i vivi, veniva chiuso nella cella frigorifera della sala di isolamento, che era dotata di uno speciale impianto di ventilazione e di altri sistemi di sicurezza.
Se invece era in buono stato, il cadavere veniva trasportato sulla barella lungo un corridoio a destra dell’ingresso, con eventuali fermate intermedie nella sala radiologia, nel deposito dei campioni istologici e nel laboratorio di antropologia forense. C’erano due celle frigorifere dove venivano riposti i corpi non ancora esaminati, mentre quelli che dovevano essere esposti e identificati salivano al piano di sopra in ascensore. C’erano poi i locali dove venivano conservati i reperti, la sala di neuropatologia, quella di cardiopatologia e la sala autopsie principale. Una volta espletate tutte le procedure, quando il cadavere era pronto per la restituzione alla famiglia, tornava all’ingresso di servizio, dove veniva sistemato in un’apposita cella frigorifera. Era lì che avrebbe dovuto trovarsi Toni Darien in quel momento, chiusa in un sacco, su uno scaffale.
Invece no. Era su una lettiga davanti alla porta di acciaio della cella frigorifera, con un’addetta che le sistemava un telo azzurro intorno al collo, fin sul mento.
«Cosa succede?» le domandò Kay Scarpetta.
«C’è stata un po’ di agitazione. La porto al piano di sopra a far vedere.»
«A chi? E perché?»
«È arrivata la madre. Dice che non se ne va finché non gliela facciamo vedere. Non si preoccupi, ci penso io.» L’addetta, che si chiamava Renée, era sulla trentina, aveva i capelli ricci e gli occhi neri come l’ebano. Era molto brava a trattare con i familiari. Quindi, se aveva un problema, doveva trattarsi di una cosa seria. In genere Renée era in grado di placare chiunque.
«Credevo che l’avesse riconosciuta il padre» osservò Kay.
«Ha firmato i moduli e ha visto la foto che lei mi ha mandato via e-mail poco prima di andare in mensa. Subito dopo, però, è arrivata la madre e hanno cominciato a litigare nell’atrio, ma a litigare sul serio. Alla fine lui se n’è andato sbattendo la porta.»
«Sono divorziati?»
«E si odiano. Si capisce subito. La madre insiste per vedere il cadavere. Non c’è verso di dissuaderla.» Con le dita protette da guanti in nitrile viola, Renée scostò una ciocca di capelli umidi dalla fronte della morta e gliela sistemò dietro l’orecchio, in modo da coprire le suture dell’autopsia. «Lei deve andare alla riunione, vero, dottoressa? Ci penso io.» Guardò la confezione di cartone che Kay aveva in mano. «Non ha ancora pranzato? Non ha mangiato niente nemmeno oggi? Quanti chili ha già perso, dottoressa? Se va avanti così, la prenderanno per uno scheletro e finirà nel laboratorio di antropologia.»
«Perché litigavano?» chiese Kay.
«Per il funerale. La madre vuole portarla a Long Island, il padre nel New Jersey. La madre vuole farla tumulare, il padre è per la cremazione. Si sono accapigliati per la figlia.» E toccò di nuovo la morta, come per coinvolgerla nella conversazione. «Se ne sono dette di tutti i colori. Facevano un tale baccano che a un certo punto è uscito persino il dottor Edison.»
Il dottor Edison era il direttore dell’Istituto di medicina legale di New York, nonché il capo di Kay Scarpetta. Kay non si era ancora del tutto abituata ad avere un capo, dopo essere stata per tanto tempo lei a comandare. Ma non avrebbe voluto essere responsabile dell’Istituto di medicina legale di New York. Non che glielo avessero chiesto o ci fosse la possibilità che glielo chiedessero in futuro. Dirigere un istituto di quelle dimensioni era come fare il sindaco di una megalopoli.
«Be’, conosce la procedura» disse a Renée. «Se c’è una controversia, il cadavere non va da nessuna parte. Sospenderemo la consegna finché non riceveremo istruzioni dall’ufficio legale. Dunque, lei ha mostrato la foto alla madre, e poi cos’è successo?»
«Ho provato a mostrargliela, ma lei non ha voluto guardarla. Dice che vuole vedere la figlia e che non se ne va finché non glielo lasciamo fare.»
«È nella saletta riservata ai familiari?»
«È lì che l’ho lasciata. Le ho messo la pratica sulla scrivania, dottoressa, con le copie di tutti i documenti.»
«Grazie. Le darò un’occhiata appena torno in ufficio. Lei porti la salma di sopra: io mi occuperò del resto» disse Kay. «Può avvertire...