Notizia di un sequestro
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Notizia di un sequestro

  1. 308 pagine
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Notizia di un sequestro

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Informazioni sul libro

Riscoprendo la sua antica passione per l'inchiesta, il premio Nobel García Márquez ha voluto ricostruire le drammatiche vicende di ben dieci rapimenti effettuati in Colombia dai narcotrafficanti.
Una narrazione coinvolgente, frutto di tre anni di indagini.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852016097

1

Prima di salire sull’automobile si guardò alle spalle per essere sicura che nessuno la controllava. Erano le sei e trentacinque. Aveva fatto buio un’ora prima, il Parco Nazionale era male illuminato e gli alberi senza foglie avevano una sagoma spettrale contro il cielo fosco e triste, ma non sembrava che ci fosse nulla da temere. Maruja si sedette dietro l’autista, malgrado il suo rango, perché l’aveva sempre ritenuto il posto più comodo. Beatriz salì dall’altra parte e si sedette alla sua destra. Erano in ritardo di quasi un’ora sul solito programma, ed entrambe avevano un aspetto stanco dopo un pomeriggio soporifero con tre riunioni dirigenziali. Soprattutto Maruja, che la notte prima aveva dato una festa a casa sua e non era riuscita a dormire più di tre ore. Distese le gambe gonfie, chiuse gli occhi con la testa appoggiata allo schienale, e impartì l’ordine consueto:
«A casa, per favore.»
Facevano ritorno come ogni giorno, ora seguendo un percorso, ora seguendone un altro, sia per motivi di sicurezza sia per gli ingorghi stradali. La Renault 21 era nuova e confortevole, e l’autista la guidava con un rigore cauto. Quella sera l’alternativa migliore fu Avenida Circunvalar verso nord. Trovarono i tre semafori verdi e il traffico dell’imbrunire era meno convulso del solito. Anche nelle giornate peggiori ci mettevano mezz’ora dagli uffici fino alla casa di Maruja, sulla terza trasversale al N.º 84A-42, e l’autista portava poi Beatriz alla sua, distante sette isolati.
Maruja apparteneva a una famiglia di intellettuali di spicco con diverse generazioni di giornalisti. Lei stessa lo era, e più volte premiata. Da due mesi era direttrice di Focine, la compagnia statale per l’incremento cinematografico. Beatriz, sua cognata e sua assistente personale, era una fisioterapista dalla lunga esperienza che aveva fatto una pausa al fine di cambiare vita per qualche tempo. La sua responsabilità maggiore a Focine era tutto quanto avesse a che vedere con la stampa.
Nessuna delle due aveva motivo di temere qualcosa, ma Maruja si era quasi inconsapevolmente abituata a guardarsi alle spalle, a partire dall’agosto precedente, quando il narcotraffico aveva cominciato a sequestrare giornalisti con una furia imprevedibile.
Fu un timore motivato. Anche se il Parco Nazionale le era parso deserto quando si era guardata alle spalle prima di salire sull’automobile, otto uomini controllavano i suoi movimenti. Uno era al volante di una Mercedes 190 blu scuro, con targa falsa di Bogotá, parcheggiata sul marciapiedi lì davanti. Un altro era al volante di un taxi giallo, rubato. Quattro, con blue jeans, scarpe da tennis e giubbotti di pelle, si aggiravano tra le ombre del parco. Il settimo era alto e aitante, con un vestito primaverile e una valigetta da uomo d’affari che completava il suo aspetto di giovane dirigente. Da un piccolo bar all’angolo, a mezzo isolato di lì, il responsabile dell’operazione seguì quel primo episodio reale, le cui prove, meticolose e intense, erano cominciate ventun giorni prima.
Il taxi e la Mercedes seguirono l’automobile di Maruja, sempre a distanza minima, così come avevano fatto fin dal lunedì precedente per stabilire quali fossero le strade consuete. Di lì a venti minuti svoltò a destra in Calle 82, a meno di duecento metri dall’edificio di mattoni senza intonaco dove abitava Maruja col marito e uno dei figli. Avevano appena cominciato a salire la china ripida della via, quando il taxi giallo sorpassò l’automobile di Maruja, la spinse sul marciapiede a sinistra, e l’autista dovette frenare bruscamente per non scontrarsi. Quasi al contempo, la Mercedes si fermò dietro e gli tolse ogni possibilità di fare retromarcia.
Tre uomini scesero dal taxi e si diressero con passo deciso verso l’automobile di Maruja. Quello alto e ben vestito aveva un’arma strana che a Maruja sembrò una doppietta dal calcio tagliato con una canna lunga e grossa come un cannocchiale. In realtà, era una Mini Uzis 9 millimetri con un silenziatore capace di sparare un colpo dopo l’altro o raffiche di trenta pallottole in due secondi. Anche gli altri due aggressori erano armati di mitra e pistole. Quel che Maruja e Beatriz non poterono vedere fu che dalla Mercedes parcheggiata dietro scesero altri tre uomini.
Agirono con tale concerto e rapidità, che Maruja e Beatriz riuscirono a ricordare solo frammenti dispersi dei due minuti scarsi che durò l’aggressione. Cinque uomini circondarono la macchina e si occuparono al contempo di loro tre con un rigore da professionisti. Il sesto rimase a vigilare la via col mitra in resta. Maruja riconobbe il suo presagio.
«Andiamo via, Angel» gridò all’autista. «Salga sul marciapiede, non importa, ma andiamo via.»
Angel era pietrificato, anche se gli mancava comunque spazio per allontanarsi col taxi davanti e la Mercedes dietro. Temendo che gli uomini cominciassero a sparare, Maruja si strinse fra le braccia la borsetta come un salvagente, si nascose dietro il sedile dell’autista, e gridò a Beatriz:
«Si metta giù.»
«Neanche per sogno» mormorò Beatriz. «Se ci mettiamo giù ci ammazzano.»
Stava tremando ma era decisa. Convinta che fosse solo una rapina, si tolse senza difficoltà i due anelli dalla mano destra e li tirò dal finestrino, pensando: “Che vadano al diavolo”. Ma non ebbe il tempo di togliersi gli altri due dalla mano sinistra. Maruja, tutta raggomitolata dietro il sedile, non ricordò neppure di avere addosso un anello di diamanti e smeraldi e gli orecchini corrispondenti.
Due uomini aprirono la portiera di Maruja e altri due quella di Beatriz. Il quinto sparò in testa all’autista attraverso il finestrino con un colpo che riecheggiò solo come un sospiro per via del silenziatore. Poi aprì la portiera, lo tirò fuori, e gli sparò altri tre colpi a terra. Fu un destino scambiato: Angel María Roa era autista di Maruja solo da tre giorni, e stava inaugurando la sua nuova dignità col vestito scuro, la camicia inamidata e la cravatta nera degli autisti ministeriali. Il suo predecessore, ritiratosi spontaneamente la settimana prima, era stato l’autista ufficiale di Focine per dieci anni.
Maruja non si rese conto dell’attentato contro l’autista se non molto più tardi. Dal suo nascondiglio colse solo il rumore istantaneo dei vetri rotti, e subito dopo un grido perentorio quasi sopra il suo corpo: «Vogliamo lei, signora. Esca!». Un artiglio di ferro la prese per un braccio e la trascinò fuori dall’automobile. Lei oppose resistenza per quel che le fu possibile, cadde, si scorticò una gamba, ma i due uomini la sollevarono di peso e la portarono sulla macchina parcheggiata lì dietro. Nessuno si accorse che Maruja stringeva la sua borsetta.
Beatriz, che ha le unghie lunghe e dure e un buon addestramento militare, affrontò il ragazzo che cercò di tirarla fuori dall’automobile. «Me, non mi tocchi!» gli gridò. Lui si contrasse, e Beatriz si accorse che era nervoso quanto lei, e poteva essere capace di tutto. Cambiò tono.
«Io scendo da sola» gli disse. «Mi dica cosa devo fare.»
Il ragazzo le indicò il taxi.
«Salga lì sopra e si metta giù» le disse. «In fretta!»
Le portiere erano aperte, il motore in moto e l’autista immobile al suo posto. Beatriz si distese come le fu possibile nella parte posteriore. Il ragazzo la coprì col suo giubbotto e si accomodò sul sedile con i piedi sopra di lei. Altri due uomini salirono: uno accanto all’autista e l’altro dietro. L’autista aspettò il colpo simultaneo delle due portiere, e sgommò via verso nord per Avenida Circunvalar. Solo allora Beatriz si rese conto che aveva dimenticato la borsetta sul sedile della sua automobile, ma era troppo tardi. Più che la paura e la scomodità, quel che non poteva sopportare era la puzza di ammoniaca del giubbotto.
La Mercedes su cui avevano fatto salire Maruja era partita un minuto prima, e in una direzione diversa. L’avevano fatta sedere al centro del sedile posteriore con un uomo a ogni lato. Quello a sinistra la costrinse ad appoggiargli la testa sulle ginocchia in una posizione così forzata che quasi non riusciva a respirare. Accanto all’autista c’era un uomo che comunicava con l’altra macchina attraverso un radiotelefono primitivo. Lo sconcerto di Maruja era maggiore perché non sapeva in quale automobile l’avessero caricata – non si era accorta che si era fermata dietro la sua – ma sentiva che era nuova e comoda, e forse blindata, perché i rumori del viale arrivavano in sordina come un mormorio di pioggia. Non riusciva a respirare, il cuore le pulsava in gola e cominciava a sentire che stava soffocando. L’uomo accanto all’autista, che agiva da capo, si rese conto della sua ansia e cercò di calmarla.
«Stia tranquilla» le disse, da sopra la spalla. «Lei l’abbiamo presa perché consegni un comunicato. Fra poche ore se ne torna a casa. Ma se si muove fa una brutta fine, quindi stia tranquilla.»
Anche quello che la teneva sulle ginocchia cercava di calmarla. Maruja aspirò profondamente ed espirò dalla bocca, molto piano, e cominciò a riprendersi. La situazione mutò di lì a pochi isolati, perché la macchina finì in un ingorgo di traffico su una salita inevitabile. L’uomo col radiotelefono cominciò a gridare ordini impossibili che l’autista dell’altra macchina non riusciva a eseguire. C’erano diverse ambulanze bloccate in qualche parte dell’autostrada, e lo schiamazzo delle sirene e le strombazzate assordanti avrebbero potuto far impazzire chiunque non avesse i nervi saldi. E i sequestratori, almeno in quel momento, non li avevano. L’autista era così nervoso mentre cercava di farsi strada che sbatté contro un taxi. Fu solo un colpo, ma il taxista gridò qualcosa che accrebbe il nervosismo di tutti. L’uomo col radiotelefono diede l’ordine di avanzare a qualsiasi costo, e la macchina fuggì via per marciapiedi e terreni abbandonati.
Ormai libera dall’ingorgo continuò a salire. Maruja ebbe l’impressione che si dirigessero verso La Calera, una pendice della montagna molto trafficata a quell’ora. Maruja ricordò d’improvviso che in una tasca della giacchetta aveva alcuni semi di cardamomo, che sono un tranquillante naturale, e chiese ai suoi sequestratori il permesso di masticarli. L’uomo alla sua destra l’aiutò a cercarli nella tasca, e si accorse che Maruja aveva la borsetta stretta a sé. Gliela tolsero, ma le diedero il cardamomo. Maruja cercò di vedere bene i sequestratori, ma la luce era scarsissima. Si azzardò a domandare loro: «Chi siete?». Quello col radiotelefono le rispose con voce calma:
«Siamo dell’M-19.»
Una sciocchezza, perché l’M-19 era ormai nella legalità e stava svolgendo una campagna per entrare a far parte dell’Assemblea Costituente.
«Non scherziamo» disse Maruja. «Siete del narcotraffico o della guerriglia?»
«Della guerriglia» disse l’uomo davanti. «Ma stia tranquilla, l’abbiamo presa solo per un messaggio. Non scherziamo.»
Si interruppe per ordinare che spingessero giù Maruja, perché dovevano passare davanti a un posto di polizia. «Adesso non si muova e non dica una sola parola, o l’ammazziamo» disse. Lei sentì la canna di una pistola sul fianco e quello che le stava accanto terminò la frase.
«Ha un’arma puntata contro.»
Furono dieci minuti eterni. Maruja concentrò le sue forze, masticando i semi di cardamomo che la rianimavano sempre di più, ma la brutta posizione non le permetteva di vedere né di sentire cosa dicevano con i poliziotti, ammesso che dicessero qualcosa. Tuttavia, il sospetto iniziale che andassero verso La Calera divenne una certezza, e questo le produsse un certo sollievo. Non cercò di raddrizzarsi, perché si sentiva più comoda che con la testa appoggiata sulle ginocchia dell’uomo. La macchina percorse un sentiero di argilla, e dopo circa cinque minuti si fermò. L’uomo col radiotelefono disse:
«Siamo arrivati.»
Non si vedeva nessuna luce. A Maruja coprirono la testa con una giacca e la fecero uscire china, sicché l’unica cosa che vedeva erano i suoi stessi piedi che avanzavano, dapprima attraverso un cortile, e poi forse attraverso una cucina col pavimento di mattonelle. Quando la scoprirono si accorse che si trovavano in una stanzetta sui due metri per tre, con un materasso per terra e una lampadina rossa sul soffitto. Un istante dopo entrarono due uomini mascherati con una specie di passamontagna che in realtà era la gamba di una tuta, con i tre buchi degli occhi e della bocca. Da quel momento, per tutto il tempo della prigionia, non vide più nessuno in faccia.
Notò che i due che si occupavano di lei non erano gli stessi che l’avevano sequestrata. Gli abiti erano logori e sporchi, gli uomini erano più bassi di Maruja, che è alta un metro e sessantasette, e avevano corpi e voci giovani. Uno di loro ordinò a Maruja di consegnargli i gioielli che portava. «È per motivi di sicurezza» le disse. «Qui non le succederà niente.» Maruja gli consegnò l’anello di smeraldi e diamanti minuscoli, ma non gli orecchini.
Beatriz, sull’altra automobile, non riuscì a trarre nessuna conclusione sulla strada. Rimase sempre distesa a terra e non ricordava di essere salita su per una china ripida come quella di La Calera, né passarono per nessun posto di polizia, anche se era possibile che il taxi godesse di qualche privilegio per non essere fermato. L’atmosfera durante il percorso fu di grande nervosismo per via del traffico congestionato. L’autista gridava attraverso il radiotelefono che non poteva passare sopra le macchine, domandava cosa doveva fare, e questo rendeva più nervosi quelli dell’automobile davanti, che gli davano indicazioni diverse e contraddittorie.
Beatriz era rimasta molto scomoda, con una gamba piegata e stordita dal tanfo del giubbotto. Cercava di trovare una posizione. Il suo guardiano pensava che stesse ribellandosi e tentò di calmarla: «Tranquilla, tesoro, non ti capiterà niente» le diceva. «Dovrai solo portare un messaggio.» Quando infine capì che lei aveva una gamba messa male, l’aiutò ad allungarla e fu meno brusco. Più che altro, Beatriz non poteva sopportare che la chiamasse “tesoro”, e quella licenza la offendeva quasi più del tanfo del giubbotto. Ma quanto più lui cercava di tranquillizzarla tanto più lei si convinceva che l’avrebbero uccisa. Calcolò che il viaggio era durato al massimo quaranta minuti, sicché quando furono arrivati alla casa dovevano essere le otto meno un quarto.
L’arrivo fu identico a quello di Maruja. Le coprirono la testa col giubbotto puzzolente e la guidarono tenendola per mano e avvertendola di guardare solo a terra. Vide le stesse cose di Maruja: il cortile, il pavimento di mattonelle, e alla fine due rampe di scale. Le indicarono di andare a sinistra, e le tolsero il giubbotto. Ed ecco Maruja seduta su uno sgabello, pallida sotto la luce rossa dell’unica lampadina.
«Beatriz!» disse Maruja. «Lei qui!»
Ignorava cosa ne era stato di lei, ma aveva pensato che l’avessero liberata perché non c’entrava affatto. Tuttavia, vedendola lì, provò una grande allegria di non essere sola e anche un’immensa tristezza perché avevano sequestrato pure lei. Si abbracciarono come se non si fossero viste da molto tempo.
Era inconcepibile che potessero tutt’e due sopravvivere in quella stanza della mala morte, dormendo sopra un solo materasso buttato sul pavimento, e con due guardiani mascherati che non le avrebbero perse di vista neppure per un istante. Un altro tizio mascherato, elegante, robusto, alto non meno di un metro e ottanta, che gli altri chiamavano il Dottore, assunse allora il comando con arie da gran capo. A Beatriz tolsero gli anelli dalla mano sinistra e non si accorsero che portava una catena d’oro con una medaglia della Madonna.
«Questa è un’operazione militare, e non vi succederà niente» disse, e ripeté: «Vi abbiamo prese solo per portare un comunicato al governo».
«Chi ci ha prese?» gli domandò Maruja.
Lui scrollò le spalle. «Adesso questo non importa» disse. Alzò il mitra affinché lo vedessero bene, e proseguì: «Ma voglio dirle una cosa. Questo è un mitra con silenziatore, nessuno sa dove siete né con chi. Se gridate o fate qualcosa vi facciamo sparire in un minuto e nessuno saprà più niente di voi». Entrambe trattennero il respiro in attesa del peggio....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Notizia di un sequestro
  4. Ringraziamenti
  5. Capitolo 1
  6. Capitolo 2
  7. Capitolo 3
  8. Capitolo 4
  9. Capitolo 5
  10. Capitolo 6
  11. Capitolo 7
  12. Capitolo 8
  13. Capitolo 9
  14. Capitolo 10
  15. Capitolo 11
  16. Epilogo
  17. Copyright