Socrate e compagnia bella
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Socrate e compagnia bella

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Socrate e compagnia bella

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"Da Socrate ho imparato la passione per la conoscenza, da Platone il vero volto dell'amore; da Epicuro l'amicizia e la felicità, da Eraclito l'idea che tutto scorre. È stato un santo come Agostino a farmi capire il senso del peccato, da Erasmo ho appreso un nuovo modo di guardare alla follia, da Nietzsche come superare la morale comune. Sono stati due scienziati, Galileo ed Einstein, a darmi una lezione sulla forza della curiosità intellettuale e su come ogni cosa dipenda dai punti di vista. Tutto questo adesso vorrei insegnarlo a te, lasciartelo in eredità."
Questo nuovo libro di Luciano De Crescenzo è una lettera d'amore. Verso il nipote Michelangelo, verso tutte le nuove generazioni, e verso la filosofia. La dimostrazione di come Socrate e compagnia bella possano rendere un po' migliore la nostra vita.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2010
ISBN
9788852014178

L’apparenza e la realtà
L’amore

Platone

L’apparenza e la realtà

Caro il mio Michelangelo,
un altro maestro che ti consiglio di imparare ad ascoltare è Platone. La sua vita è interessante, piena di avvenimenti, ma te la sintetizzo in poche righe perché il suo vero insegnamento è nelle sue parole.
Platone nacque ad Atene da una famiglia aristocratica intorno al 428 avanti Cristo. Anche se fu affascinato dalla politica rimase deluso dagli uomini e quindi abbandonò quella carriera. Vero colpo di fulmine fu per lui, quando aveva vent’anni, l’incontro con Socrate e capì subito che quel vecchio sarebbe stato la sua guida spirituale. Dopo la morte del maestro, Platone viaggiò molto e si recò in Sicilia a Siracusa dove conobbe Dioniso che cercò di convertire a una tirannide illuminata. Ma le cose non andarono proprio come sperava Platone che infatti si schifò subito delle abitudini di corte e anzi fu forzatamente imbarcato su di una nave con l’ordine di portarlo a Egina e di venderlo al mercato degli schiavi.
Fortunatamente per Platone, a Egina si trovava di passaggio un suo fan, che non solo riuscì a riscattarlo ma gli regalò anche il denaro necessario per acquistare un terreno dove costruire una scuola.
La fondazione dell’Accademia fu un evento culturale fra i più importanti del mondo antico. Si trattava di una scuola situata a circa un paio di chilometri da Atene, lungo la strada dei sepolcri degli uomini illustri, totalmente immersa in un grande parco. Qui, intorno a Platone, si riunì un folto gruppo di discepoli e di discepole. La loro vita si svolgeva serena tra passeggiate e conversazioni.
Platone morì a ottantuno anni durante un banchetto di nozze e fu sepolto nel boschetto dell’Accademia. Pensa che nel corso della sua lunga vita nessuno lo aveva mai visto ridere.
Il suo pensiero è molto complesso, ma io ora voglio farti riflettere su un aspetto in particolare: il mito della caverna.
Immagina una grande caverna e al suo interno alcuni uomini incatenati, fin da quando erano fanciulli, in modo tale da non poter volgere lo sguardo verso l’uscita, anzi, costretti a guardare continuamente la parete di fondo. Alle spalle di questi disgraziati, appena fuori dalla caverna, c’è una strada rialzata e lungo di essa un muretto, dietro al quale passano altri uomini che portano sulle spalle statue e oggetti di ogni forma e materia, “un po’ come i burattinai che mostrano i burattini agli spettatori”. I portatori discutono vivacemente tra loro e l’eco della caverna ne deforma le voci. Dietro a tutti il Sole, o, se preferisci, un grande fuoco a illuminare la scena.
Domanda: cosa penseranno gli uomini incatenati delle ombre che vedono passare lungo la parete e del vociare che sentono? Risposta: crederanno in buona fede che ombre e rumori siano l’unica realtà esistente.
Immagina adesso che uno di loro riesca a liberarsi, e che si volti indietro a guardare le statue. In un primo momento, accecato dalla luce, le vedrebbe in modo confuso e riterrebbe molto più nitide le ombre che vedeva prima. Poi però, uscito all’aperto, e abituatosi alla luce del Sole, si renderebbe conto che tutto quello che aveva visto fino a quel momento, altro non era che l’ombra degli oggetti sensibili. Immagina che cosa racconterebbe ai compagni una volta tornato dentro.
“Ragazzi, voi non sapete niente, ma qua fuori ci sono cose incredibili! Una luce che non vi dico, roba che non si può descrivere! Poi delle statue meravigliose, perfette, eccezionali, altro che quelle schifezze di ombre che vediamo noi dalla mattina alla sera!”
Ma non gli crederebbero: nei migliori dei casi lo prenderebbero in giro e, se lui insistesse, potrebbe anche essere condannato a morte.
Ora però, siccome quella di Platone è una bellissima favola, avrei piacere di fartela ascoltare direttamente dalle sue parole in questo estratto dalla Repubblica:
«Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.» «Vedo» rispose. «Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.» «Strana immagine è la tua» disse, «e strani sono quei prigionieri.» «Somigliano a noi» risposi; «credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?» «E come possono» replicò, «se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?» «E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?» «Sicuramente.» «Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?» «Per forza.» «E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?» «Io no, per Zeus!» rispose. «Per tali persone insomma» feci io, «la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.» «Per forza» ammise. «Esamina ora» ripresi, «come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?» «Certo» rispose.
«E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati?» «È così» rispose. «Se poi» continuai «lo si trascinasse via di lì a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.» «Non potrebbe, certo» rispose, «almeno all’improvviso.» «Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole.» «Come no?» «Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.» «Per forza» disse. «Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.» «È chiaro» rispose «che con simili esperienze concluderà così.» «E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?» «Certo.» «Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?» «Così penso anch’io» rispose; «accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.» «Rifletti ora anche su quest’altro punto» feci io. «Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole?» «Sì, certo» rispose. «E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?!»
Spiegazione semplificata del mito della caverna. L’essenza è il Sole, ovvero la conoscenza, il non essere sono le ombre, ovvero l’apparenza, in mezzo, tra il Sole e le ombre, c’è l’opinione, quello che pensiamo degli oggetti sensibili. La conoscenza differisce dall’opinione in quanto la prima vede le cose come effettivamente sono, mentre la seconda le immagina in forma sbiadita e confusa, cioè intermedia tra l’essere e il non essere.
“Ma tutto questo a che serve?” potresti chiedermi. Caro il mio Michelangelo, serve a capire che nella vita esistono alcuni falsi obiettivi come il Denaro, il Potere e il Successo, che sono solo le ombre di una realtà, ben più vera, posta al di là della portata dei nostri occhi. Noi questa realtà, per il momento possiamo solo intuirla, dato che esiste una sorgente di luce (Dio) che ce la proietta. Ciò premesso, quando il filosofo viene a illuminarci, diamogli retta: lui è uno dei pochi che è riuscito a liberarsi dalle catene e a vedere in faccia la verità.

L’amore

Caro Michelangelo,
Platone è un filosofo talmente grande che da lui possiamo imparare moltissime cose. Abbiamo parlato del mito della caverna, della differenza fra apparenza e realtà. Adesso vorrei che tu ascoltassi quello che può insegnarci sull’amore.
La maggior parte delle persone crede che l’amore platonico sia un rapporto sentimentale tra due persone che non vanno a letto insieme. In effetti le cose non stanno proprio in questi termini. Platone era convinto che l’amore avesse come fine ultimo la procreazione del “bello” e, per spiegarcelo come si deve, ha scritto uno dei maggiori capolavori della letteratura di tutti i tempi: il Simposio.
Il tema dell’Amore infatti fu l’argomento principale di una celebre cena, tenutasi ad Atene 2400 e rotti anni fa in casa del poeta tragico Agatone. Oltre al padrone di casa erano presenti i seguenti signori: Fedro, Eurissimaco, Pausania, Aristofane, Socrate e Aristodemo (quest’ultimo, in verità, non invitato). Sul tardi arrivò anche Alcibiade con il suo seguito. Tutto quello che venne detto in tale occasione fu trascritto fedelmente, parola per parola, da Platone nel più bello dei suoi dialoghi: il Simposio appunto.
Simposio, detto alla buona, vuol dire banchetto. Quello greco, in particolare, aveva regole molto rigide: prima ci si lavava le mani, poi gli schiavi portavano il cibo, quindi ci si lavava di nuovo le mani e infine si ascoltava una flautista suonare. Il clou del simposio, però, stava tutto nel finale, e per la precisione nel momento in cui si cominciava a bere e a parlare: i commensali si mettevano in testa una coroncina di alloro, forse in onore di Apollo, e sceglievano il tema della serata. Il vino, in genere, era molto allungato, un po’ perché costava caro e un po’ perché bevuto allo stato puro era considerato un veleno. La misura degli annacquamenti variava alquanto: si oscillava dalle tre parti di acqua e una di vino alle tre parti di acqua e due di vino, e si arrivava a tanto solo nel caso che ci si volesse ubriacare.
Dopo varie vicende prese la parola Eurissimaco, insigne medico che disse:
«Se siete tutti d’accordo io proporrei come argomento della serata l’Amore. Che ciascuno, procedendo da destra verso sinistra, faccia un bel discorso in lode del Dio, e che sia il giovane Fedro a cominciare, dal momento che lui è anche il primo da destra.»
Iniziò così la lunga carrellata degli oratori e come buon u...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. Introduzione
  3. Il piacere della conoscenza - Socrate
  4. L’apparenza e la realtà L’amore – Platone
  5. Tutto scorre – Eraclito
  6. La felicità – Epicuro
  7. Il peccato – Sant’Agostino
  8. La follia – Erasmo da Rotterdam
  9. La curiosità – Galileo Galilei
  10. Al di là del bene e del male – Nietzsche
  11. Il tempo – Albert Einstein (ma anche Sant’Agostino, Henry Bergson e Federico Fellini)
  12. Bibliografia