La vita segreta di Giuseppina Bonaparte
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La vita segreta di Giuseppina Bonaparte

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  1. 396 pagine
  2. Italian
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La vita segreta di Giuseppina Bonaparte

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Informazioni sul libro

Giuseppina è ancora giovanissima quando lascia la sua famiglia e la colonia francese della Martinica, dove è nata e cresciuta, per sposare l'arrogante aristocratico Alexandre de Beauharnais. Nonostante la nascita di due figli, la loro unione non è felice e, durante i turbolenti anni della Rivoluzione francese e del Terrore, Giuseppina conosce la povertà e l'orrore della prigionia, rischiando addirittura la ghigliottina.
Il suo fascino esotico e la sua inarrestabile ambizione la sorreggono però anche nei momenti più difficili, sino all'incontro con Napoleone Bonaparte, che cambierà per sempre il suo destino. Mentre lui domina sulla scena politica e sui campi di battaglia, creando un impero sterminato e incoronando se stesso e la moglie imperatori di Francia, lei diviene l'incontrastata regina dell'alta società grazie al suo irresistibile magnetismo fatto di eleganza, charme, forza e vulnerabilità. Ma dietro le apparenze si nasconde una realtà ben diversa: il cuore di Giuseppina appartiene a un altro uomo, il misterioso straniero che l'aveva conquistata molti anni prima in Martinica e che lei non può dimenticare. Carolly Erickson, famosa autrice di saggi e biografie storiche, ritorna con l'appassionante racconto della vita della prima moglie di Napoleone. Scritto in prima persona, il romanzo segue la protagonista lungo l'intero arco della sua esistenza, tracciando il ritratto a tutto tondo di una figura tanto sfaccettata e della sua epoca.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852017872

Carolly Erickson

LA VITA SEGRETA
DI GIUSEPPINA BONAPARTE

Traduzione di Anna Luisa Zazo

Mondadori

LA VITA SEGRETA DI GIUSEPPINA BONAPARTE

In ricordo della mia cara madre
Louise Kiger Bliss (1912-2006)
Malmaison, marzo 1814
I miei occhi si sono indeboliti, è come se vivessi in un perenne tramonto. Non riesco più a ricamare, i punti sono troppo piccoli perché possa vederli; così, nei lunghi pomeriggi, siedo accanto alla finestra guardando il confuso intreccio di colori delle mie rose, mentre Christian – quel caro uomo – mi legge le vecchie lettere d’amore che custodisco con cura.
Ho grandi progetti, ma si sono temporaneamente interrotti, il che è sconfortante per me, seduta qui, gli occhi sempre più deboli, il viso rugoso bagnato a volte da lacrime involontarie, le guance, un tempo morbide e rosate, ora avvizzite e ravvivate dal belletto.
È vero, non posso più vedermi con chiarezza allo specchio, ma sono sempre più attenta alla cura dell’aspetto. Ho un’esperta parrucchiera che viene ogni giorno a pettinarmi, e quando mi intreccia nastri argentei fra i capelli neri tinti l’effetto è affascinante e giovanile, o così mi dicono i miei adulatori parigini.
Da Parigi i visitatori vengono a centinaia, anche se la primavera è gelida e i giardini non sono ancora pienamente fioriti.
«È sempre bella?» sento che si chiedono mentre passano sotto le mie finestre. «O è appassita ora che non porta più la corona? Ora che l’ex imperatore non la ama più? Deve avere una cinquantina d’anni ormai. Avrà perduto la bellezza.»
Mi fanno sorridere, quei parigini invidiosi. Non sono mai stata davvero una di loro: sempre un’estranea; anche al tempo del mio trionfo, quando l’imperatore Napoleone Bonaparte mi mise lui stesso sul capo la corona. Si facevano segretamente beffe di me, sebbene mi abbiano sempre temuta per il potere che esercitavo su di lui. Bonaparte li governava, e io governavo Bonaparte.
Posso ancora essere bella, o così mi dicono. E ora sono più celebre di un tempo, perché sono stata la moglie dell’imperatore, sono ricca e ho un passato scandaloso.
Si facciano pure beffe di me, i parigini. Io sono quello che molti di loro non saranno mai. Sono me stessa. Nessuno ha autorità su di me. Vivo come voglio, anche se gli occhi sono sempre più opachi, mi duole la gola e sono tornate le mie emicranie, nonostante le sanguisughe che i dottori mi applicano sul collo, sulle braccia e sui piedi per liberarmi dai veleni.
Non permetto a nessuno di assistere a questi momenti, a eccezione di Euphemia, poiché per lei non ho segreti. I medici mi strofinano la fronte, mi applicano impacchi sugli occhi dolenti, mi lavano e mi inondano di acqua da toletta per coprire i cattivi odori dell’età. Soltanto quando sono usciti e io sono fresca e profumata consento a Christian di entrare, perché mi legga qualcosa dal mio cofanetto di lettere di tanto tempo addietro.
Mi appoggio ai cuscini di raso rosa, chiudo gli occhi e ascolto quelle care parole d’amore, sempre nuove anche dopo tanti anni.
«“Rosa di tutte le rose, mia bella signorina Tascher”» legge Christian «“il vostro ricordo mi incanta. Attendo con grande impazienza il momento in cui potrò stringervi nuovamente fra le braccia. Fino al nostro nuovo incontro, vi bacio le mani, gli occhi, le labbra, vi bacio tutta.”»
Il primo biglietto amoroso che abbia mai ricevuto, da Scipion du Roure, l’ufficiale di cui mi innamorai alla Martinica, una notte di maggio in cui la luna era piena. Io avevo quindici anni e lui diciannove. Era promesso a una donna in Francia, come scoprii in seguito. Ma non aveva importanza. Nulla aveva importanza quella notte, se non l’argentea, morbida luce lunare, il suono delle onde che si frangevano sulla sabbia bianca ai piedi della veranda in cui noi danzavamo e il profumo inebriante del gelsomino.
Mentre ascolto Christian, mi sento trasportare nuovamente a quella sera, alla musica dei violini, dei flauti e delle chitarre che suonano una ronde sentimentale, al canto dei grilli fra i tamarindi e gli ibischi. Scipion, biondo, bello, mi prende la mano guantata e se la porta alle labbra...

1

Quella sera, la sera in cui incontrai Scipion du Roure, riuscivo a pensare soltanto al ballo, al mio abito di seta giallo pallido e alla ghirlanda di profumati gelsomini in fiore che Euphemia mi aveva intrecciato fra i capelli. Cantavo tra me mentre mi vestivo, esercitandomi a camminare nella gonna larga sorretta dalla gabbia di metallo sottile e guardandomi riflessa nel grande specchio al centro della mia camera.
Alla luce delle candele avevo gli occhi lucenti, la carnagione calda e luminosa. Ricordo di aver pensato che ero bella e che ogni uomo al ballo avrebbe voluto danzare con me.
Vivevo con i miei genitori alla Martinica, in una piantagione chiamata Les Trois-Îlets, “I tre isolotti”. L’anno era il 1778. Mio padre, Joseph Tascher, pover’uomo angosciato e tormentato, beveva troppo e si indebitava sempre di più, e mia madre e mia nonna lo ossessionavano continuamente. Io cercavo di non fare caso alle loro discussioni – che avvenivano di frequente – e di pensare soltanto al ballo. Ma le voci adirate non si potevano ignorare.
«Dovete chiedere un altro prestito a vostro fratello» insisteva mia madre. «Non indugiate. Andate stasera stessa a Fort-Royal.»
«Con piacere, mia cara» ribatté mio padre. «Ma so che cosa mi risponderà. Niente più prestiti. Niente fino a quando non accetto di farlo diventare comproprietario dei Trois-Îlets e di nominare suo figlio mio unico erede.»
«Il vostro solo erede, questa poi» sbuffò mia nonna. «Se foste un vero uomo, avreste figli maschi e non figlie femmine.»
Mia nonna, Catherine des Sannois, nata Catherine Brown in una fattoria a Dundreary, aveva l’agguerrito temperamento dei suoi antenati irlandesi e non perdeva mai l’occasione di criticare mio padre, di origine aristocratica.
«E se mia moglie facesse il suo dovere, mi darebbe figli maschi. La colpa è sua.»
«Come osate parlare in questo modo, sapendo che ho rischiato di morire nel dare alla luce la nostra ultima figlia?» Mia madre si alzò dalla sedia e si avvicinò a lui con aria accusatrice. «E come osate mostrare così poco rispetto per la povera Catherine, che giace nella tomba da appena due mesi?» Mia sorella Catherine, sempre debole e malaticcia, era infine morta per una febbre ed era sepolta nella chiesetta della nostra piantagione.
«Quanto vorrei che anche voi finiste in una tomba» sentii mio padre borbottare mentre si voltava dall’altra parte. «Così potremmo vivere tranquilli.»
«Tranquilli? Tranquilli? Parlate di tranquillità quando tutto quello che fate è per noi causa di inquietudine.» Mia nonna continuava nella sua invettiva. «Trascurate le vostre figlie. Nessuna delle due è fidanzata. Trascurate vostra moglie. Quante amanti avete a Fort-Royal? Tre? Sei? E quanti sono i mulatti bastardi che vi somigliano? E, peggio ancora, trascurate la piantagione, che mio marito e io vi abbiamo dato, pigro buono a nulla che non siete altro, perché la vostra famiglia non morisse di fame. E ora guardate! Dove sono i campi di canna da zucchero? Tutti inselvatichiti. Dove sono gli schiavi? Quasi tutti fuggiti. Che cosa avete fatto in diciassette anni che ne siete proprietario? Una bella piantagione finita in rovina! Ecco cosa ne avete fatto! E una famiglia che rischia di morire di fame.»
Mio padre prese la fiaschetta d’argento e bevve, il viso stanco segnato dalle rughe, i sottili capelli grigi che sfuggivano disordinatamente dalla parrucca a borsa annodata male. In quel momento, durante una pausa della lite, io mi feci avanti per mostrare il mio vestito.
Camminai lentamente davanti a mio padre, a mia madre e alla nonna Sannois. Vidi che gli occhi di mio padre si erano illuminati nel guardarmi e capii che il suo era uno sguardo di ammirazione.
Mia nonna annuì. «È tempo che si sposi» disse seccamente. «Più che tempo.»
Mia madre mi esaminò attentamente, dalla ghirlanda tra i capelli fino ai nastri lucenti delle scarpette di raso giallo. «Attenzione agli uomini» si limitò a dire.
Le strade strette e tortuose di Fort-Royal illuminate dalle torce splendevano di una luce gialla sotto la luna, mentre la nostra carrozza – in verità un carretto con un telo per ripararci dalla pioggia – si inerpicava lungo il fianco della collina verso la casa imponente di mio zio, alta sopra la baia di Fort-Royal. Mio zio Robert Tascher era il comandante del porto e lui e la sua famiglia vivevano negli agi. Circa cinquecento invitati, della migliore società – i Grands Blancs, come venivamo chiamati, i Grandi Bianchi o europei –, avrebbero preso parte al ballo quella sera, e io avevo avuto la fortuna di essere stata invitata.
Mi accompagnava mia zia Rosette, la sorella zitella, tremebonda e discreta, di mio padre e dello zio Robert. Era uno chaperon davvero ideale, silenziosissima e di aspetto sgradevole nel vecchio abito verde con le sbiadite rosette cremisi che indossava sempre ai balli e ai ricevimenti. Non mi impediva mai di divertirmi. Sapevo che mi ammirava e mi invidiava, perché non era mai stata bella e, appena entrava in una sala, sembrava quasi confondersi con la carta da parati.
L’aria era umida e il mio abito di seta giallo bagnato di sudore quando arrivammo all’imponente cancello della dimora dello zio Robert. I riccioli che la mia cameriera Euphemia aveva disposto con tanta cura sulla mia bella fronte mi si incollavano alla pelle.
Appena entrata, bevvi avidamente dal bicchiere di punch al rum che mi porse un alto servitore africano e ne chiesi un altro. Sedetti accanto a una finestra aperta e mi lasciai sommergere dalla musica dell’orchestra, dal mormorio delle voci, dal fruscio degli abiti e dal gradito soffio di vento dalla baia.
Non rimasi seduta a lungo. Venne un giovane a chiedermi di danzare, e poi un altro e un altro ancora. Ricordo che non persi un ballo e, con il trascorrere del tempo, cominciai a sentire la testa che mi girava mentre volteggiavo nei passi della quadriglia e del minuetto. Mi rallegrai appena la musica si interruppe e alcuni ospiti cominciarono a congedarsi.
Poi, all’improvviso, un giovane in una bella uniforme s’inchinò e mi porse la mano. Alzai lo sguardo e vidi i suoi begli occhi grigi che mi fissavano e le labbra carnose piegate in un sorriso malizioso.
«Tenente Scipion du Roure, signorina. Volete farmi l’onore di concedermi questo ballo?»
Fluttuando, volando, mi sciolsi tra le sue braccia, e la danza finì troppo presto.
«Venite a passeggiare con me» mi sussurrò mentre mi baciava la mano guantata nel prendere congedo. «Presso l’albero di mango, tra mezz’ora.» C’era un enorme mango accanto alla veranda della dimora dello zio Robert. Non dubitai che si riferisse a quello. Mi sentii fremere nell’attesa, poiché nemmeno per un attimo pensai di rifiutare.
“Attenzione agli uomini” mi aveva ammonito mia madre, ma in quell’istante dimenticai le sue parole di avvertimento. Mi chiedevo soltanto come mi sarei potuta allontanare inosservata. La zia Rosette, il mio discreto chaperon, mi aveva guardato danzare tutta la sera mentre mangiava pasticcini alla vaniglia. Quando mi avvicinai a lei, mi accorsi che aveva esagerato e aveva l’aria di non stare bene. Vedendomi, si affrettò a deporre il piatto e si pulì la bocca con il dorso di una mano non guantata.
«Avete l’aria stanca, zia Rosette. Senza dubbio zio Robert vi troverà un posto dove potrete sdraiarvi.»
Lei mi lanciò uno sguardo penetrante. «Sai bene che non posso andarmene finché sei qui. Non puoi essere lasciata sola senza una parente che ti sorvegli.»
«Ma non sarò sola. C’è la zia Louise.» Come padrona di casa, la zia era naturalmente presente nella sala, anche se tra me e lei si muovevano centinaia di invitati.
Sul viso della zia Rosette si dipinse un’espressione sofferente, e lei si portò una mano allo stomaco.
«Dovete bere dell’olio di gaultheria, zia Rosette, subito, senza un momento di indugio.» Le presi la mano libera e lei si lasciò condurre lungo un corridoio dove si trovava un gruppo di servitori, invisibili ai ballerini in sala, che osservavano la festa attraverso una porta socchiusa. Tra loro riconobbi Denise, la governante.
Vincendo le proteste sempre più deboli della zia, Denise e io la convincemmo a riposare in una stanza buia e a bere un infuso di olio di gaultheria. Abbandonandola alle cure di Denise, tornai in fretta alla sala da ballo e uscii dalla veranda in giardino. La pesante sagoma dell’albero di mango, carico di frutti, i larghi rami lucenti all’argentea luce lunare, si innalzava dalle palme e i tamarindi che lo circondavano. Ai piedi dell’albero attendeva Scipion du Roure nell’elegante uniforme blu da ufficiale di marina, appoggiato con aria disinvolta al tronco, le braccia conserte. Sorrise nel vedermi e mi porse la mano quando mi avvicinai.
«Eccovi, mio bell’Uccello del Paradiso.»
Mi tolsi i guanti e presi la mano che mi tendeva. Aveva un sorriso languido, seducente, sebbene a quindici anni non conoscessi quelle parole. Sapevo soltanto che mi emozionava vederlo e che il nostro incontro era tanto più eccitante perché proibito. Noi due nel giardino buio, con la sola compagnia degli uccelli addormentati e delle rane gracchianti: era una situazione contraria alle regole di condotta dei Grands Blancs. A me piaceva violare le regole. E mi piaceva il nome che mi aveva dato: Uccello del Paradiso.
Camminammo mano nella mano lungo un sentiero di pietra che conduceva alla spiaggia della baia. Da bambina lo avevo percorso più volte, con le mie cugine, diretta alla spiaggia per nuotare. Ma sempre durante il giorno, mai di notte. Non avevo mai visto prima il sentiero d’argento tracciato dal raggio della luna sull’acqua, né mai avevo avvertito la carezza della fresca aria notturna sul viso ardente. E non avevo mai sentito così forte il profumo dei gelsomini che fioriscono di notte, ai due lati del sentiero, un profumo che spegneva quello della mia ghirlanda.
Rispondendo alle mie appassionate domande, Scipion mi disse che aveva diciannove anni e che era imbarcato come tenente a bordo della fregata Intrépide. Arruolato da tre anni, era stato ferito due volte. Io sgranavo gli occhi mentre lui descriveva una scaramuccia tra la sua nave e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La vita segreta di giuseppina bonaparte
  3. Epilogo
  4. Nota per il lettore
  5. Copyright