No way down (Versione italiana)
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No way down (Versione italiana)

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No way down (Versione italiana)

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Informazioni sul libro

"Vedendo da vicino il picco del K2, il grande seracco e il Collo di Bottiglia, contemplandone la bellezza e il minaccioso fascino, ho cominciato a comprendere perché un coraggioso gruppo di uomini e donne aveva rischiato la vita per scalare la montagna."
La notte del 1º agosto 2008 ben ventiquattro scalatori di quindici diverse spedizioni internazionali partirono contemporaneamente all'attacco del K2. Solo tredici di loro ritornarono al Campo base. Gli altri undici riposano per sempre nelle viscere della montagna. Quel che resta di loro è una lapide, ricavata da un piattino di latta, al Gilkey Memorial. La più grande tragedia alpinistica nella storia della vetta himalayana si consumò in quarantotto ore da brivido che tennero col fiato sospeso il pubblico di tutto il mondo, dalla Corea all'Europa, dagli Stati Uniti all'Italia, rappresentata da Marco Confortola. Le indagini giornalistiche hanno stabilito che fu una tragedia in gran parte annunciata. Il cattivo coordinamento fra i capi spedizione provocò l'errato posizionamento delle corde già sulla Spalla. Sul Collo di Bottiglia l'eccessivo numero di scalatori attardò i ritmi di ascesa. Sul Traverso alcuni di loro andarono in crisi, ma vollero comunque proseguire, esponendosi ai colpi mortali della montagna. Poi la mancanza di ossigeno, il freddo disumano, l'incedere della notte, la falce di neve e ghiaccio rilasciata dall'enorme seracco del K2 fecero il resto. No Way Down racconta tutto ciò che è successo e tutto ciò che non doveva succedere in quella maledetta avventura a più di 8000 metri di quota. Fra morti improvvise, colpi di scena imprevedibili, corde che si lacerano, valanghe grandi come la paura, atti di eroismo e di amore, corpi martoriati e stremati, questo libro sembra un thriller ed è invece una storia vera, drammaticamente vera, che narra l'irresistibile fascino della sfida fra gli esseri umani e la sconfinata forza della Natura.

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Informazioni

Parte prima
LA VETTA
Venerdì 1° agosto

«Mi piacerebbe che tutti potessero contemplare
questo oceano di montagne e ghiacciai.
La notte sarà lunga ma bella.»
HUGUES D’AUBARÈDE, K2, 31 LUGLIO 2008
«Il K2 non è da scalare.»
FILIPPO DE FILIPPI,
Dal resoconto autorizzato
della spedizione italiana del 1909

Capitolo uno

Procedendo a est lungo le polverose piste che partono dal villaggio di Askole, nell’arco di tre giorni s’intravede in lontananza una meraviglia del mondo, il ghiacciaio del Baltoro disseminato di rocce, e una gigantesca parata di montagne granitiche nere e ocra, ricoperte di neve e incoronate dalle nuvole.
Nel 2008, Eric Meyer e gli altri team avevano percorso questa strada inoltrandosi nel profondo del Karakoram, cuore della più alta catena montuosa del mondo. Il gruppo del Karakoram fa parte dell’Himalaya occidentale e costituisce uno spartiacque fra il subcontinente indiano e i deserti dell’Asia centrale. Qui, in una trentina di chilometri, si ergono quattro picchi che superano gli ottomila metri. Spingendosi più addentro tra ghiacci e morene, dopo altri tre giorni di cammino, sopra tutti questi sublimi giganti appare all’improvviso il K2.
L’origine del suo nome è ormai leggenda. Nel settembre 1856 il tenente Thomas G. Montgomerie, un ispettore britannico incaricato di condurre un progetto noto come Great Trigonometric Survey of India, salì sino a un picco del Kashmir, armato di teodolite, eliotropo e tavoletta pretoriana, con il compito di stabilire il confine imperiale del Raj, il dominio della Corona in India.
Duecentoventi chilometri a nord, scorse due formidabili montagne, che disegnò a inchiostro sul suo taccuino di viaggio, apponendovi la propria firma ondeggiante e superba. Chiamò l’una K1 e l’altra K2. La “K” stava per Karakoram. (Montgomerie registrò trentadue picchi, dal K1 al K32, fissando l’altezza del K2 a 8619 metri, con un errore di appena otto metri.) In seguito, si scoprì che il K1 aveva già un nome locale, e venne indicato sulle mappe come Masherbrum. Il K2 no, e così mantenne il nome con cui l’aveva battezzato Montgomerie.
Cinque anni dopo la sua spedizione, un altro strenuo artefice dell’impero britannico, Henry Haversham Godwin-Austen, s’avvicinò ancor più al K2, divenendo il primo europeo a essere salito fino al ghiacciaio del Baltoro. Nel 1888, in onore della sua impresa, alla Royal Geographical Society di Londra fu proposto che la montagna fosse “ricordata in futuro come Peak Godwin-Austen”. La mozione venne respinta, ma sino alla metà del Novecento il nome continuò a essere impiegato in alcune mappe e sulla stampa periodica. Alla fine, tuttavia, a causa delle sue sfumature coloniali, gli fu preferito “K2”, e il nome di Godwin-Austen rimase a indicare il ghiacciaio ai piedi del monte.
Dopo gli ispettori imperiali, vari esploratori e viaggiatori occidentali s’inoltrarono sempre più in questo meraviglioso reame, con scarponi chiodati, abiti di tweed e gonne. Nel 1898, due illustri visitatori impegnati in un tour in bicicletta per l’India decisero di visitare l’Himalaya. Si trattava di una coppia americana: William Hunter Workman e sua moglie Fanny Bullock Workman, suffragetta ed ereditiera del New England. Anni dopo, esplorarono il ghiacciaio di Siachen a sudest del K2 e realizzarono le prime ascensioni su parecchie vette del Karakoram. Era una coppia famosa. Lui era un chirurgo in pensione convinto che nessuno sarebbe potuto sopravvivere una notte al di sopra dei settemila metri, mentre Fanny aveva l’irritante abitudine di incidere sulle pareti della montagna le proprie iniziali e la data del suo passaggio, nonché di farsi largo a suon di frusta e revolver.
Nel 1902, una spedizione di sei uomini composta di svizzeri, austriaci e britannici compì un primo serio tentativo di assalto alla vetta del K2. Fra costoro vi era lo scalatore e occultista inglese Aleister Crowley, che in seguito avrebbe assunto il nome di “666”, guadagnandosi con le sue provocatorie stravaganze il titolo di uomo più immorale al mondo presso la stampa inglese, oltre che, anni dopo la sua scomparsa, un posto sulla copertina di un album dei Beatles, Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band.
Durante le nove settimane di permanenza sulla montagna, dove erano state trasportate tre tonnellate di bagagli, compresi i volumi della biblioteca di Crowley, la spedizione compì ben cinque tentativi di scalata alla vetta. Crowley avrebbe preferito la rotta lungo lo sperone di sudest, mentre gli altri scalatori sostennero la necessità di deviare verso il crinale di nordest.
Salirono fino a 6400 metri circa sul versante del K2, ma il tentativo fallì quando, fra le altre cose, uno degli austriaci crollò a causa di un edema polmonare, una malattia acuta tipica dell’alta montagna, che provoca l’aumento dei fluidi nei polmoni. Deluso e semidelirante, Crowley, che soffriva lui stesso di brividi e febbri malariche, minacciò un collega con un revolver e venne disarmato con una ginocchiata allo stomaco. Nonostante fossero saliti più in alto di chiunque altro sul K2, i membri della spedizione ridiscesero in modo scomposto.
Ma la montagna continuò a esercitare un poderoso fascino. Nel 1909, sette anni dopo il tentativo di Crowley, fu il turno del principe Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, duca degli Abruzzi. Figlio del re di Spagna nonché nipote di un re d’Italia, era un appassionato di alpinismo che un decennio prima s’era portato dieci telai da letto sul ghiacciaio Malaspina, in Alaska. (Proveniva da quella parte d’Italia che sarebbe stata resa famosa vent’anni dopo da Ernest Hemingway in Addio alle armi.) Quando il duca visitò l’American Alpine Club all’Astor Hotel di New York, la sala da ballo era decorata in suo onore: “Grandi blocchi di ghiaccio a forma di montagne, e sopra cordate di uomini che ne scalano i pendii”, secondo quanto riferito da un articolo di cronaca del “New York Times”. Aveva scelto il K2 perché non era ancora stato del tutto mappato. Ma aveva un altro obiettivo. Voleva stabilire il record mondiale d’altitudine, detenuto a quell’epoca da due norvegesi.
Circondando il viaggio di un alone di gran segreto, si recò a Londra per gli approvvigionamenti, in incognito. Probabilmente, il segreto si spiega col timore che qualcuno raggiungesse il K2 prima di lui. Stando alle congetture di alcuni libri di storia, è invece possibile che fuggisse da una complicata relazione amorosa, peraltro ben nota (alla stampa americana), con Katherine Elkins, una ricca ragazza dai capelli biondo rame appassionata di equitazione, figlia di un senatore statunitense del West Virginia, Stephen B. Elkins. Con tutta probabilità, il duca aveva conosciuto gli Elkins a Roma, dove costoro s’erano recati in estate per acquistare oggetti d’antiquariato, ma la love story era stata osteggiata da entrambe le famiglie.
Il duca salpò da Marsiglia sul piroscafo P&O Oceana con sei tonnellate e mezzo di bagagli, diretto a Bombay e di lì al K2, per la gloria dell’Italia e della Casa di Savoia. Lo accompagnava un fotografo di montagna cinquantenne, Vittorio Sella, che con le sue lastre fotografiche e le sue emulsioni avrebbe restituito alcune delle più belle immagini del K2 mai viste.
Composta di dieci uomini, la squadra attraversò il distretto di Srinagar, dove il duca fu accolto dal governatore britannico con una scorta reale di shikara, barche fluviali splendidamente decorate, con quindici rematori ciascuna. Il duca viaggiava nel lusso. I sacchi a pelo della spedizione consistevano di quattro strati: uno di peli di cammello, uno di piumino di edredone, uno di pelle di montone e uno esterno di tela impermeabile.
Egli fu il primo ad ammirare la montagna dal circo Concordia, punto d’unione di due ampi ghiacciai a pochi chilometri dal centro di un anfiteatro di picchi. Il senso di soggezione che provò risuona nella sua descrizione. “Il vero e indiscusso monarca di tutta la regione” dichiarò “gigante solitario, nascosto alla vista degli uomini da innumerevoli giogaie, gelosamente custodito da una selva di sudditi, protetto dall’invasione umana da chilometri e chilometri di ghiacciai.”
Rifornitosi di un mare di uova fresche, carne, acqua, combustibile, lettere e quotidiani a Urdukas, un campo situato sotto il ghiacciaio del Baltoro, Luigi Amedeo arrivò col suo seguito fino a metà del crinale di sudest, una cresta rocciosa che sorge direttamente sopra quello che in seguito sarebbe stato chiamato ghiacciaio Godwin-Austen. La strada scelta dal duca sarebbe divenuta il principale itinerario delle future ascensioni, e porterà per sempre il suo nome, Sperone Abruzzi. Cammin facendo, come un moderno Adamo alla scoperta di un mondo nuovo, egli battezzò altri punti di riferimento del K2 in onore della sua spedizione: il passo Negrotto, dal nome del suo aiutante di campo, il passo Sella e il ghiacciaio Savoia.
Alla fine, riuscì a stabilire il record mondiale di altitudine scalando un altro picco vicino, il Chogolisa. Ma fu vinto dalla ripidezza apparentemente insormontabile del K2, e ridiscese a seimila metri, dichiarando che il K2 lo aveva sconfitto e sarebbe rimasto per sempre inespugnabile.
“Dopo settimane d’ispezione, dopo ore di contemplazione e ricerca del segreto della montagna, il duca infine è stato costretto a cedere alla convinzione che il K2 non è da scalare” scrisse il biologo e medico Filippo De Filippi, che lo accompagnava e che raccontò la spedizione in un libro.
Anni dopo, toccò a un’altra spedizione italiana dimostrare che Luigi Amedeo di Savoia aveva torto.
Subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando le ostilità si erano spente nel mondo, nell’arena dell’Himalaya la rivalità fra nazioni giocava ancora un ruolo importante. Nel 1950, una spedizione di alpinisti francesi fu la prima a scalare un picco al di sopra degli ottomila metri, raggiungendo la cima dell’Annapurna I, in Nepal. Nel ’53, i britannici conquistarono il monte Everest, il più alto di tutti, e la notizia dell’evento giunse a Londra alla vigilia dell’incoronazione della regina Elisabetta II, meritandosi festeggiamenti nazionali.
Nella primavera del ’54, fu l’Italia ad arricchire il suo palmarès, e a riscattarsi dalla depressione postbellica, grazie a una spedizione arrivata in Pakistan con l’intento di mettere sotto assedio le pendici del K2.
La spedizione comprendeva undici scalatori, quattro scienziati, un medico, un documentarista, dieci portatori hunza d’alta quota e altri cinquecento portatori. In tutto, costoro s’addossarono oltre tredici tonnellate di rifornimenti, comprese duecentotrenta bombole di ossigeno.
Il dispotico capospedizione, Ardito Desio, era un geografo e geologo originario di Palmanova, nel Nordest dell’Italia, che gli altri membri della squadra avevano soprannominato “ducetto” per i suoi modi e la sua ambizione. Prima di scalare la montagna, vi orbitò sopra con un DC-3 assieme a tre compagni allo scopo di pubblicizzare l’evento. L’esercito pakistano d’altra parte contribuì a facilitare l’avvicinamento costruendo ponti sopra i burroni, e lui dal Campo base, quasi risentisse ancora degli echi della guerra, incitava via radio gli scalatori sulle pendici a dimostrarsi “campioni della razza”. Durante il tragitto attraverso gli spopolati territori della valle circostante, alcuni portatori rimasero accecati dal riverbero della neve, perché Desio s’era rifiutato di lasciare che inforcassero adeguati occhiali da sole. In seguito i portatori accennarono a una rivolta, ma furono rabboniti dagli italiani con sigarette e mance, e dall’intervento dell’ufficiale di collegamento, il colonnello dell’esercito Ata-Ullah, anche se poi alcuni portatori rubarono al team farina e biscotti.
La scalata stessa fu degna di nota per l’uso di un argano in acciaio dotato di un cavo di trecento metri, adibito al trasporto dei pesanti rifornimenti su per la montagna. E dopo sessantatré giorni di preparazione (durante i quali si registrò anche la morte di uno scalatore, il trentaseienne Mario Puchoz, guida alpina di Courmayeur, stroncato dalle complicazioni di un edema polmonare inizialmente diagnosticato come polmonite), la sera del 30 luglio 1954 due scalatori raggiunsero gli ottomila metri, e in un giorno o poco più sarebbero arrivati in cima.
Alle prime luci dell’alba i due uomini, Achille Compagnoni – uno scalatore lombardo di quarant’anni, il favorito di Desio – e il suo compagno, il ventottenne Lino Lacedelli, di Cortina d’Ampezzo, iniziarono l’attacco alla vetta. A un certo punto, Compagnoni scivolò e cadde, atterrando tuttavia sulla neve soffice. Poco dopo, Lacedelli, togliendosi i guanti per pulirsi gli occhiali, s’accorse di avere le dita bianche e insensibili. I due trasportavano pesanti bombole d’ossigeno. A centottanta metri dalla vetta, tuttavia, si sentirono mancare. Il gas s’era esaurito, e si tolsero le maschere.
Credendo che al di sopra degli 8500 metri fosse impossibile sopravvivere in assenza d’ossigeno per più d’una decina di minuti, attesero la fine, che non arrivò. Resisi conto di essere in grado di respirare, ripresero la salita, sia pur soggetti ad allucinazioni: entrambi erano convinti che Puchoz, il collega defunto, li seguisse a poca distanza.
Pochi minuti prima delle diciotto, mentre la pendenza s’addolciva, tenendosi per le braccia raggiunsero la vetta al grido di “Insieme!”. Il K2 era stato sconfitto. Il 4 agosto 1954, il “New York Times” uscì con questo catenaccio: “Gli italiani conquistano il secondo picco più alto del mondo. Scalato in settantasei giorni il monte Godwin Austen, nel Kashmir”.
Al rientro in Italia, come prevedibile la spedizione fu accolta da un’ondata di fervore patriottico: in onore degli scalatori fu emesso un francobollo, ed essi furono ricevuti da papa Pio XII. Ma seguirono decenni di acredine per le modalità della conquista.
La sera prima dell’assalto finale, Compagnoni aveva piantato l’ultimo campo più in alto di quanto concordato in precedenza col resto del gruppo, e lo aveva nascosto dietro una roccia. Aveva fatto così perché disponevano di scorte limitate di ossigeno, e non voleva che un altro scalatore, Walter Bonatti, il quale stava salendo insieme a un portatore hunza di nome Mahdi, gli rubasse il posto. Bonatti era un alpinista di talento, più giovane ma meno benvoluto da Desio e dall’organico della spedizione italiana.
Non trovando il campo, Bonatti e Mahdi erano stati costretti a trascorrere la notte all’addiaccio su un piccolo pianoro ghiacciato sul fianco della montagna. In realtà avevano portato le scorte di ossigeno per la vetta, ma le avevano lasciate nella neve. Mahdi, sprovvisto di adeguati scarponi da salita, era ridisceso disperatamente ai primi bagliori. Era sopravvissuto, ma per il congelamento aveva perso tutte le dita dei piedi e quasi tutte quelle delle mani.
Il rancore si trascinò per anni in Italia. Bonatti divenne poi uno dei più fortunati e rispettati scalatori della sua generazione, e in genere gli alpinisti condividono la sua versione dei fatti. Negli anni Sessanta, Compagnoni passò al contrattacco, affermando che Bonatti aveva consumato l’ossigeno delle bombole, mettendo così a repentaglio la vita dei due arrampicatori. Aggiunse che Bonatti aveva convinto Mahdi ad accompagnarlo sino all’ultimo campo promettendogli falsamente che avrebbe potuto partecipare all’attacco finale. Ma il rivale vinse una causa di querela contro un giornalista che aveva divulgato le affermazioni di Compagnoni.
Desio sarebbe ritornato in Pakistan nel 1987, stabilendo finalmente quale tra il K2 e l’Everest fosse il monte più alto. (Un astronomo dell’università di Washington aveva annunciato che nuovi dati raccolti da un satellite della marina militare dimostravano che il K2 poteva essere duecentoquaranta metri più alto di quanto si credesse, e quindi più alto dell’Everest. Grazie a una migliore tecnologia, Desio e colleghi scoprirono che così non era.) Inoltre, rispose alle domande riguardo al fatto se avesse o no nascosto la verità attorno a quanto successo sulla montagna.
Nonostante il rancore, il primato del team italiano rimaneva intatto. A quasi cent’anni dal primo rilevamento compiuto da Thomas Montgomerie dei Royal Engineers, l’uomo aveva finalmente messo piede sulle nevi della cima del K2.

Capitolo due
Ore 10.30

C’era un tale affollamento in prossimità dello sbocco del Collo di Bottiglia che Dren Mandić era nervoso.
Lo scalatore da solo presso la cima, il basco Alberto Zerain, aveva risalito lo scosceso canale prima di tutti gli altri, poi era scomparso per il passaggio in diagonale del Traverso. Alcuni sherpa e una cordata di sudcoreani lo avevano seguito. Ma questi ultimi procedevano molto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. No way down
  3. Nota dell’autore
  4. Gli scalatori
  5. Prologo
  6. La vetta
  7. La discesa
  8. Il seracco
  9. Il salvataggio
  10. Epilogo
  11. Ringraziamenti
  12. Note
  13. Inserto fotografico
  14. Indice analitico
  15. copyright