Quelli che dissero no
eBook - ePub

Quelli che dissero no

,
  1. 180 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Quelli che dissero no

,
Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

L'8 settembre 1943, quando dopo 1201 giorni di guerra il maresciallo Pietro Badoglio, capo del governo, annunciò la firma dell'armistizio con gli Alleati, circa seicentomila soldati italiani si trovavano rinchiusi nei campi di prigionia che inglesi e americani avevano allestito in varie nazioni del mondo, dall'Egitto all'Algeria, dalla Palestina al Kenya, dal Sudafrica all'India, e persino alle Hawaii. "Ma tu con chi stai, con il duce o con il re?" fu il dilemma di fronte al quale si trovarono i nostri soldati, colti di sorpresa dall'annuncio della resa senza condizioni accettata dall'Italia e dalla conseguente fuga di Vittorio Emanuele III a Brindisi: dopo avere combattuto per anni contro un nemico preciso e riconosciuto, bisognava scegliere, all'improvviso, se passare o no dall'altra parte della trincea. Di questa massa enorme di giovani - l'età media era di 23-24 anni - una cospicua minoranza scelse di non "tradire", ma gli storici, sia per la scarsità delle fonti ufficiali sia per la "delicatezza" politica dell'argomento, non se ne sono occupati che in maniera superficiale: ancora oggi, gran parte delle notizie utili a una ricostruzione ampia e articolata di quegli anni convulsi e contraddittori ci giungono da pagine autobiografiche o dai resoconti memorialistici dei protagonisti. Molti dei quali, avendo risposto di no all'appello di Badoglio a rientrare in patria, anche per non subire odiose discriminazioni, che in realtà ci furono, preferirono il silenzio.
Tra loro personaggi importanti come Alberto Burri, Vincenzo Buonassisi, Giuseppe Berto, Gaetano Tumiati, Nino Nutrizio - diventati poi celebri artisti, scrittori e giornalisti. Ciononostante, una certa "vulgata" storiografica ha continuato a ignorare l'esistenza dei soldati italiani imprigionati nei campi inglesi o americani: a lungo incerti se abbandonare o meno idealismi politici e cieche ubbidienze "all'idea", avevano rifiutato le lusinghe dei loro detentori - decisi a farne dei "cooperatori" - con il rischio di patire, talvolta, pesanti conseguenze fisiche e psicologiche. Lontani migliaia di chilometri dalla loro patria, andarono incontro, vuoi per fedeltà ideologica al fascismo (e poi alla Rsi), vuoi per orgoglio o, più semplicemente, per coerente dignità militare, a un futuro denso di incognite e di rischi.
Quelli che dissero no restituisce voce e memoria ad alcuni di quei protagonisti e riporta alla luce una tessera significativa, spesso rimasta in penombra, di quel mosaico di esperienze e avventure personali che ha caratterizzato l'"altra Resistenza".

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Quelli che dissero no di in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Storia e Storia mondiale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852020469
Argomento
Storia

XIII

LE FUGHE

Fuggire dai campi non era facile, anzi molto rischioso perché le sentinelle avevano l’ordine di sparare a vista e purtroppo non esitavano a premere il grilletto. Poi c’erano due recinti di filo spinato, uno dei quali, spesso, percorso dalla corrente elettrica. Solo dopo aver superato questi ostacoli si poteva cominciare a correre verso la libertà, verso la meta... Ma quale meta? Tutti i campi erano collocati in zone isolate distanti chilometri e chilometri dai grossi centri abitati dove, forse, si poteva trovare un eventuale rifugio.
Eppure, malgrado le difficoltà, nei primi anni di prigionia, quando gli animi erano ancora accesi e la voglia di tornare a combattere non si era spenta, molti ci provarono e tutti o quasi tutti finirono riacciuffati una prima, una seconda, una terza o anche una quarta volta, per i più ostinati. A farcela furono infatti così pochi che possono essere contati sulle dita delle mani.
Per fortuna, la punizione che attendeva questi fuggitivi sfortunati non era grave: ventotto giorni di arresti semplici come stabiliva la quasi sempre rispettata convenzione ginevrina. Non mancavano però le eccezioni, assai frequenti. In questi casi, ai malcapitati venivano impartite dure «lezioni» a base di calci e di legnate. Gli americani usavano per la bisogna le consuete mazze da baseball, gli inglesi, più sofisticati, impiegavano lenzuola bagnate e attorcigliate come bastoni. Pare non lasciassero lividi.
I primi tentativi di evasione si registrarono in Egitto, agli inizi della guerra, e quasi sempre furono realizzati, come già accennato, scavando nella sabbia profondi tunnel per passare sotto i reticolati. Questo lavorio durava anche mesi, perché poteva essere eseguito soltanto di notte per sfuggire alla vigilanza. Di tempo disponibile, però, ce n’era fin troppo. Per gli scavi venivano impiegati dei badili rudimentali o anche le sole mani; il problema non era tanto lo scavare quanto l’occultare con mille espedienti il terriccio di riporto.
A Geneifa furono scavate decine di gallerie lunghe anche venti o trenta metri e rese transitabili con l’impiego di assi e paletti di sostegno. Purtroppo, questi lavori venivano bruscamente interrotti perché scoperti dai sorveglianti o perché segnalati da qualche spia collaborazionista, che purtroppo non mancava. A qualcuno, uscendo all’aria aperta, capitò anche l’amara sorpresa di trovare ad attenderli gli inglesi con il fucile in pugno e un sorriso beffardo sulle labbra.
Il primo tentativo, il più celebre perché ne parlò anche la stampa, fu quello compiuto nell’aprile 1941 dal capitano Compagnoni, detenuto in un campo della Palestina. Prima della fuga, l’ufficiale aveva studiato per giorni e per notti tutte le possibilità: il cambio della guardia, gli orari, i vari movimenti delle sentinelle e le possibili vie di fuga. Poi, individuato lungo il reticolato il punto in cui poteva essere aperto un varco, entrò in azione. Fuggì di notte dopo essere rimasto per ore pancia a terra sotto i reticolati di filo spinato, in attesa del previsto cambio della guardia. Portava con sé un involto legato alla meglio con una cordicella bianca tolta dalla tenda inglese sotto la quale dormiva. Il fagotto conteneva dei viveri, una camicia e un paio di pantaloni di ricambio da indossare dopo la fuga, se tutto fosse andato bene. Allo spuntare dell’alba giunse il momento opportuno e Compagnoni, a forza di gomiti, spingendo avanti il fagotto, varcò il recinto e corse a nascondersi in una macchia. Qui rimase immobile per tutto il giorno, in attesa della notte successiva e quindi si mise in cammino. Marciò per quattro giorni, sempre di notte, evitando con cura i villaggi arabi o ebrei incontrati lungo il cammino. Intendeva raggiungere Tel Aviv, città dalla quale sperava di potersi imbarcare clandestinamente a bordo di qualche nave neutrale.
Giunto nella periferia della città, il fuggiasco indossò gli indumenti puliti e avvolse gli altri con la solita cordicella... Purtroppo fu proprio questa cordicella a tradirlo. Un poliziotto britannico incontrato per strada guardò insospettito lo sconosciuto che andava in giro con quello strano pacco di stracci, legato da una cordicella candida e ritorta che non faticò a riconoscere: era non a caso identica a quelle impiegate per le tende militari inglesi... Il resto lo possiamo immaginare e la fuga del capitano Compagnoni si concluse.
Col passare del tempo e con l’evolversi degli eventi bellici, le evasioni dai campi di prigionia destinati ai Coman scemarono progressivamente. L’ultima si registrò a Yol ai primi di luglio del 1943. Due tenenti di cui non si conoscono con esattezza le generalità (Vita e Italia?), sorpresi mentre cercavano di fuggire, furono freddati a colpi di pistola da un caporale inglese. Non scemarono invece le evasioni dai Fascist Criminal Camp dove, infatti, proseguirono, addirittura anche dopo la fine della guerra. Di una di queste fu protagonista il ventenne guardiamarina Luigi Montalbetti. Era stato ripescato in Atlantico con altri naufraghi del suo sommergibile – affondato da un cacciatorpediniere americano – da una «nave corsara» tedesca, il Burgenland, che proveniva da Singapore con un carico di gomma destinato a Bordeaux. Sfortuna aveva voluto che lo stesso Burgenland venisse poi attaccato dal cacciatorpediniere Wilson dell’US Navy e che lo stoico comandante germanico, invece di arrendersi, preferisse autoaffondarsi con la sua nave. Ripescato nuovamente dal mare, il giovane ufficiale italiano era stato trasferito di campo in campo, finendo poi, per sua scelta, in quello «fascista» di Hereford. Qui finse a lungo di assorbirsi nel suo sport preferito: l’atletica leggera. In Italia si era infatti distinto nei «littoriali» sportivi organizzati dal regime vincendo la gara di salto con l’asta. In realtà, intendeva mantenersi in forma per essere pronto a fuggire quando ne avesse avuto la possibilità.
Dopo qualche mese, quando si ritenne in grado di poter affrontare una lunga marcia attraverso il Texas sconfinato, Montalbetti mise in atto il suo progetto di fuga dopo avere escogitato un piano veramente originale. Invece di scavare il solito tunnel, si «limitò» a saltare con l’asta il basso recinto che separava il settore degli ufficiali da quello dei militari di truppa. Nascondersi in mezzo a loro non fu infatti difficile: i sorveglianti si preoccupavano più delle assenze che delle presenze e in quel momento erano tutti impegnati a dare la caccia al fuggiasco Montalbetti all’esterno dei campi. Le ricerche continuarono a lungo e nessuno riuscì a individuare il varco che aveva consentito l’evasione, tanto che alla fine i sorveglianti si erano rassegnati ad accettare l’incredibile versione sostenuta dai prigionieri: il fuggiasco era riuscito a superare il doppio reticolato con un prodigioso salto con l’asta. Un vero record! D’altronde, il «corpo del reato», ossia l’asta, abbandonata ad arte nel campo, costituiva la prova indiscutibile.
Dopo qualche settimana, il prigioniero in soprannumero si intruppò con i marinai che ogni giorno uscivano con altri prigionieri a gruppi di 80, naturalmente sotto scorta, per recarsi al lavoro nelle fattorie. Quella mattina gli uscenti erano 81, non 80, ma il guardiano non se ne accorse, grazie anche a un marinaio napoletano che, mentre era in corso la conta, lo distrasse mettendosi a cantare ’O sole mio. Il gruppo fu poi trasferito sul luogo di lavoro in un immenso campo di mais e per tutto il giorno Montalbetti raccolse pannocchie, dopo di che si nascose fra i covoni e attese che i suoi compagni salissero sui camion per rientrare al campo. Fuggì quando si misero a cantare Il tamburo della banda d’Affori. Era il segnale convenuto per avvertirlo che la via era libera.
Per giorni e giorni Montalbetti attraversò l’immenso Texas, dove si incontra una farm ogni quaranta o cinquanta chilometri, tra praterie sconfinate, mandrie allo stato brado e rudi cowboy. Viaggiò in gran parte a piedi e in parte tramite l’autostop. Si spacciava per un marinaio francese poiché ne conosceva la lingua, a differenza dell’inglese. Ebbe anche la fortuna di trovare un farmer che aveva combattuto proprio in Francia durante la Prima guerra mondiale, il quale lo ospitò per un mese versandogli la paga da bracciante. In un altra farm trovò una bella bionda che gli domandò se le ragazze italiane di «Fogghia» (Foggia) erano belle, perché era lì che si trovava il suo boy-friend. Lui la consolò assicurandola che era più bella lei e per qualche tempo sostituì l’assente.
Di farm in farm, il falso francese arrivò a Pecos e poi a El Paso dove ebbe fine la sua avventura per un banale incidente. A uno sceriffo sospettoso, Montalbetti aveva dichiarato le sue false generalità (Paul Dupont) precisando di essere sbarcato a New Orleans dalla steamship Edison il 5 marzo 1944. Il luogo e la data erano giusti, ma non il nome della nave. Lui vi era giunto con la Weserland, un’unità che trasportava prigionieri di guerra italiani e tedeschi, ma aveva mentito, temendo di insospettire lo sceriffo. Lo sceriffo era però un tipo pignolo, eseguì dunque un controllo e scoprì che l’Edison esisteva davvero, ma che era stata affondata da un sommergibile tedesco nel 1941...
La fuga avventurosa era dunque finita. Montalbetti tornò mogio mogio a Hereford dove il colonnello Joseph Carwolth, comandante del campo, si congratulò con lui per l’impresa e volle sapere come diavolo fosse riuscito a fuggire. «In Italia ero campione di salto con l’asta» rispose il guardiamarina per non rivelare il trucco escogitato e l’americano accettò quella versione che già circolava. Montalbetti scontò la sua fuga con i soliti 28 giorni di arresto.
A Hereford si verificarono molte altre tentate evasioni, tutte destinate a fallire. Andò così per il colonnello Mariconda, il capitano Agonigi, il capitano Ghisi, il tenente Pandolfini e il tenente Armenia. Quest’ultimo, forse obnubilato dalla prigionia, aveva garantito di essere in contatto con una misteriosa organizzazione nazista che disponeva addirittura di mezzi aerei. Ma quando giunsero nel luogo convenuto, i fuggiaschi non trovarono nessuno e si riconsegnarono spontaneamente agli americani. Più concreta fu la fuga dei capitani Brighenti e Salomone, del tenente di vascello Masina e del tenente Ottone Sponza. Quest’ultimo era un pilota spericolato già protagonista di una clamorosa fuga in Algeria. Grazie all’aiuto di alcuni paracadutisti della Nembo, era riuscito a impossessarsi addirittura di un bombardiere leggero Blenheim, ma al momento del decollo un motore si era inceppato e la fuga era fallita. Questa volta i quattro riuscirono però a nascondersi tra i respingenti dei vagoni di un treno merci e affrontarono in quelle condizioni il lungo viaggio, sperando di raggiungere la California. Sfortuna volle che il freddo intenso trovato sulle Montagne Rocciose li mettesse in difficoltà provocando a Sponza anche dei principi di congelamento che lo costrinsero a consegnarsi alla polizia americana. Gli altri tre raggiunsero invece la California, ma la polizia era in allarme e furono catturati.
Un tentativo che, se fosse riuscito, avrebbe ottenuto risultati memorabili fu quello cui partecipò anche il generale Scattaglia, il più alto in grado nel campo di Hereford. Scattaglia era uno dei due soli generali che rifiutarono di collaborare. L’altro, il generale Annibale Bergonzoli, ebbe la stessa sorte che toccò in Italia al poeta americano Ezra Pound, che si ostinava a dichiararsi fascista. Fu dichiarato pazzo e venne rinchiuso nella camera imbottita di un manicomio militare nel quale rimase isolato per due anni e pazzo, forse, lo diventò per davvero.
Scattaglia, insieme ai subalterni Munizzi, Della Casa, Belardo, Parente, Turrini e alcuni altri, intendeva fuggire attraverso un tunnel che, partendo da sotto la branda del tenente Munizzi, doveva sboccare oltre il reticolato. La galleria, costata mesi di lavoro, era dotata di impianto elettrico e di un sistema di aerazione formato da barattoli aperti nei due fondi e uniti insieme col nastro isolante. Purtroppo la galleria fu scoperta quando il lavoro di scavo era quasi ultimato. Forse per una spiata. A Hereford si registrarono molti altri tentativi di fuga di minore o di maggiore portata. L’ultimo lo tentò il sottotenente Busia, addirittura nel novembre 1945, quando la guerra era finita e stavano iniziando i rimpatrii. Ma il tentativo di evasione più clamoroso, da diventare addirittura leggendario, si registrò nel campo di Yol, nell’alto Punjab indiano, a 1200 metri di altitudine. Ne furono protagonisti il tenente di vascello Camillo Milesi Ferretti, comandante del sommergibile Berillo, il capitano delle armi navali Elios Toschi e il tenente di vascello Luigi Faggioni. Lo stesso Toschi racconterà la sua avventura nel libro autobiografico In fuga oltre l’Himalaya.
Milesi e Toschi erano due vecchi camerati che avevano già provato altre volte a fuggire: prima da Geneifa e poi dalla stessa Yol, da dove erano riusciti a raggiungere Bombay sperando di trovare rifugio presso l’ambasciata giapponese. Ma l’«alleato» nipponico non si era fidato e aveva chiamato la polizia che li aveva arrestati davanti alla porta chiusa. Un altro loro folle tentativo era fallito sempre a Yol (avevano allestito una rudimentale mongolfiera che però non si era sollevata da terra). Finalmente i due amici, cui si era unito Faggioni, fecero il colpo grosso. Scapparono il 18 aprile 1942 grazie a tre complici che, all’appello, si fecero contare due volte. Il loro progetto era pazzesco: superare la catena himalayana, raggiungere l’Afghanistan e da lì la Turchia.
Travestiti da indiani e impratichiti del dialetto urdu, i tre fuggiaschi vissero un paio di mesi insieme ai pastori del luogo, dormendo in luride capanne e mangiando soprattutto ranocchie. Ma il capo pastore non tardò a scoprire che si trattava di militari ricercati dagli inglesi e, per tacere, impose loro un singolare ricatto: avrebbero dovuto compilare per lui una «lettera di presentazione» da poter esibire ai giapponesi quando questi avrebbero liberato l’India dalla dominazione britannica. Fu accontentato.
Nell’attesa che il disgelo aprisse il valico montano, i tre discussero e forse litigarono per divergenze d’opinioni. Milesi, infatti, decise di lasciare i compagni per dirigersi da solo verso Goa, la colonia portoghese neutrale. Gli altri due proseguirono invece il viaggio verso... la Turchia, accompagnati da una guida indiana. Alla fine di giugno, sopraggiunto il disgelo, superarono stremati un valico a 5100 metri d’altezza. Ora, davanti a loro, i colossi dell’Himalaya, stretti attorno al leggendario Tibet, si stendevano a perdita d’occhio. Ma non era il caso di sostare per ammirare il panorama. Ripreso il cammino giunsero in un villaggio abitato da indù musulmani e qui scoppiò un disastro imprevisto. L’indù che li ospitava scoprì che le scatolette con cui si cibavano i due stranieri e di cui lui stesso si era cibato contenevano, niente di meno, che carne di vacca... Orrore! Sacrilegio! Gli sforzi di Faggioni per convincerlo che si trattava di una «mucca occidentale» – che non aveva corna e che non dava latte – si rivelarono inutili e i due furono cacciati di casa. Per fortuna, nel villaggio vivevano anche i musulmani, i quali vennero in aiuto dei due forestieri credendo si trattasse di «fratelli dell’Islam». Altro intoppo: la faccenda si fece più complicata quando pure questi scoprirono che non si trattava di correligionari ma di cristiani, una religione di cui era inutile parlare perché non sapevano neppure che cosa fosse.
Infine, non solo la guida indù, per non compromettersi, se l’era data a gambe, ma anche i musulmani erano nel frattempo venuti a sapere che si trattava di fuggiaschi ricercati e che sopra di loro pendeva una taglia di cinquanta rupie: qualcuno chiamò la polizia e Toschi e Faggioni dovettero vedersela con un barbuto ispettore che li arrestò e li rispedì a Yol.
Dopo la lunga assenza, i due evasi rientrarono tristi e avviliti al campo, ma i compagni avevano in serbo per loro una lieta sorpresa. In Italia, lo spezzino Luigi Faggioni era stato decorato di medaglia d’oro «alla memoria» per un’impresa da lui compiuta il 26 marzo 1941 a Suda, nell’isola di Creta, dove aveva affondato un incrociatore britannico, avventandosi contro di esso con un barchino esplosivo. I «barchini» erano dei mezzi d’assalto, insidiosi come i «maiali», impiegati dagli arditi incursori della Decima MAS comandata dal principe Valerio Borghese. Con quei mezzi, come con i «maiali» di cui abbiamo già parlato, gli incursori avevano inferto gravi colpi alla marina britannica anche a Gibilterra, a Malta e ad Alessandria d’Egitto. Si trattava di motoscafi a fondo piatto, con motore sollevabile per superare gli sbarramenti (un brevetto che sarà molto sfruttato in seguito dal turismo nautico), dotati di una carica di tritolo e di un sedile a molla che sbalzava indietro il pilota pochi istanti prima dell’esplosione. Ma il rischio era così grande che la decorazione a Faggioni era stata conferita «alla memoria», perché in patria si escludeva che il pilota fosse riuscito a salvarsi.
Elios Toschi, invece, fu informato che il 23 aprile 1942, pochi giorni dopo la loro partenza, Winston Churchill aveva rivelato al Parlamento britannico che gli incursori della marina italiana, dopo avere violato il porto di Alessandria, avevano inferto un durissimo colpo alla Mediterranean Fleet, impiegando dei misteriosi «siluri umani» di cui si ignorava il funzionamento. L’episodio si era verificato il 19 dicembre 1941, ma la stampa britannica lo aveva sino allora celato per ragioni di segretezza. Persino in Italia l’annuncio di Churchill aveva destato clamore perché non era ancora nota la conclusione di quella eccezionale impresa, essendo stati catturati tutti i suoi protagonisti. Toschi non tardò quindi a capire che quegli oggetti misteriosi citati da Churchill erano i «maiali» che lui stesso aveva realizzato con Teseo Tesei. Una bella soddisfazione, anche se molto tardiva.
Irrequieto e incapace di sopportare la prigionia, Elios Toschi ritentò ancora la fuga dal campo di Yol qualche mese dopo, insieme al tenente di vascello Mario Anastasio. Questa volta ebbe fortuna e dopo una serie di peripezie riuscì a raggiungere la colonia portoghese di Goa, dove Camillo Milesi Ferretti lo aveva preceduto dopo essersi separato dai compagni durante il tentativo di fuga che abbiamo prima descritto. Rientreranno entrambi in patria dopo la fine della guerra.
Ma la fuga più romanzesca, forse perché gratuita, si verificò in Kenya ed ebbe come protagonisti tre prigionieri italiani, la cui vicenda sollevò grande ammirazione nel mondo anglosassone ancora prima della fine della guerra. Da questa vicenda saranno tratti libri, film e sceneggiati televisivi.
Nel febbraio 1943, il «Times» di Londra pubblicò una breve notizia inviata dal suo corrispondente da Nairobi. Segnalava che tre prigionieri di guerra italiani, evasi da un campo, avevano scalato il monte Kenya (5100 metri), vi avevano issato una bandiera italiana e si erano quindi ripresentati al campo consegnandosi ai sorveglianti. Quella notizia passò quasi inosservata perché erano in molti ad aver altro a cui pensare in quei giorni burrascosi, tuttavia il quotidiano londinese aggiunse ulteriori particolari e persino questo commento molto obbiettivo:
Il Kenya è già in debito con i prigionieri di guerra italiani che hanno costruito l’unica strada decente della nostra colonia. È quindi giusto ed equo che almeno tre prigionieri di guerra italiani siano in debito con il Kenya per la più bella avventura della loro vita...
La notizia rimbalzò anche in Italia con maggiore clamore. La «Domenica del Corriere» si affrettò a dedicare una pagina a colori, dis...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quelli che dissero no
  3. Introduzione
  4. I. La guerra nel deserto
  5. II. «Rommel, Rommel, portami via con te...»
  6. III. La caduta dell’Impero
  7. IV. Quella primavera piena di speranze
  8. V. Anabasi nel deserto
  9. VI. La trappola di El Alamein
  10. VII. Ma la guerra continua... o no?
  11. VIII. Il dramma della scelta
  12. IX. I prigionieri sorridenti
  13. X. Zonderwater, la «città dei prigionieri»
  14. XI. I prigionieri «dimenticati»
  15. XII. L’aborto di «Italia libera»
  16. XIII. Le fughe
  17. XIV. Il campo degli irriducibili
  18. XV. «Italia banzai! Nippon banzai!»
  19. XVI. L’amore dietro il reticolato
  20. XVII. Fame in America
  21. XVIII. Si torna a casa!
  22. Bibliografia
  23. Inserto fotografico
  24. Dello stesso autore
  25. Copyright