Il problema del peso riguarda ognuno di noi, i nostri figli, e mette in discussione il nostro futuro di salute, benessere e autostima.
L’Organizzazione mondiale della sanità già da alcuni anni ha coniato un nuovo vocabolo: globesity, obesità globale, per definire il fenomeno che porta a contare, su tutta la terra, oltre un miliardo di persone in forte sovrappeso… una persona su sei!
Negli Stati Uniti, dove i fenomeni si manifestano prima, per poi arrivare inesorabilmente anche da noi, un terzo della popolazione è obesa, mentre addirittura il 60 per cento è sovrappeso. In Italia, dal 1994 a oggi, gli obesi sono aumentati del 25 per cento, arrivando alla soglia dei nove milioni di persone.
Il dato italiano più preoccupante è quello sui bambini. Nemmeno l’infanzia, un tempo fatta di scriccioli sgambettanti, riesce a salvarsi: il 12 per cento è obeso e oltre il 23 per cento sovrappeso, con tendenza all’aumento e con punte allarmanti in alcune regioni. È un’epidemia. Se ne stanno accorgendo tutti e ci sono state le prime iniziative a livello istituzionale, come i distributori di frutta invece che di merendine nelle scuole italiane o i programmi di “risveglio al gusto” inseriti nelle scuole francesi. Il ministero della Salute italiano ha anche avviato, già da alcuni anni, delle campagne di educazione alimentare nelle scuole, coinvolgendo insegnanti e genitori.
L’obesità nell’infanzia e nell’adolescenza è particolarmente pericolosa, molto più di quella che si manifesta in età adulta. Uno studio pubblicato sulla rivista “Nature” ha dimostrato che i piccoli in sovrappeso, proprio grazie alle enormi risorse legate all’età, sviluppano un eccesso di adipociti, le cellule preposte a immagazzinare il grasso.1 È stato dimostrato che il numero degli adipociti aumenta fino all’adolescenza e poi rimane stabile nel corso della vita: quindi gli adulti ingrassano non tanto perché aumentano gli adipociti, quanto perché si accumula grasso in quelli che hanno sviluppato nell’infanzia. Meno adipociti abbiamo, meno ingrassiamo (il primato in questo senso va ad alcuni popoli orientali, indiani soprattutto, che rivelano una scarsa presenza di queste cellule). Se invece gli adipociti sono numerosi, l’aumento di peso in età adulta diventa quasi inevitabile, e in ogni caso molto più difficile da contrastare e ridurre rispetto a quello di chi ha avuto un’infanzia normopeso.
Anche il nostro Paese, dunque, conosciuto per le sue sane abitudini alimentari, sta scalando le classifiche dell’obesità. E questo nonostante alla base dell’alimentazione italiana ci sia proprio quella dieta mediterranea, esportata nel mondo, molto apprezzata dai nutrizionisti di ogni Paese, tanto che negli Stati Uniti viene consigliata per contrastare le cattive abitudini radicate nella popolazione e la diffusione incontrastata del cibo-spazzatura.
La soluzione non sta nelle diete… e neppure nei farmaci
Ormai per dimagrire si ricorre a qualsiasi cosa, dalle anfetamine ai farmaci (spesso psicofarmaci), dagli interventi chirurgici a diete di ogni genere, che promettono risultati miracolosi. Ma i farmaci dedicati a questo scopo non solo hanno controindicazioni importanti, ma in più di un caso sono stati tolti dal commercio per la loro pericolosità.
Non solo gli obesi, anche le persone che hanno pochi chili da perdere cercano la soluzione miracolosa per dimagrire, sull’onda di una cultura sempre più diffusa, il cui slogan è: una pasticca e risolvi tutto. Ma nonostante gli scaffali delle farmacie straripino di prodotti snellenti a vario titolo, la popolazione continua a ingrassare.
Intendiamoci, in commercio esistono farmaci che a volte possono essere utili e ci sono casi in cui la chirurgia, come per i “grandi obesi”, diventa inevitabile. Ma non è questo il problema. Perché, puntualmente, dopo aver perso chili con espedienti e sacrifici vari, si riacquista tutto il peso e anche qualcosa di più. Così ricomincia la sofferenza.
Il problema: abbiamo fame… d’affetto
Per capire i motivi per cui oggi la tendenza a ingrassare è così inarrestabile e così difficile da contrastare, occorre andare alle radici del problema.
Il nostro corpo ha una disposizione naturale a mantenere il suo peso “ideale”, quello che corrisponde a un certo tipo di costituzione e altezza. Ma questa tendenza, oggi più che mai, subisce molteplici interferenze. E non tanto perché si siano “guastati” il sistema endocrino o il metabolismo (cosa che avviene in un numero limitato di casi), ma per il fatto che ingeriamo molte più calorie di quelle che riusciamo a utilizzare. Nonostante ciò, le persone in sovrappeso avvertono l’impellente necessità di queste calorie aggiuntive. Lo può confermare qualsiasi dietologo o psicoterapeuta: i pazienti raccontano di sentire il bisogno irrefrenabile di mangiare più e più volte nella giornata. Talvolta non fanno nemmeno caso a quello che mangiano, l’importante non è la qualità ma la quantità.
Un mio paziente, che superava di 30 chili il suo peso forma, vedovo da dieci anni, tutte le domeniche andava ancora dalla suocera, per perpetuare il rito del pranzo in famiglia, nonostante la moglie ormai non ci fosse più. Al ritorno, benché rimpinzato dagli abbondanti manicaretti che la suocera preparava per lui, provava ancora una fame incontrollabile, come se fosse digiuno. Poiché cercava in ogni modo di perdere peso, aveva cura di non tenere in casa cibo “a rischio”. Però aveva sempre scorte di riso. Ebbene, in mancanza d’altro, faceva bollire fino a tre etti di riso e li ingurgitava voracemente, senza condimento. Lo raccontava con un misto di disprezzo nei propri confronti e di rassegnazione, come se dicesse: “Non posso fare diversamente, è più forte di me”.
Chi è colpito da questa fame incoercibile, ingiustificata dal punto di vista organico, avverte una sensazione di “vuoto”, un disagio difficile da definire, un dolore sordo.
Gli ho chiesto: “Scusi, ma lei è contento di andare da sua suocera?”. “No” mi ha risposto, “ci vado perché ho paura che ci rimanga male.”
Mi ha raccontato che con sua suocera si sentiva sempre sulle spine, che aveva paura di essere giudicato un incapace. “Una donna gelida”, così la descriveva.
Non poteva sottrarsi al “rito della domenica”: avrebbe temuto più di tutto il “gelo” e la “rabbia” che sua suocera gli avrebbe trasmesso.
Così mangiava, ma era completamente insoddisfatto. Andare da sua suocera era una dura prova cui si sottoponeva per aderire a un’etichetta, un dovere cui riteneva impossibile sottrarsi. Non si sentiva amato, stimato, apprezzato… eppure ci andava lo stesso.
Ingurgitava tutte le domenica il “cibo del disprezzo”: per questo tornava a casa e si abbuffava. Mangiando cerchiamo di donarci amore, come accade agli albori della vita con il latte.
Sono le calorie “affettive” quelle che mancano. Ricorrere al cibo diventa allora una modalità automatica per tamponare l’angoscia. Questa può avere tante cause (problemi di lavoro, ansia per i figli, stress, preoccupazioni per la salute di qualcuno a cui teniamo) e il cibo è sempre lì, a disposizione per darci sollievo.
Una dieta non basta, non cambia le cose. Anzi, aggiunge sofferenza a sofferenza. Solo se cambiamo la mentalità, il modo di stare con noi stessi e con gli altri, possiamo dimagrire davvero.
Non altrimenti.
Di cosa ci nutriamo: il cibo e i suoi simboli
Il cibo non è l’unica stampella a disposizione per reggere e compensare disagi di varia natura, ci sono anche l’alcol, il fumo e, a un livello più preoccupante, le droghe. Tuttavia il cibo riveste un ruolo privilegiato per i molti significati simbolici a esso collegati, per la capacità di ammantarsi di significati, di trasformarsi e cambiare maschera secondo le occasioni e le suggestioni.
Per comprendere meglio, immaginiamo questo colloquio.
“Buone queste lasagne, come le hai fatte?”
“È una ricetta di mia madre, che aveva imparato a farle dalla nonna.”
Le lasagne, che erano “solo” buone, prendono un connotato aggiuntivo che le rende desiderabili, irrinunciabili, perché legate alla tradizione e agli affetti…
In questo esempio c’è la convergenza di due funzioni: quella alimentare, che abbiamo in comune con gli animali, e quella della comunicazione verbale, tipicamente umana, capace di evocare immagini e sensazioni suggestive… Lo sanno bene le industrie alimentari che, per vendere i loro prodotti, abbinano al cibo immagini di amore, tenerezza, erotismo e avventura. Infatti il colloquio riportato sopra potrebbe essere quello di uno spot pubblicitario. La TV ci suggerisce puntualmente ogni sera, guarda caso proprio all’ora di cena, come cuocere in forno l’amore materno, come rinnovare la tradizione dei nonni, come risvegliare la seduzione, come rilassarsi con una bevanda, come diventare speciali grazie a un aperitivo. L’immagine che evoca il cibo è spesso più importante della sua capacità nutritiva, dei principi vitali che contiene e delle calorie che apporta. All’aspetto oggettivo di alimento si affianca un “valore aggiunto” dato dall’effetto che esercita sul mondo emotivo.
In un’epoca di repentini cambiamenti come la nostra, dove le mode arrivano e passano in un baleno ma bisogna comunque seguirle, altrimenti non si è nessuno, le identità spesso traballano o, come si dice, entrano “in crisi”. Ed ecco l’ennesima soluzione veloce e indolore, che permette una nuova suggestiva identificazione: è sufficiente mangiare o bere quel determinato prodotto per assumere un altro aspetto, per essere desiderabili, amati, simpatici, per fare un tuffo all’indietro, in campagna, dai nonni…
Davvero appetibile.
Dove è finita la nostra anima selvatica?
Abbiamo visto come, nella scelta di cosa mettere nel piatto, si privilegi spesso il significato simbolico piuttosto che il valore alimentare, anzi come sia il primo a prevalere sul secondo.
Non è stato così dall’inizio della storia umana, ma lo è sicuramente da molte generazioni, cioè da quando il cibo è largamente disponibile.
Gli animali sono emblematici di quel che succede quando l’alimentazione perde la sua funzione biologica.
Gli esemplari che vivono liberi in natura hanno l’innata capacità di scegliere solo il cibo adatto a loro e, quando riescono a trovarlo, di mangiare in modo corrispondente al fabbisogno. Gli animali domestici, che noi nutriamo, spesso con il “nostro” cibo, ingrassano, impigriscono, soffrono di disturbi del comportamento e anche loro hanno “imparato” a compensare le loro vite poco appassionanti con overdosi di cibo. Lo racconta una ricerca anglosassone: gli animali di casa hanno perso l’istinto alimentare. E, come noi umani, mangiano senza fame e senza desiderio.
Per dimagrire, l’anima ha bisogno soprattutto di desiderare. Il desiderio, in qualsiasi modo espresso, è il più grande antidoto all’obesità: un nuovo lavoro, nuovi interessi, un nuovo amore o una vecchia passione che si riaccende…
Queste sono le basi da cui ripartire.
Le diete non servono
Uno squilibrio alimentare rimanda puntualmente a un rapporto sofferto con le emozioni, a un’energia vitale che rimane intrappolata nel circolo vizioso dolore-cibo-anestesia… Dobbiamo pensare al nostro corpo come a un evento globale. Per dimagrire occorre un modo diverso di concepire sia il problema sia la soluzione.
Nell’opinione comune il peso si perde con rigore e sacrificio. Capovolgiamo la cosa: per ritrovare il proprio peso ci vuole il piacere. Quello vero, che nasce dalla passione per la vita, per tutte le manifestazioni dell’esistenza, amori e affetti, lavoro e tempo libero, talenti e creatività. Dimagrire deve essere un gesto “artistico” che ci toglie dalla routine, che sbriglia la fantasia e ci fa riscoprire quello che davvero fa bene solo a noi.
Dimagrire è l’arte di incontrare te stesso, il vero te stesso, non quello soffocato dal cibo. Il te stesso che sa fare cose uniche.
Non devo mettermi a dieta, ma scoprire che cosa mi viene naturale, che cosa so fare spontaneamente.
Creare e fiorire sono le parole d’ordine…
2323__perl...