Alla guida dell'Einaudi
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Alla guida dell'Einaudi

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  1. 168 pagine
  2. Italian
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Alla guida dell'Einaudi

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Informazioni sul libro

«Giulio Einaudi detestava un sacco di cose, amava un sacco di cose e aveva un sacco di fissazioni. E tutti questi sacchi io li ho portati in giro per una dozzina di anni. Se ne imparano di cose su una persona, in dodici, tredici anni. Specie se le fai da autista.»
Chi parla è Mimmo Fiorino, l'autista personale di Giulio Einaudi. In queste pagine rievoca la sua esperienza al fianco dell'editore: dalla routine quotidiana alle trasferte impreviste. Ricorda gli incontri con scrittori e intellettuali come Rigoni Stern, Vassalli, Yehoshua, Bobbio, Natalia Ginzburg. E poi descrive lo speciale rapporto intessuto con il "capo": «Mi sento un po' come se avessi fatto da autista alla storia della letteratura degli ultimi decenni, seppure scritta in modo diverso dai manuali scolastici». Leggere le memorie di Fiorino è come ripercorrere le vicende culturali di uno scorcio di Novecento. Raccontate da chi, a quella letteratura, ci si è seduto davanti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852018947

VI

Un’amicizia

Intorno al 1990, Einaudi lasciò la casa di via della Rocca e andò ad abitare in via Pietro Micca. Una strada molto più trafficata ma anch’essa elegante, e che inoltre aveva un vantaggio enorme: era vicino alla casa editrice. Adesso viveva in un palazzo all’incrocio con via San Tommaso, una strada pedonale; era un edificio raffinato, con un bel bovindo sull’angolo.
Anche il suo appartamento era elegante: se c’era un posto dove anche senza conoscerlo si poteva capire che era un uomo colto, quello era casa sua. Chiaramente erano i libri a farla da padroni, nello studio c’erano due intere pareti di libri della sua casa editrice, poi in salotto c’era un’altra libreria. E in mezzo a tutti quei libri, c’era l’unica collezione che, a quanto ne sapevo, il dottore faceva: reggilibri.
Ne aveva di pietra, ottone, marmo, rame... di tutti i materiali e di tutti i generi, e ogni tanto lo accompagnavo per mercatini a cercarne. Era molto bravo a mercanteggiare. Una volta ne comprammo un paio che avevano disegnati sopra due mosconi: continuò a tirare sul prezzo finché non riuscì ad abbassarlo di parecchio. Ma dopo mi chiese lo stesso: «Secondo te li abbiamo pagati tanto?». Me lo chiedeva spesso. Non era certo questione di soldi, è che gli piaceva la trattativa, e parlare con la gente.
Parlare con gli altri era una delle sue passioni, e di passioni Einaudi ne aveva poche. Non ricordo hobby particolari, e non praticava sport. Sapeva nuotare, nient’altro. Le poche che aveva, però, erano passioni fortissime, e quella più forte di tutte naturalmente erano i libri. L’unica cosa che gli interessava davvero. Si entusiasmava solo se parlava di libri o se passava una serata con uno scrittore. Non voleva nemmeno far stampare troppe copie di un libro in prima edizione, così non sarebbero andate al macero, sarebbero durate nel tempo. Secondo lui, un libro vero bisognava leggerlo più volte. Se ogni sera aveva uno scrittore diverso a cena era l’uomo più felice del mondo. Non l’ho mai neppure sentito dire: “Stasera vado al cinema, vado a teatro...”.
Parlare con la gente, occuparsi di libri, cos’altro amava? La tranquillità. Mangiare. Viaggiare. Ammirare i paesaggi, la natura. E l’Italia.
Amava tutta l’Italia, e in modo particolarmente intenso la Toscana e la Sicilia. Ma gli piacevano anche regioni meno turistiche, come le Marche. Voleva girarla metro per metro la penisola, paesino per paesino. Adorava le cittadine medievali, Mantova, Siena; odiava Milano, le grandi città caotiche, e per questo, se doveva dormire lontano da casa, sceglieva sempre un hotel fuori città. A Torino ci stava poco, però la amava, specie le piazze. Gli piaceva passeggiarci, era una città “magica” secondo lui, e appena poteva camminava per le sue strade. Gli piacevano pure i dintorni, da Pinerolo alle sue Langhe (soprattutto). Si incazzava molto coi sindaci delle Langhe, se facevano qualcosa che secondo lui non andava. Per esempio, non poteva soffrire le nuove case intorno a Dogliani: voleva scrivere al sindaco di non deturpare le colline. Non credo che l’abbia mai fatto, si arrabbiava con gli amministratori comunali come con i dipendenti, mai del tutto seriamente.
E per una dozzina d’anni, accanto a lui, nelle Langhe, a Torino, fra i cascinali, nei negozi mentre contrattava, nelle cittadine medievali, nei mercatini a comprare reggilibri, ci sono stato io. Lo accompagnavo perché era il mio lavoro, ma gli stavo vicino anche in tanti momenti che col lavoro c’entravano poco.
Adesso voglio ricordare quei momenti. Quelli in cui non lavoravamo e non parlavamo di lavoro, di libri, di scrittori o di redattori. Quelli in cui sembravamo – e spesso ci sentivamo – due amici.
«Mimmo, cosa fai di solito il sabato quando non lavori?»
«Vado a Porta Palazzo. Mi piace girare tra le bancarelle, qualche volta si comprano cose belle per pochi soldi.»
«Vorrei venire anch’io. Sai, non ci sono mai stato, mi piacerebbe.»
Era torinese e non era mai stato al più grande mercato non solo della città, ma d’Europa. Così come era stato poche volte a Superga e mai, prima che ce lo portassi io, al monumento funebre del Grande Torino. Mi sono spesso domandato come facesse ad amare la sua città senza avere voglia di conoscerla più profondamente. Forse gli piaceva che ancora rimanessero dei misteri che poteva decidere lui quando e se scoprire.
«Va bene» gli risposi. «Allora domattina ci vediamo a casa sua verso le 10.45.»
«Facciamo alle 10.48.»
«Quando mai!... A domani.»
L’indomani, sabato, alle 10.48 ero sotto casa sua. Quando scese in strada, mi squadrò da capo a piedi.
«Oggi sei vestito da passeggio» disse.
Indossavo un paio di jeans, un pullover e un giubbotto. Non ci avevo pensato, ma di sicuro era la prima volta che non mi vedeva in divisa.
«Anche lei» gli risposi.
Aveva dei pantaloni di velluto grigio, un golf anch’esso grigio e un montgomery nero. Nemmeno io l’avevo visto spesso in tenuta “casual”. Nudo come un verme magari, ma casual di rado.
«È l’abbigliamento giusto per il mercato, no?» mi disse.
«Giustissimo.»
Ci incamminammo verso Porta Pila, come la chiamano i torinesi e come la chiamo spesso anch’io. Mi piace quel nome, perché è una specie di soprannome del soprannome: il vero nome del luogo dove si tiene il mercato è piazza della Repubblica; Porta Palazzo è il nome vecchio, quello precedente al 1946. In realtà è usato ancora oggi, ma non è più il nome ufficiale, è il nomignolo: come per mia figlia, che sui documenti è Maria Annunziata ma in casa è Nancy. Riassumendo: piazza della Repubblica, detta Porta Palazzo, detta Porta Pila. Un nomignolo che più nomignolo non si può, e i nomignoli li dai solo alle persone e alle cose a cui tieni di più.
Quando arrivammo, il mercato era su di giri come un motore, come sempre di sabato, il giorno in cui i mercati torinesi sono aperti per tutta la giornata (e non solo la mattina come gli altri giorni della settimana) e la gente vi accorre più numerosa. Chi arriva dal centro, a sinistra trova i banchi di abbigliamento, elettrodomestici, giocattoli, scarpe eccetera, tutti colorati e caotici, tra pantaloni e maglioni appesi, tendaggi e sciarpe che sventolano come bandiere, monti di biancheria e pile di scatole con sopra radioline, profumi, ciabatte... a destra, invece, ci sono i banchi di alimentari, soprattutto di frutta e verdura. Molti vendono solo poche varietà di merce, e quindi qua spicca una chiazza arancione (il banchetto delle arance), là una macchia rossa (pomodori), qui una verde (insalata), lì una viola e gialla (melanzane, peperoni e altre verdure). E tra tutti quei colori, tra tutti i cartelli che urlano di approfittarne, che si tratta di un affarone, tra gli sberluccichi della bigiotteria... ci sono le voci: accenti di tutte le regioni d’Italia e di tutto il mondo, dal pugliese al piemontese al maghrebino, donne e uomini che gridano entusiasti... Credo che si potrebbe stare per tre o quattro mattine di seguito a Porta Palazzo a guardarsi intorno e ad ascoltare ciò che dicono venditori e clienti senza annoiarsi mai.
Il dottor Einaudi e io però passammo in mezzo ai banchi di frutta e verdura senza fermarci, perché volevamo andare al Baffin: nemmeno quello conosceva, e io mi chiedevo come si faceva a conoscere il Balôn e Porta Palazzo solo di nome. Il Balôn è il mercato delle pulci. Tutti i sabato mattina, le viuzze dietro a Porta Palazzo – vie che adesso hanno un poco ristrutturato, ma che nei primi anni Novanta cadevano a pezzi, tutte sporche – si riempiono di banchi o anche solo lenzuoli con sopra grandi quantità di merce stramba, giacche militari di seconda mano, libri vecchi, soprammobili della nonna, Madonnine di Lourdes. Oltre alle bancarelle però ci sono pure i negozi, soprattutto di mobili, che nel giorno del mercato lasciano le porte aperte ed espongono la mercanzia all’esterno, così sembrano bancarelle anche loro. Il gran giorno, poi, è la seconda domenica del mese, quando c’è il Gran Balôn, un supermercatone delle superpulci.
Cominciammo a girare tra i banchi. Mobili vecchi, scarpe usate, abiti usati... di tutto. Il dottor Einaudi si fermò a un banco in cui c’erano due reggilibri molto belli, di pietra, a forma di cane.
«Che dici, Mimmo, li compro?» mi chiese. «Ti piacciono?»
«Molto» gli risposi.
Einaudi non aspettava altro: cominciò a trattare sul prezzo. Ora, noi siamo occidentali, e quindi apparteniamo a una cultura in cui non si mercanteggia spesso. Di solito c’è un cartellino col prezzo, al limite si può chiedere un po’ di sconto, e neppure dappertutto. Ai mercati delle pulci invece anche noi contrattiamo come se fossimo arabi. Adesso che nelle vie intorno al Balôn ci sono tanti extracomunitari islamici, ogni tanto mi chiedo se si sentono a loro agio, come se stessero nel suk della loro città. Di certo, in quel momento era il dottor Einaudi a stare a proprio agio nel suk di Torino: trattò e discusse e ritrattò e ridiscusse finché strappò un buon prezzo, così, quando finalmente riprendemmo il nostro giro, in un attimo fu la mezza, era ora di tornare a casa, perciò lasciammo il Balôn, riattraversammo Porta Palazzo e arrivammo all’inizio di via Milano, dove si trova il municipio.
«Be’, ci dividiamo» mi disse lui. «Io vado di qua.»
«Vuole che l’accompagni fino a casa?»
«No no, vai pure.»
«Arrivederci, allora.»
Mi guardò con un sorriso che gli partiva dagli occhi, gli passava per la bocca e poi si ramificava nel resto del corpo: perfino dal modo in cui teneva la borsa coi due reggilibri incartati vidi che era felice.
«Grazie per la passeggiata, Mimmo» mi disse, e pure la voce esprimeva una piena felicità. «È stata davvero bella... magari ci torniamo, a Porta Palazzo.»
Ci tornammo, quasi per caso, un giovedì mattina. Dovevo portarlo a Milano a un pranzo con Leonardo Mondadori, perciò andai a prenderlo alle undici meno un quarto. In macchina, lo vidi controllarsi il nodo della cravatta nello specchietto retrovisore, lui si accorse del mio sguardo e mi fece un sorriso.
«Be’, Mimmo, come sto con questo vestito?» mi chiese.
«Benone, dottore.»
«Sicuro?»
«Sicurissimo!»
«Ci hai fatto caso che siamo vestiti in modo praticamente identico?»
Era vero, indossavamo tutti e due un vestito grigio scuro; cambiava solo la cravatta: la mia era grigia come il vestito, la sua amaranto.
«Però,» disse «la tua cravatta sta meglio della mia con l’abito, mi piace di più!»
«Vuole che ce le scambiamo, per oggi?»
«Sì, forse è meglio.»
Mi slacciai la cravatta e gliela diedi; lui se la mise e si guardò nello specchietto.
«È meglio, sì!» disse. Poi, mentre eravamo per strada aggiunse: «Se vedi un negozio che vende calzini, ci fermiamo a comprarne un paio in filo di Scozia, d’accordo? Grigi come il vestito. Questi che ho non mi piacciono».
«Perché non ci fermiamo a Porta Palazzo? Lì dei calzini li troviamo di sicuro.»
«Basta che siano grigi come il vestito e li possiamo comprare dove vuoi.»
Mi fermai a Porta Palazzo e andai io a cercarli: in quel mercato enorme, sapevo muovermi molto meglio di lui, e poi ci mancava soltanto che si mettesse a contrattare il prezzo dei calzini e a Milano ci saremmo arrivati sì per l’ora di pranzo, ma del giorno dopo. Quindi feci un giretto tra i banchi che vendevano biancheria da uomo e comprai un paio di calzini grigi in filo di Scozia. Quando tornai in macchina e glieli consegnai, lui si tolse subito scarpe e calze. Sembrava molto contento dell’acquisto, e pure di cambiarsi in auto. Io pensai che cambiarsi in macchina – come mangiare in macchina, chiacchierare in macchina, fare l’amore in macchina – fosse una cosa da ragazzini, e che fosse fortunato a mantenere ancora un angoletto fanciullo dentro di sé.
Quando si accorse che lo osservavo, mi strizzò l’occhio.
«Sta’ tranquillo che non mi puzzano i piedi!» rise. Mi misi a ridere anch’io mentre finiva di allacciarsi le scarpe. «Fatto» disse poi. «Ora possiamo andare, sono a posto!»
E ripartimmo. Una volta a Milano, lo lasciai a casa Mondadori, gli chiesi a che ora dovevo tornare a prenderlo e andai a farmi un giro e a mangiare qualcosa; alle tre del pomeriggio eravamo di nuovo in m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prologo
  3. I. Giulio Einaudi Editore
  4. II. Il primo viaggio
  5. III. Il bello e il brutto
  6. IV. Tra cultura e natura
  7. V. In famiglia
  8. VI. Un’amicizia
  9. VII. L’ultimo viaggio
  10. Epilogo
  11. Copyright