Ragazza di periferia
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Ragazza di periferia

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  1. 108 pagine
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Ragazza di periferia

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Informazioni sul libro

Certe storie somigliano talmente a delle favole che sembrano fatte apposta per essere raccontate.
La storia di Anna Tatangelo è quella di una Cenerentola contemporanea, materia di sogno per tante ragazze come lei.
Anna nasce a Sora, nella profonda provincia laziale. È l'ultimogenita di Dante e Palmira, due pasticcieri che producono la ciambella sorana. Anna ama la musica, e ci prova. Fin da giovanissima va in giro per concorsi canori. Il talento non le manca, e tantomeno la tenacia. È così che, a soli quindici anni, si trova sul palco dell'Ariston. "Ho soltanto la mia età" canta nel primo verso della sua Doppiamente fragili. E vince: prima classificata nella categoria Giovani del Festival di Sanremo. Da lì dischi, concerti e altre soddisfazioni professionali si susseguono.
Ma la favola non è ancora finita. Lo stesso anno conosce Gigi D'Alessio, una vera star, e con lui canta Un nuovo bacio. Galeotta fu la canzone e chi la scrisse, dopo qualche tempo fra i due nasce una storia d'amore. La giovane Anna si ritrova in una tempesta di maldicenze, viene accusata di essere una rovina famiglie, un'opportunista.
Qualche anno più tardi, una gravidanza sembra regalare il sigillo a una storia straordinaria. Ma Anna dovrà soffrire ancora un po', stringere ancora i denti, essere di nuovo più grande della sua età. Il lieto fine arriverà poco dopo, e Anna e Gigi lo chiameranno Andrea. In questo libro per la prima volta Anna, la Lady Tata nazionale, racconta la sua storia, la sua piccola favola, senza niente omettere. Per affermare finalmente la sua semplice verità, alla faccia delle malelingue.

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Informazioni

La mia infanzia

Ho passeggiato dieci, cento, mille volte lungo quella via. Via Napoli. Per anni, nel corso della mia infanzia, è stato proprio quello il fulcro della mia esistenza. Lunghe camminate con la mia immagine di ragazzina, carica di desideri e speranze, che si rifletteva nelle vetrine dei negozi.
Ma non avrei mai immaginato che si trattasse di un segno del destino. Insomma che Napoli, la bellissima Napoli, avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella mia vita.
Ricordo che qualunque cosa si facesse, l’appuntamento era sempre lì, all’edicola della via. Uscivo poche volte con le amiche e in quelle circostanze mia madre mi accompagnava lì e lì dovevo farmi trovare quando veniva a riprendermi.
Sora è una cittadina deliziosa, è sempre nel mio cuore, anche se ora vivo stabilmente a Roma. A Sora nacque il grande Vittorio De Sica, anche se, in tenera età, si trasferì a Napoli.
Noi figli di questo luogo ci portiamo dentro con orgoglio i natali celebri: sapere che il regista di Ladri di biciclette, che vinse il premio Oscar nel 1950 come miglior film straniero, era un compaesano, ci rende incredibilmente fieri.
Il centro storico di Sora è molto suggestivo, incorniciato dalle chiese di Santo Spirito, Santa Restituta, San Bartolomeo Apostolo, San Francesco e la cattedrale di Santa Maria Assunta. Un po’ più fuori ci sono l’abbazia di San Domenico, edificata sui resti della presunta villa natale di Cicerone, e il castello di San Casto e Cassio.
La mia città, dicevo, è deliziosa, nessun appunto, ma un piccolo centro, a una ragazzina piena di sogni da realizzare come me, stava irrimediabilmente stretto.
Non ho mai immaginato di poter fare altro. La musica è sempre stata la mia compagna più fedele. Ricordo come fosse ieri, ero solo una bambina, avevo circa quattro anni e me ne stavo seduta sulle ginocchia di mio nonno, davanti alla TV. Poi lo fissavo e gli dicevo: «Nonno, io diventerò una cantante famosa e tu verrai a vedere i miei concerti, vero?». E così è stato. Alla mia prima, vera esibizione, al teatro Brancaccio di Roma, il mio nonnino era lì, in prima fila, con la sua coppola siciliana, pieno di gioia, con gli occhi lucidi, armato del suo applauso più caldo. Lui sì che mi dava soddisfazione, mi ha sempre applaudito tanto. Mia madre invece no, mai. Difficile dimenticare quando, ai piccoli concorsi canori, le mamme di tutti i partecipanti si piazzavano alle spalle della giuria e facevano un gran casino per influenzare, forse, i loro giudizi, le loro scelte. Lei, al contrario, restava lì, ferma, muta, immobile, col suo sguardo fisso e severo. E quando le chiedevo le ragioni della sua freddezza, mi rispondeva candida: «Devono essere gli altri a giudicarti, a dirti che sei brava, non certo io». E allora, per compensare la mancanza del calore di quell’applauso, io immaginavo che la frase continuasse così: “Tanto io già lo so che sei bravissima e non lo devo dimostrare a nessuno. Che amo te e la tua voce... una voce simile al canto di un usignolo che prima o poi ti porterà molto lontano”.
Inutile nascondersi dietro un dito, il rapporto con mia madre non è stato sempre facile. Il paragone è scherzoso, quindi nessuno si offenda, ma se devo accostare mamma a qualcuno, direi che il personaggio più adatto è la signorina Rottermeier; sì, proprio lei, la tutrice occhialuta e severa della piccola e dolce Heidi e della sua amica Klara.
In casa mia non è mai volata una mosca che lei non volesse. Un’educazione dura e con il gusto della proibizione. Forse per questo ho tre tatuaggi (in omaggio alla musica, ai cartoni animati e a mio figlio) e me ne sono andata via di casa superati da poco i vent’anni. Una ribellione quasi scientifica. Direi che, così, ho dato anche una mano ai miei fratelli e a mia sorella. Perché dopo i miei strappi, le cose sono cambiate e oggi, a casa mia, a Sora, vige una sana e amorosa anarchia.
Però è anche vero che mia madre è capace di gesti dolcissimi. Uno dei ricordi più belli che ho di quando ero bambina è quello di mamma che mi accarezza la testa fino a farmi addormentare.
Parlavo dell’infanzia e della mia prima giovinezza... Nessuna, dico e sottolineo, nessuna distrazione, feste, uscite con le amiche: unica eccezione, qualche domenica; e l’appuntamento era al pub Bistrot di Sora, sempre vicino a via Napoli, il fulcro anche della mia adolescenza.
La mia unica e liberatoria via di fuga era la musica.
Le note sono state la mia ninna nanna, le mie amiche, le mie confidenti, le mie compagne di giochi. Cantavano e cantano tutti nella mia famiglia.
L’unico modo che avevo di evadere dalla mia adorata cittadina era partecipare ai piccoli festival per esordienti che si svolgevano nei paesini limitrofi, che ai miei occhi di bambina apparivano come Las Vegas, Londra, New York.
Naturalmente mi venivano proibite, anche e soprattutto, le gite scolastiche. Colpa del modulo che i genitori avrebbero dovuto firmare, quello che in due parole recitava che la scuola si scrollava elegantemente di dosso ogni responsabilità in caso di problemi o casini vari che avrebbero potuto capitarmi. Insomma, se fossi caduta in un fosso, catturata da una banda di rapinatori di cantanti in erba o fossi scappata con un suonatore di oboe indiano, la responsabilità sarebbe ricaduta irrimediabilmente sui miei ignari genitori. Logica e ferrea la giustificazione di mia madre al suo no categorico: «Ma se io non sono presente, come faccio a sobbarcarmi questa incombenza? Dunque tu resti a casa!». Non fa una grinza. E cosa vuoi risponderle? Io chinavo il capo e accettavo, non certo senza un bel po’ di tristezza, questa sua decisione. Magari avrebbe potuto chiedere alla scuola di partecipare alla gita, così da tenermi d’occhio, ma l’idea non l’ha mai sfiorata. E chissà, neppure le avrebbero dato il permesso.
Ma forse, se avessi fatto una vita normale, uguale a quella delle mie compagne di classe, mi sarei lasciata distrarre dalla vita mondana e avrei trascurato la musica. No, per carità, meglio così. Anziché soffrire per le mancanze della mia infanzia, mi piace immaginare che tutto abbia contribuito a che i miei desideri si realizzassero. Certo, le mie compagne di scuola si sarebbero risparmiate qualche livido. Da adolescente ero un maschiaccio, giocavo solo con i ragazzini e picchiavo le femmine. In particolare quelle che si vantavano di essere andate in gita. No, dài, scherzo! E che rabbia stare lì a osservarle mentre si preparavano una settimana prima dell’evento. «Che vestiti ci portiamo?» confabulavano tra loro. «Il trucco l’hai preso?» «No... questo zainetto è out, non potrei mai portarlo con me...» Per non parlare del fatto che al ritorno, l’ondata di divertimento si propagava per un periodo di tempo infinito.
Ricordo che in quelle occasioni a me precluse si creavano anche amicizie impossibili. Ragazze che magari, in classe, si scambiavano sì e no due parole, tornavano unite come sorelle, quasi inseparabili. Oppure quelle che sembravano amiche per la pelle rientravano dalle gite nemiche giurate. E nove volte su dieci la causa era che avevano messo gli occhi sullo stesso ragazzetto. Bleah! Io tutte queste cose me le sono risparmiate. Grazie mammina! Amiche poche ma buone, e poi a scuola andavo abbastanza bene, me la sono sempre cavata, nessuna grande lavata di capo anche se i professori dicevano sempre ai miei genitori: «È intelligente, ma non si applica». Litigavo un po’ solo con la matematica, un universo a me ignoto che però col tempo si è rivelato utile, quando ai mercati vendendo le ciambelle dovevo stare attenta a far quadrare i conti.
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A scuola rigavo dritto. E con la testa sui libri ho consumato i più belli dei miei sogni a occhi aperti: gli applausi, un palco tutto mio, le luci che si accendono, il brusio degli amplificatori e la possibilità di cantare, cantare, cantare sempre, per tutta la vita.
Il primo festival a cui ho partecipato si svolgeva addirittura a Viterbo, terra lontanissima per il mio primo viaggio. Sora-Viterbo: 196 chilometri, circa due ore di automobile. Uscita dal mio paesino, appena fuori, mi sembrava addirittura che la terra, i prati, gli alberi avessero un’altra forma e un altro colore. Era l’esterno, il mondo che piano piano si apriva ai miei occhi, così carichi di voglia di essere sorpresi. Viterbo mi appariva come Los Angeles.
Dicevo, il primo concorso si chiamava Mini Festival di Viterbo, tre categorie in gara: 6/10, 11/14 e 15/18 anni. Tante tappe da superare per aggiudicarsi la finale e poi, magari, anche la vittoria. Una targa, una manciata di complimenti e qualche stage per i più fortunati, per imparare il mestiere dei propri sogni. La competizione richiamava, e credo richiami tutt’ora, un gran bel numero di ragazzini e ragazzine di buone speranze. Accompagnati da genitori più agguerriti di loro. E fra questi giovani aspiranti c’ero anch’io. Il tempo di una, due canzoni poi arrivava il verdetto che poteva essere pesante come una mannaia o dolce come una carezza. E se le cose andavano bene si finiva dritti dritti in finale ad alzare una targa, un trofeo e raggranellare qualche contatto utile. Magari con l’artista famoso di turno, che veniva a far da padrino o da madrina alla rassegna o presenziava in giuria.
Dovevo capirlo che il nuovo millennio mi avrebbe portato fortuna. I segni positivi c’erano tutti. In primis, nel 2001 arriva la vittoria al concorso itinerante Bravissimi in tour, che aveva fatto tappa proprio nella mia città, Sora. Mi aggiudico anche la finale nazionale a Cassino e tutto sembra cominciare a sorridermi.
È ormai estate inoltrata, agosto, se non ricordo male, quando in Rai vengo selezionata per Girofestival. Arriva il momento del mio primo inedito, basta con le cover, e mi cimento anche nel mio primo videoclip. Il brano s’intitola Dov’è il coraggio e tutto questo lavoro mi frutta il mio primo contratto discografico nazionale. C’è però bisogno di perfezionare, di studiare per affrontare con serietà una carriera che mi sta aprendo le sue porte.
Chiaramente i rapporti, i contatti, tutto era affidato a mio padre. Rimanevo muta come un pesce. Cantavo e poi lo osservavo guardarsi intorno. Per questo forse qualcuno mi ha giudicato antipatica.
Per tanto tempo sono rimasta in silenzio e l’ho lasciato parlare, prendere contatti per me, interagire al mio posto. Mi rendo conto che per lui non deve essere stato un compito facile, passare dal suo lavoro di panettiere al mondo dello spettacolo non è cosa da poco.
Io me lo ricordo bene quando mi recavo al mercato con i miei genitori a vendere le ciambelle, le famose ciambelle di Sora. La “ciammella”, come la chiamiamo dalle nostre parti, è frutto di un’antica ricetta tramandata a voce. Ingredienti semplici e una lunga lavorazione con la necessità di avere un prodotto economico, ma che si potesse conservare a lungo. Ha l’aspetto di una ciambella lucida e dorata, croccante all’esterno e dal cuore morbido, magari accompagnata da salumi, formaggi, acciughe o peperoni per i buongustai. Oggi la “vera” ciambella di Sora è quella bollita, con l’anice, grande, ritorta. Friabilissima appena fatta, un po’ meno il giorno successivo.
Sono sempre stata alla ricerca di una certa indipendenza economica. Avere qualche spicciolo in tasca mi faceva sentire meglio pur essendo ancora una studentessa. Così, quando a scuola c’era assemblea d’istituto, o uno sciopero, oppure anche solo la domenica, indossavo il mio bel cappellino e camice bianco e giravo per i mercatini dell’hinterland laziale. Sì, a pensarci bene quella è ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Ragazza di periferia
  3. Australia 2005
  4. La mia infanzia
  5. La mia famiglia
  6. I primi lampi di successo
  7. Quando nasce un amore: la storia con Gigi
  8. Un tuffo dove l’acqua è più blu
  9. Cuore di mamma: gioie e dolori
  10. Dio come ti amo
  11. Il ragù è una cosa seria
  12. Il mio amico
  13. Il pregiudizio
  14. Paris est toujours Paris...
  15. Pregi e difetti
  16. Doppia Difesa per le donne: il mondo secondo me
  17. L’avventura X Factor
  18. Amici e nemici
  19. In conclusione...
  20. Copyright