Pensionati con un solo giorno di lavoro
Trentacinque anni di contributi? Quaranta? Quota 99? Quota 97 e 2 mesi? Quanto pensate di dover ancora faticare prima di poter battere cassa all’Istituto di previdenza? E vabbè, consolatevi: ci sono alcuni italiani che, a differenza vostra, da tempo ricevono la pensione avendo lavorato la bellezza di un giorno. Proprio così: un giorno di lavoro, pensione per il resto della vita. Vi sembra strano? Forse. Ma vi sembrerà un po’ meno strano appena conoscerete il lavoro (si fa per dire) svolto dai fortunati soggetti. Si tratta, in effetti, di ex parlamentari.
Cominciamo dall’avvocato Luca Boneschi? Ma sì, cominciamo da lui: eletto per i radicali nel collegio di Como, fu proclamato deputato il 12 maggio 1982; il giorno dopo, il 13 maggio 1982, terminò ufficialmente il mandato parlamentare. Ventiquattr’ore in carica, nemmeno una presenza in aula. L’unico suo atto formale alla Camera? La lettera di dimissioni. Non si può dire che fu una gran fatica l’attività a Montecitorio dell’avvocato Boneschi. Epperò gli è valsa una sempiterna pensione, che secondo quanto ha dichiarato al «Corriere della Sera» gli è stata gentilmente offerta addirittura nel 1983. Cioè quando aveva appena 44 anni.
Da allora, s’intende, quella pensione la riceve regolarmente ogni mese: 3108 euro, che diventano 1733 netti. Vi sembrano pochi? Dipende dai punti di vista, si capisce: c’è gente che dopo aver lavorato fino a rovinarsi la salute prende meno di un terzo e ci deve pure vivere pagando affitto, bollette e conti della spesa. L’avvocato Boneschi, invece, con quei 1733 euro netti al mese non ci vive, non ci paga sicuramente l’affitto e nemmeno le bollette. Diciamo che sono il suo argent de poche, gentile mancia offerta dalla Repubblica italiana, per il disturbo arrecatogli chiamandolo per un giorno a timbrare il cartellino (formalmente, s’intende) a Montecitorio.
Stessa cifra anche per altri due ex parlamentari radicali, Piero Craveri e Angelo Pezzana. A loro, però, è toccata una fatica maggiore: un’intera settimana in carica. Il primo fu iscritto al Senato il 2 luglio 1987 e si dimise il 9 luglio. Il secondo fu iscritto alla Camera il 6 febbraio 1979 e si dimise il 14 febbraio, San Valentino, giorno degli innamorati e (evidentemente) dei prepensionati. Un’intera settimana da parlamentari? Accipicchia, si saranno stancati? Ma no, non preoccupatevi, anche per loro l’impegno è stato limitato. Un’unica seduta, che ha fruttato bene, però: 3108 euro, 1733 netti, per il resto della vita. E la domanda a questo punto sgorga fresca e pura manco fosse acqua di fonte: ma com’è possibile avere diritto a una pensione con una settimana o un giorno di lavoro (si fa sempre per dire) in Parlamento?
«All’epoca» ha spiegato Franco Bechis su «Italia Oggi» «era in vigore una sorta di assicurazione contro la chiusura anticipata della legislatura (accadeva spesso). I contributi dei parlamentari venivano versati figurativamente a spese della collettività.» La norma, per fortuna, è stata poi abolita, dimostrando una volta per tutte che non è vero che sono sempre i migliori che se ne vanno… Quello che stupisce è che, finché esisteva, a beneficiarne al meglio siano stati proprio i radicali, cioè coloro che storicamente hanno fatto della lotta alla partitocrazia una bandiera. Come mai? Marco Giacinto Pannella, a suo tempo debitamente informato della vicenda, cascò dal pero: «Non ne sapevo nulla, eravamo all’oscuro, ignoravamo quest’aspetto della questione…». Ma sì, Giacinto nel Paese delle meraviglie. Ignoravano tutto. Comunque, per la cronaca, anche quando i radicali smisero di ignorare, per i fortunati pensionati non cambiò nulla.
I diretti interessati, in effetti, sono sempre andati quasi orgogliosi del loro privilegio di antica casta. Angelo Pezzana, libraio e intellettuale torinese, storico leader del Fuori e delle prime lotte omosessuali, personaggio di cultura e di spessore, quando fu stuzzicato sul tema dal «Corriere della Sera» s’inalberò persino un po’: «Ho la coscienza a posto» disse. E spiegò: «Pannella aveva inventato il deputato a tempo: dopo un po’ uno lasciava e subentrava un altro. Arrivato il mio turno, però, avevo già deciso che la politica non faceva per me. E mi dimisi». E la pensione? «1750 euro. Non mi sembra un grande spreco.» Ma no, certo: 1750 euro netti al mese, anzi per essere precisi 1733, che vuoi che siano? Appena un confettino. Un bonbon. La giusta pensione per chi ha lavorato addirittura una settimana. Tutta intera.
Qualche sussulto di vergogna ce l’ha invece uno degli altri «one-day pensionati», unti dal privilegio, benedetti dalla dea casta, e cioè l’ex senatore Piero Craveri. Stimato storico, nipote di Benedetto Croce, professore universitario e già consigliere regionale in Campania, si dimise il giorno della prima riunione del Senato, il 9 luglio 1987, una novantina di ore dopo la sua proclamazione ufficiale. Non avrebbe voluto. «Me lo chiese Pannella» ha spiegato. Pannella? Quello che non sapeva nulla? Giacinto nel Paese delle meraviglie? Proprio lui. «Non avrei voluto dimettermi, lui me lo chiese. Accettai a malincuore.» E la pensione? «È un privilegio di casta.» Lo sapeva? «Certo che lo sapevo. Ma che dovevo fare? Nessuno di noi è un santo…»
Un po’ di sensi di colpa ce li ha anche il terzo one-day pensionato, che poi è il primo che vi abbiamo presentato, e cioè l’avvocato Luca Boneschi. «Quando nel 1983 arrivò la lettera che mi prospettava il vitalizio ebbi la tentazione di stracciarla.» Tentazione prontamente respinta, s’intende. Avvocato assai noto, molto impegnato nei caldi anni Settanta, leader dei Comitati di difesa contro la repressione, legale di Pietro Valpreda, oggi autore di dotte lezioni sull’etica e sulla responsabilità, Boneschi nel 1982 si era dimesso dal Parlamento perché era l’avvocato della famiglia di Giorgiana Masi, la studentessa uccisa dalla polizia: «Per quella vicenda ero imputato per diffamazione e non volevo sfruttare l’immunità parlamentare» ha spiegato. Un beau geste. Così, quando ci fu la possibilità di incassare il vitalizio non se la sentì di ripetersi: «Per il processo Masi ho lavorato gratis per anni. Ci ho rimesso tempo e soldi. Nessuno mi ha ringraziato, anzi i più mi consideravano un cretino. Allora pensai: ora basta, non passo per fesso due volte. E così ho accettato. Magari sbagliando, perché ora avrei la coscienza più a posto». Già: avrebbe la coscienza più a posto. Invece ha avuto qualche soldo in più sul conto corrente. Ma come non capire l’umana debolezza dell’avvocato che da allora non perde occasione per insegnare l’etica a tutti?
Il tagliapensioni Dini? Ha due (ricche) pensioni
A Claudio Sabelli Fioretti, che lo intervistava per la serie «I voltagabbana», Lamberto Dini raccontò con orgoglio di aver avuto il fegato di negare un finanziamento, addirittura, a Bokassa. «È vero che in quella circostanza rischiò di essere divorato dal dittatore?» chiese il giornalista. E lui, pavoneggiandosi, indugiò sui particolari di quel memorabile incontro quando, trovandosi vis-à-vis con il Barbablù del Centrafrica, non esitò un attimo a chiudere il borsellino dei soldi internazionali. «E la paura?», incalzava sornione il giornalista. «Non me ne sono reso nemmeno conto» rispondeva lui con aria da aspirante eroe. Ah, quale sprezzo del pericolo, quale fermezza, quale rigore morale. Non vi pare? Evidentemente, però, dev’essere più facile opporsi a Bokassa che al proprio tornaconto: il dittatore africano, infatti, non ha mai divorato Dini. L’avidità, invece, un po’ sì.
Non ci credete? Ascoltate bene. Lamberto, il premier della riforma del 1995, quello che seppellì per sempre le rendite d’anzianità, quello che introdusse il severo sistema contributivo al posto dell’allegro andante retributivo, proprio lui, Lambertow l’amerikano, l’economista che ha legato il suo nome alla più severa stretta previdenziale dopo quella voluta da Amato nel 1992, lui, l’uomo chiamato «tagliapensioni», ebbene: Dini incassa due ricchissime pensioni. Non una: due. Entrambe ricchissime. E come se non bastasse le cumula con un terzo assegno dello Stato, quello dell’indennità da senatore: così arriva a ricevere dalle casse pubbliche (anno 2008) la bellezza di 521.682 euro. A spanne quasi 40.000 euro netti al mese. Roba da far venire l’indigestione pure a Bokassa…
Ricordate i tempi ruggenti quando Lamberto, già ministro del centrodestra, fece il salto della quaglia e diventò capo di un governo con i voti del centrosinistra? Ricordate le parole d’ordine «lacrime e sangue per stare in Europa» e «scusate, ma i sacrifici sono necessari»? Ecco, a dirla tutta, Dini di sacrifici ne ha imposti molti, ma ne ha fatti pochi: nel 1994, pochi mesi prima di tagliare le pensioni altrui, si premurava infatti di mettere in cassaforte due pensioni per sé. Quella dell’Inps (13.288.250 lire al mese, quasi 7000 euro di oggi, per 13 mensilità) e quella della Banca d’Italia (36.752.479 lire al mese, oltre 18.000 euro di oggi, per 13 mensilità): totale 50 milioni di allora, circa 25.000 euro di oggi, ogni mese, per altro cumulabili con qualsiasi altro reddito (stipendio da ministro, indennità da parlamentare, ecc). Che ve ne pare?
Evidentemente ci sono due Lamberto, come scriveva Luca Telese nel 2000, facendogli per la prima volta i conti in tasca: c’è un Lambertow amerikano e un Lambertone italiano. Da una parte c’è l’uomo dell’Università del Michigan, quello delle borse di studio Fulbright e Stringher, il banchiere tutto d’un pezzo del Fondo monetario internazionale, l’anglosassone guru del rigore, il severo moralizzatore in salsa british. E dall’altra c’è Lambertone l’italiano, una specie di Alberto Sordi in salsa fiorentina, il prototipo del connazionale medio, mandolino&spaghetti, quello che cambia casacca politica con una certa facilità, fonda e sfonda partitini con gran disinvoltura. E che, soprattutto, mentre taglia le pensioni altrui si preoccupa di metterne al sicuro due per sé, e pure piuttosto consistenti. Un campione di coerenza all’amatriciana, insomma.
Dini è fatto così: Lambertow quando deve decidere per gli altri, Lambertone quando deve decidere per sé. Tutto in regola, s’intende, tutto secondo la legge, come al solito. L’unico problema, al massimo, è che, essendo lui quello che la legge l’ha fatta, magari gli capita di conoscerne bene le opportunità.
Per esempio, sappiamo tutti che nel 1995 sigillò in modo ferreo il divieto di cumulo per chiunque fosse andato in pensione da quel momento in avanti. E che ci volete fare se lui era andato in pensione pochi mesi prima? Inoltre: si è sempre battuto anche per impedire che lo Stato si svenasse a pagare vitalizi a persone al di sotto dei 65 anni. E che ci volete fare se lui di vitalizi è riuscito a prenderne due da quando aveva 63 anni? Inoltre ancora: ci ha spiegato mille volte che i tagli sono necessari. E che ci volete fare se lui proprio non riesce a tagliare il suo reddito annuo costruito con rendite incassate dalle casse pubbliche? Per altro, il suddetto reddito annuo ammonta a 521.000 euro: più che alla pensione di un settantenne, assomiglia al fatturato di una piccola impresa. Non male, no?
Però non pensiate che, per questo, Dini sia davvero un essere avido ed egoista, non accusatelo di fare solo i suoi interessi. Non è così. A volte sa essere anche generoso con gli altri. È vero infatti, come raccontò Telese, che nel 1995, prima di trasformare il divieto di cumulo in un imperativo categorico per l’intera collettività, andò in pensione con la garanzia del cumulo per sé. Ma non da solo. Macché: ci fece andare anche la segretaria. E poi, una volta che quest’ultima ebbe ottenuto il vitalizio, la assunse al ministero. Doppio gettito pure per Olga, si capisce: perché i tagliapensione, se è il caso, sanno essere duri persino con Bokassa. Ma mai con se stessi. E nemmeno con i propri cari.
Scalfaro, come prendere una pensione lavorando solo 3 anni
A proposito di persone dure e severe, avete presente Oscar Luigi Scalfaro? Quand’era presidente della Repubblica, nel 1997, conquistò le prime pagine dei giornali con una delle sue uscite roboanti: «Basta con le pensioni d’oro» disse durante un incontro pubblico nella Bassa novarese. Fu un momento molto quaresimale: il primo cittadino leggeva le vite dei santi, il capo dello Stato citava la Bibbia. «Come è scritto nel Vangelo, c’è chi ha troppo e chi troppo poco, ci sono cifre che danno le vertigini. Non è accettabile.» Amen.
Inginocchiatevi e credete a Oscar. Ma sia consentita almeno una domanda: se non sono accettabili le eccessive differenze fra chi ha troppo e chi ha troppo poco, sarà mai accettabile la differenza tra il vitalizio d’oro del medesimo Scalfaro e il misero assegno Inps di un operaio a riposo? L’ex capo dello Stato infatti risulta titolare di una pensione da magistrato (4766 euro netti al mese) che può liberamente cumulare alla ricca indennità da senatore a vita, per un totale superiore ai 15.000 euro netti al mese, circa 30 volte in più di quello che prende una tuta blu dopo 30 anni di lavoro alla catena di montaggio. Sono anche queste cifre che danno le vertigini? Giudicate voi (e giudichi sant’Oscar da Novara, se crede).
Ma il fatto davvero singolare è che l’ex presidente della Repubblica, gran moralizzatore nonché schiaffeggiatore senza tregua delle signore svestite e dei vizi della politica, prende una pensione da magistrato così alta pur avendo lavorato come magistrato appena 36 mesi. A proposito di cifre che danno le vertigini, non vale la pena citare anche questa? Una persona normale, in effetti, suda 30 anni e rischia di non arrivare a 1000 euro lordi al mese. Lui, con 3 anni di professione, si porta a casa 4766 euro netti (ribadisco: netti) al mese. Non è un po’ strano? Non dà, per l’appunto, le vertigini?
Eppure è proprio così: Scalfaro, infatti, vestì la toga soltanto fra il 1943 e il 1946, poi se la tolse, entrò in Parlamento e non ne uscì più. Certo: furono anni turbolenti, quelli. Il magistrato Oscar, che si è sempre dichiarato cattolico e contrario alla pena di morte, dovette anche chiedere la fucilazione di diversi imputati. Dal 1° maggio 1945 fece parte come «consulente tecnico giuridico» del Tribunale d’emergenza, un corte sommaria di partigiani; quindi entrò nel gruppo di pubblici ministeri che, dopo soli tre giorni di processo, mandò a morte sei uomini. Fra questi il brigadiere di pubblica sicurezza Domenico Ricci, padre di quattro figli, amico di famiglia di Oscar Luigi, che in una straziante lettera scritta prima dell’esecuzione urlò la sua innocenza. Inutilmente. «E pensare che per me Scalfaro era come un padre, forse di più…» ha commentato una delle figlie del brigadiere Ricci. «Gli ho poi scritto per sapere se papà fosse colpevole o innocente, Scalfaro mi telefonò una mattina presto e mi disse: stia tranquilla, dal Paradiso suo padre pregherà per lei…»
Mandare a morte una persona così buona da essere destinata direttamente al Paradiso non dev’essere stato facile per chi vive recitando salmi e citando i santi. Forse è per questo che nel 1946 Scalfaro lasciò la toga e si dedicò anima e corpo alla politica: è stato deputato ininterrottamente dal 1946 al 1992, poi presidente della Repubblica fino al 1999 e quindi senatore a vita. L’unico, con Andreotti, a essere entrato in Parlamento nel 1946, senza uscirne fino a oggi. E quindi il dubbio è legittimo: se è sempre stato in Parlamento dal 1946 a oggi come ha fatto a maturare una pensi...