Chi crediamo di essere
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Chi crediamo di essere

Come i sogni, i ricordi e le moderne teorie della mente ci aiutano a scoprire la nostra natura profonda

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  1. 216 pagine
  2. Italian
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Come i sogni, i ricordi e le moderne teorie della mente ci aiutano a scoprire la nostra natura profonda

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«La nostra mente è una macchina costruita per dare senso alle cose. Quando questo senso fa difetto nella realtà, ne costruiamo uno con l¿immaginazione. Vediamo segni e premonizioni dove invece ci sono solo fortuite coincidenze, intuiamo complotti e trame dove invece ci sono solo accadimenti tra loro slegati, attribuiamo intenzioni e progetti a chi semplicemente si fa i fatti suoi. Questa macchina lavora a molti livelli, da quelli più alti, quando si cerca di dare un senso alla vita, alla storia, a un¿intera vicenda, giù giù fino ai minimi, quando si ricostruisce la scena circostante guidando nella nebbia, o udendo rumori e voci esterne da dentro una stanza.» Conoscere noi stessi e capire la differenza tra percezione e realtà è ambizione antica: filosofi, psicologi, teologi e scienziati si sono cimentati per secoli con questa sfida, sviluppando alcune intuizioni, senza giungere, tuttavia, alla piena comprensione del nostro sistema psicologico ed emotivo. Nemmeno le scienze cognitive moderne e le neuroscienze sono riuscite a svelare completamente i meccanismi nascosti dei nostri pensieri e comportamenti. Se però il pensiero umano non può essere ridotto a una raffica di impulsi neurali, certamente lo studio del cervello ha fatto passi da gigante negli ultimi anni e può dirci molte cose sul funzionamento della mente. Sul perché, per esempio, quando incontriamo un bambino diventato ragazzo, ci stupiamo di quanto sia cresciuto, non riuscendo a contestualizzare il tempo trascorso; sul significato delle incongruenze che viviamo così frequentemente quando sogniamo; sulla nostra convinzione che piccole, insignificanti scelte del nostro passato abbiano indirizzato il corso della nostra vita; e sul motivo per cui a volte vediamo il bicchiere mezzo pieno e altre mezzo vuoto. Attraverso esempi concreti e con il consueto stile brillante e divulgativo, Massimo Piattelli Palmarini ci accompagna alla frontiera delle ultime scoperte della scienza cognitiva, spiegandoci come i ricordi, i sogni, le credenze più radicate possono farci comprendere qualcosa in più su noi stessi. Ci svela che uno dei tratti cognitivi più robusti e imprescindibili della nostra natura è quello di vivere, pensare, ricordare, godere o soffrire ogni evento «proiettandolo sempre sulla tela impalpabile di ciò che sarebbe potuto succedere, ma non è successo». E ci offre alcune piccole, illuminanti lezioni per la nostra vita quotidiana, nella convinzione che «educare noi stessi a convivere in pace con la casualità dell¿esistenza, con "questo scialo di triti fatti" è la condizione essenziale per individuare ciò che, invece, non è frutto del caso».

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2011
ISBN
9788852021619

XIII

Le smaccature

Il fenomeno
Molti di noi ricorderanno di aver visto, qualche anno fa, una serie di grandi cartelloni dell’Alitalia che dicevano The time has flown. Un madornale errore, in quanto in inglese si deve dire Time has flown.
In vari aeroporti italiani troneggiano visibilissime indicazioni, intese essere bilingui: «Cassa/Cash». Ma in inglese cash vuol dire denaro liquido, mentre cassa si traduce con cashier.
A Milano, vicino a Porta Garibaldi, c’è (o c’era) un bar che si chiama(va) La Petite Paris. Altro errore madornale, in quanto in francese i nomi di città sono maschili e quindi si dice Le Petit Paris. Una volta lo feci presente al barista (non so se fosse anche il proprietario), il quale mi disse che il nome lo aveva scelto l’architetto (anzi, l’architeètto, come lo pronunciano a Milano), che è «uno che queste cose le sa». E bravo l’architeètto!
A Firenze c’era (non mi risulta esista più) un ambizioso ristorante di stile francese dal curioso nome Vien. Dopo essermi stillato il cervello ogni volta che mi capitava di passarci davanti, infine, una sera, nel corso di una cena di lavoro organizzata proprio in quel ristorante dal mio amico editore Franco Maria Ricci, chiesi alla padrona il perché di quello strano nome. Pronta e con un certo sussiego mi disse: «È l’imperativo di venire, in francese, seconda persona. Significa vieni». «No,» ribattei io «allora doveva scrivere viens con la “s” finale.» Imperterrita la signora controbatté: «Ma questo è l’imperativo!». «No, mi scusi,» insistetti «ci vuole la “s” finale comunque. Se non mi crede, lo chieda a quella signora, che è il console francese a Firenze» (e gliela indicai, al nostro stesso tavolo, seduta più lontano). La proprietaria, abbassando la voce e di colpo cercando una sorta di connivenza, disse: «No, meglio evitare di fare brutte figure!». Sono ancora, a distanza di anni, sbigottito da quella risposta. Dare un nome (supposto essere) francese al proprio ristorante senza nemmeno verificare se è corretto!
E infine, in questa piccola galleria di esempi, uno dei più smaccati. Qualche anno fa, a Buenos Aires, nella importante storica sinagoga situata nella Calle Pasteur, una bomba fatta esplodere da un terrorista causò morti e feriti. Il corrispondente di «Repubblica» inviò al suo giornale un articolo sull’accaduto, con commenti perfettamente sensati. Ma alla fine, proprio alla fine dell’articolo, non resistette alla tentazione di inserire un’ultima frase di speciale angolatura, una sua personale pensata. Aggiunse: curioso gioco del destino che quel fatto di morte e di sangue fosse avvenuto proprio in una strada che porta il nome di Pasteur, il quale, con la scoperta della penicillina (sic) ha salvato tante vite umane.
Potrei moltiplicare gli esempi, ma penso che chiunque di noi abbia in memoria una personale scorta di simili bestialità. Questo speciale tipo di errori è sufficientemente diffuso e sufficientemente interessante, dal punto di vista cognitivo, da meritare un nome particolare e un piccolo studio. Il nome che vorrei suggerire è «smaccature» (lo prendo in prestito dall’enologia e dall’infortunistica, ma dandogli un senso diverso). La derivazione da «smaccato» è del tutto voluta.
Le smaccature
Dunque, propongo che i criteri per classificare un errore come una smaccatura siano i seguenti: l’errore deve essere:
1. forte e chiaro (smaccato, appunto. Non marginale, opinabile, incerto, solo approssimativo);
2. ripetuto e/o di circolazione pubblica (non si ha una smaccatura se l’errore resta privato e poi mai ripetuto, detto una sola volta, in famiglia, o in una lettera a un amico. La diffusione a mezzo stampa, o su insegne, o cartelloni, o in radio o televisione è il caso più tipico, ma contano anche conferenze, interviste, lezioni in classe, riunioni di lavoro);
3. non richiesto, né forzato dalla situazione (non è una smaccatura commettere uno svarione, anche grossolano, in un’altra lingua, in un ristorante, un albergo, una farmacia, una stazione ferroviaria, un casello autostradale, ecc., cioè quando si è obbligati a dire qualcosa, quella cosa, sul momento, non si sa bene come esprimersi in quella lingua e non c’è modo di verificare);
4. facilmente correggibile (consultando una qualunque enciclopedia, facendo una ricerca in Internet, chiedendo a un qualsiasi parlante di quella lingua, a un qualunque esperto della materia, ecc.);
5. insospettato da chi lo commette (una smaccatura non viene mai preceduta da un «forse», «mi sembra che», «non so bene», «posso sbagliare»);
6. non aperto alla rettifica (chi lo commette non accetta di essere corretto).
Quando un errore soddisfa tutti e sei questi criteri è un caso chiaro di smaccatura, ma esistono, ovviamente, molti casi intermedi, nei quali solo alcuni di tali criteri sono soddisfatti e nei quali si può avere una smaccatura solo parziale. Anche quelle parziali ci interessano qui, ma vediamo di spiegare quali processi mentali spiegano una chiara, tipica smaccatura.
L’illusione generatrice
A un livello molto generale, una smaccatura risulta da una fortissima illusione: l’illusione incrollabile di sapere. Se anche il minimo dubbio attraversasse la testa dello smaccatore non ci sarebbero smaccature. È la totale assenza del pur minimo dubbio che spiega il fenomeno. Le smaccature di natura linguistica hanno una spiegazione più specifica, una fonte ben precisa di questa illusione di sapere, sulla quale torneremo tra un momento, ma soffermiamoci sul fenomeno dell’illusione incrollabile a un livello più generale.
Per riprendere i casi appena visti, si rimane sbalorditi che grandi aziende come l’Alitalia e l’aeroporto di Malpensa non abbiano trovato il tempo, la motivazione e l’opportunità di verificare la corretta dizione inglese di ciò che doveva essere visibilmente, pubblicamente e macroscopicamente affisso sotto la loro responsabilità.
Distrazione di un collettivo? Una responsabilità troppo diluita? Si tratta forse dell’errore originario di un singolo che poi, per sviste e noncuranza di molti, non è stato mai corretto? Forse a nessuno importava abbastanza? Forse nessuno era stato veramente incaricato, pienamente responsabilizzato?
Forse, ma questo, allora, non spiegherebbe il caso del bar di Milano e del ristorante di Firenze (e mille altri simili in cui ci si imbatte in ogni momento – un negozio di ottica chiamato Occhial House, una ditta di trasporti chiamata Plastic Gall, con un galletto ben disegnato nel logo, e via così). A un titolare, ovviamente, importa molto che il nome della propria ditta non sia scritto in modo smaccatamente sbagliato. La spiegazione è che non ha mai sospettato che potesse essere sbagliato.
Nei casi collettivi questa stessa illusione di sapere è ripetuta nella testa di molti, esattamente come era accaduto nella testa del primo «inventore» della smaccatura. Tutti, uno dopo l’altro, e/o tutti insieme, sono vittime della stessa illusione di sapere. «Il tempo è volato» è corretto in italiano, quindi the time has flown deve essere corretto in inglese. Il dubbio che possa non esserlo non sfiora nemmeno. «La piccola Parigi» va bene in italiano, quindi La Petite Paris deve essere corretto in francese. Inoltre, nel caso, appunto, di una scritta, un’iscrizione, di un qualcosa destinato a uso pubblico, si è certi che tutti concorderanno, che a tutti tornerà sia così e non altrimenti.
Chiediamoci, allora, cosa può generare l’incrollabile illusione, quale processo mentale può causare l’illusione del vero in qualcosa che, invece, è obiettivamente, controllabilmente e smaccatamente falso. Alcuni meccanismi cognitivi emergono con chiarezza. Vediamoli in ordine di semplicità, dal più ovvio al più recondito.
Sedimentazione e ripetizione
Se uno è stato convinto di qualcosa per molti, molti anni, questo qualcosa sedimenta nella personale rete di credenze e diventa inaccessibile al dubbio e alla revisione. Inoltre, spesso e facilmente (anche se non necessariamente e sempre) la lunga durata si traduce in, e si rafforza con, un’alta frequenza di ripetizione. Una «verità» detta e ridetta, specie se da noi stessi, diventa rocciosa, protetta, immutabile. Sono persuaso che quel giornalista di «Repubblica» ha creduto da quando era adolescente che fu Pasteur a scoprire la penicillina.
Una delle più antiche generalizzazioni della psicologia è dovuta a Hermann Ebbinghaus: quello che si impara per primo si dimentica per ultimo. Nelle neuroscienze uno dei concetti più consolidati è quello che il neurofisiologo austriaco Sigmund Exner inizialmente designò con il termine Bahnung (usualmente tradotto con «facilitazione» o «canalizzazione», ma letteralmente sarebbe «binarizzazione», da Bahn, binario, come nelle ferrovie) per indicare il processo attraverso il quale la ripetizione si apre progressivamente una strada nel cervello, rafforzando certe sinapsi, facilitando i contatti tra i neuroni coinvolti. Donald Olding Hebb, fino dal 1949, riprese questo concetto (ancora oggi si usa il termine «sinapsi Hebbiane») poi raffinato e infine ben verificato al livello molecolare con il processo di potenziamento a lungo termine (LTP, Long Term Potentiation, inizialmente scoperto da Bliss e Lømo nel 1973). La migliore descrizione scientifica del fenomeno resta comunque quella dei dottori Gioacchino Rossini e Cesare Sterbini (librettista) nel Barbiere di Siviglia: «La calunnia è un venticello / un’auretta assai gentile / che insensibile, sottile, / leggermente, dolcemente, / incomincia a sussurrar. / Piano piano, terra terra / sottovoce, sibilando / va scorrendo, va ronzando, / nelle orecchie della gente, / s’introduce destramente, / e le teste ed i cervelli / fa stordire e fa gonfiar ... Alla fin trabocca e scoppia, / si propaga, si raddoppia / e produce un’esplosione / come un colpo di cannone, / un tremuoto, un temporale, / un tumulto generale / che fa l’aria rimbombar».
Questo ci porta dritti dritti al meccanismo seguente.
Autorità e gregarietà
Se il capufficio, l’alto dirigente, il maestro o una figura guida, seppure in campi ovviamente del tutto estranei alle sue competenze, commette una smaccatura, i subalterni sono destinati ad assimilarla come certa e indiscutibile, molto spesso senza nemmeno accorgersene. Lo stesso avviene per smaccature che circolano entro gruppi, comitati, intere ditte, comitive di soci e amici. Si noti, non parliamo qui di errori, magari anche grossolani, ma strettamente professionali, cioè facenti parte delle competenze specifiche di chi li commette. Parliamo di smaccature commesse in campi nei quali la competenza della persona è ovviamente, pubblicamente inesistente, per esempio, grossolani errori di inglese commessi da chi, è noto, non lo parla bene, o non lo parla affatto.
Un mio caro amico, professore universitario di biologia, osò un giorno far presente a un alto dirigente di un’importante industria farmaceutica del Nord Italia, della quale era consulente, che in inglese non si dice manàgement (con l’accento sulla seconda «a», come nell’italiano «mannaggia»), bensì mànagement (accento sulla prima «a», simile alla parola italiana «mantice»). La garbata correzione non venne accolta affatto bene. La secca risposta fu: «In ditta dicono tutti così, lo dice anche il dott. X» (il direttore galattico dell’intero complesso industriale). Fine della storia.
Lo stesso brusco effetto di resistenza lo ottenne anni fa mio fratello Maurizio, quando, altrettanto garbatamente, tentò di correggere un suo collega del Sud Italia, che diceva spesso «frustante» e «frustato» invece di «frustrante» e «frustrato». Alla prima reazione, quanto mai scettica, dell’interessato, Maurizio aggiunse: «Sì, vede, viene dal latino frustra, che vuol dire inutile, vano. Quindi, frustrante è, appunto, qualcosa che non dà nessun frutto, qualcosa che risulta inutile. La frusta non c’entra niente». La secca reazione, una volta di più, fu: «Io l’ho sempre sentito dire così, anche in fabbrica, anche dal nostro direttore».
Una maggiore incorreggibilità proviene dall’uso di una smaccatura da parte di un intero collettivo.
Per esempio, anni fa, un certo tipo di americani, di inglesi e di italiani chic e sussiegosi usavano la parola pissoir per riferirsi in modo elegante a un orinale. Ma in francese la parola non esiste e nessun dizionario la riporta (salvo, forse, nel dialetto alsaziano). Esiste, invece, pissotière che non è affatto, affatto chic. La parola pissoir è stata, dunque, una parola internazionale, ma non francese, di uso storico ristretto, in classi ristrette, mai verificata, oggi dimenticata e Dio solo sa come e quando inventata.
Altro esempio: le riviste di motociclismo italiane, tecnicamente competenti ma per lo più scritte da gente che strazia la lingua italiana, e non solo quella, hanno da anni introdotto il termine (presunto) francese motard e supermotard per designare delle motociclette un po’ particolari. Nell’argot motociclistico francese, però (nemmeno nella lingua ufficiale), un motard è un motociclista, una persona, non una motocicletta. Infatti nella Svizzera francese cartelloni pubblicitari recitano «Supermoto cherche supermotard». Questa supermoto (ben fotografata) cerca un supermotociclista. Ma la smaccatura dura ormai da così tanto tempo che motard e supermotard sono diventate parole dell’italiano motociclistico, con un significato diverso da quello delle parole francesi, che evidentemente nessuno mai si è curato di verificare (tanto doveva sembrare impensabile che fosse un errore).
Sempre in tema di smaccature di riviste motociclistiche italiane, la parola «congegno» viene scritta così spesso «congenio» (sic – forse pensato derivare da «genio») che dobbiamo ritenere diverrà una nuova parola dell’italiano, o un cambiamento stabile del modo di scriverla. In fondo, fino alle soglie della prima guerra mondiale, in italiano si diceva «la fronte» (la fronte occidentale) e poi è diventato «il fronte». Forse è successo spesso che smaccature linguistiche sedimentate e incancrenite abbiano cambiato i lessici delle lingue. Nell’inglese americano odierno, per esempio, il pronome possessivo neutro its viene scritto sempre più spesso (erroneamente, una vera smaccatura) come la forma contratta di it is, cioè it’s, con l’apostrofo, un’espressione che pure esiste ed è altrettanto frequente, ma che è tutt’altro.
Il fatto si sta diffondendo a un ritmo tale che penso tra vent’anni questa smaccatura diverrà la scrittura corrente e ufficiale. Altra smaccatura americana: la parola francese petite, usata così, al femminile (di petit) senza alcun riguardo al genere. Un prestito linguistico congelato, non so perché, al femminile. Si suppone conferisca eleganza e raffinatezza all’idea di qualcosa di piccolo e grazioso. Altro caso immancabile: Giuseppe scritto invece Guiseppe. Ho visto un ristorante italiano in Arizona con il nome così storpiato e una recensione operistica di un’opera di «Guiseppe» (sic) Verdi al Metropolitan pubblicata su un’importante rivista culturale da un noto intellettuale. Dato che spesso la «u» in inglese si legge «iu» (come in use, united, unity e così via) l’errore di scrittura è tanto invisibile (o piuttosto inaudibile) quanto insospettabile.
Plausibilità
Un’altra fonte di incorreggibili illusioni di sapere, e quindi di smaccature, è la predominanza di una qualche spiegazione superficiale errata, ma semplice e intuitivamente plausibile e quindi possente. Un esempio paradigmatico (spesso usato, mi risulta, dal fisico americano premio Nobel Richard P. Feynman a lezione) è quello delle maree. Quasi tutti pensano che le maree siano il risultato dell’attrazione gravitazionale esercitata dalla luna sulle masse d’acqua. In termini più brutali, pensano che l’attrazione gravitazionale della luna «succhi» (per così dire) l’acqua del mare verso di sé. La spiegazione è talmente plausibile e immediata e irresistibile che non si immagina nemmeno di volerla verificare o confutare con un minimo di dati. Se fosse come si suppone che sia, quando si ha alta marea in un punto del pianeta si dovrebbe avere bassa marea agli antipodi, invece si hanno quasi sempre alte (o basse) maree contemporaneamente agli antipodi. L’attrazione gravitazionale della luna è solo un fattore, e agisce in modo assai diverso dal «succhiare» l’acqua del mare verso di sé. L’attrazione gravitazionale del sole contribuisce per circa il 20 per cento e l’effetto risultante dipende, quindi, dalle posizioni relative del sole e della luna. Ma importantissimi sono i ritmi e le ampiezze delle risonanze e delle pulsazioni delle masse d’acqua. Per esempio, in Massachusetts, la baia di Plymouth e la Buzzard Bay sono separate, in linea d’aria, solo da una ventina di chilometri, ma ci sono circa quattro metri di marea nella prima baia e solo un metro nella seconda, in ore che non coin...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Chi crediamo di essere
  3. Introduzione
  4. I Tra neuromania e neurofobia
  5. II I cassetti della mente
  6. III La cognizione dei sogni
  7. IV Se tornassi indietro
  8. V Raccontarsi delle storie
  9. VI Questo scialo di triti fatti
  10. VII L’effetto Maria Teresa
  11. VIII La spilorceria cognitiva
  12. IX I nostri punti di riferimento
  13. X Il daltonismo per i cambiamenti
  14. XI Il rimpianto
  15. XII Il cannocchiale tempo
  16. XIII Le smaccature
  17. XIV L’imbarazzo
  18. XV Una massiccia e perniciosa tendenza
  19. XVI Sapere di (non) sapere, o il suo inverso
  20. XVII I trabocchetti della decisione
  21. XVIII Una grande luce alla fine del tunnel
  22. Conclusione
  23. Nota bibliografica
  24. Dello stesso autore
  25. Copyright