La guerra raccontata nei manuali è un intreccio di date, di scelte politiche, di ambizioni economiche: così impariamo che l’Italia ha iniziato la Seconda guerra mondiale il 10 giugno 1940 con la campagna di Francia, che Mussolini ha cercato di combattere una “guerra parallela” a quella nazista per ritagliarsi un ruolo di potenza nell’Europa mediterranea, che nel dicembre ’42-gennaio ’43 l’Armata Italiana in Russia è stata decimata nella “sacca del Don”.
Ma ben altra è la guerra per il cittadino qualunque, sia esso l’alpino mobilitato nel battaglione L’Aquila o la maestrina in servizio nella scuola di una vallata partigiana: è la guerra dei racconti individuali, antieroica e antiretorica, essenziale, disadorna, secca, dove il comico e il tragico scivolano l’uno nell’altro come nella vita. È la storia del reduce di Russia segnato dalle cicatrici nelle chiappe perché, dopo aver defecato a – 40 °C, si è scaldato su una pietra rovente con i calzoni calati; è il ragazzino di Tor Pignattara che nel 1944 riempie le calze di stracci per farne una palla e gioca con il fratellino mentre i bombardieri attraversano il cielo; è il soldato austriaco in ritirata che inconsapevole offre cioccolata alla giovane staffetta partigiana cui ha chiesto la strada per il Brennero. Schegge di vita vissuta, rapide e penetranti, schegge di una guerra che gli storici definiscono “totale” perché non è stata combattuta soltanto al fronte, ma è entrata in ogni villaggio, in ogni casa, in ogni anima.
Le “voci dalla Seconda guerra mondiale” raccolte da Cristicchi sono il ritratto a tutto campo di un dramma durato cinque anni di conflitto e chissà quanti di pace: si inizia con il nonno mobilitato in Russia, si continua con i bombardamenti alleati , con il “pane nero”, con i sabotaggi delle formazioni partigiane; si conclude con l’esodo dall’Istria (e bene ha fatto l’autore a non fermarsi alla primavera del 1945, perché le foibe e i profughi giuliano-dalmati sono il prezzo estremo pagato per una guerra che l’Italia fascista ha scatenato e perso!). Ne emerge il quadro di un’umanità sofferente eppure solidale, che combatte senza comprendere chi deve uccidere e per che cosa deve morire, che si dibatte nell’emergenza della storia, tra paura, rassegnazione e voglia testarda di continuare a vivere.
Leggendo queste pagine viene istintivo il confronto con le voci raccolte da Nuto Revelli tra i contadini delle vallate cuneesi. Le analogie sono molte: ma mentre Revelli ha registrato e trascritto i racconti così come gli sono stati proposti, Cristicchi li rielabora, estrapolando gli episodi che più lo hanno colpito e trasformandoli in pillole di memoria. Ne risulta un testo omogeneo e accattivante nella scrittura, che documenta sia il punto di vista di chi racconta sia, soprattutto, quello di chi ascolta. E proprio in questo aspetto risiede il merito (e probabilmente la novità) del lavoro.
Il “racconto della guerra” è stato un fondamentale strumento di educazione per la mia generazione, cresciuta negli anni Cinquanta/Sessanta: siamo nati quando il dramma era ormai finito, ma le ferite erano ancora aperte, bruciavano la carne e si traducevano in parole infinite. Di bombardamenti, di esecuzioni in piazza, di dispersi al fronte, di rastrellamenti abbiamo sentito parlare in famiglia, a scuola, al mercato, sulle corriere, persino nelle omelie dei parroci. In modo immediato e istintivo, chi aveva vissuto la guerra la raccontava così come l’aveva sofferta e attraverso la memoria aiutava i più giovani a formarsi e a diventare adulti imparando a distinguere tra il bene e il male.
Per ragioni anagrafiche, questo racconto è andato progressivamente sfumando: la generazione di Cristicchi ha sentito solo i ricordi dei nonni, efficaci e lucidi, ma non più corali; la condanna morale del fascismo e del nazismo, che cinquant’anni fa era assoluta e condivisa, oggi appare tiepida, mentre date come 25 luglio e 8 settembre, che allora “parlavano” a tutti, sono state pressoché dimenticate. È la legge del tempo, che rimuove il passato dalla coscienza collettiva. Per questo le pagine proposte in questo libro non sono (né potevano essere) una semplice registrazione di esperienze altrui, ma costituiscono una rielaborazione soggettiva di ciò che altri hanno raccontato.
Che cosa rimane della Seconda guerra mondiale, oltre ai monumenti ai caduti e alle targhe-ricordo? O, ancora meglio, che cosa dobbiamo fare in modo che rimanga? Cristicchi risponde attraverso un insieme di paragrafi densi di suggestione, che possono essere letti da chiunque, anche da chi ignori quasi tutto del nazionalismo fascista o dell’Armistizio: perché al di là dei contesti storici, ciò che emerge dalle sue pagine è la lotta per la sopravvivenza di un’umanità violata dalla forza delle armi. Sullo sfondo dei racconti aleggia la logica della prepotenza e del codice militare che i regimi trasformano in mobilitazione e obbedienza: in primo piano, si muovono invece i sentimenti e le emozioni della gente semplice, le piccole solidarietà che salvano la vita, il ricordo tenero di un congiunto risvegliato da una piastrina di riconoscimento, il soldato che esita a sparare di fronte all’innocenza di una bambina, le masserizie degli esuli ammucchiate nel Magazzino 18 in attesa di un impossibile ritorno.
I fatti del 25 luglio si possono anche dimenticare, così come la liberazione di Roma o lo sbarco in Normandia. Ma non si può dimenticare la guerra; non si possono dimenticare le logiche che l’hanno determinata; non si possono dimenticare le sofferenze, i lutti, le paure. Altrimenti a che cosa sarebbe servita la storia del nonno di Simone Cristicchi, reduce dal ghiaccio del Don? E a che cosa sarebbe servita quella di mio padre, partigiano nelle montagne torinesi?
Il titolo del libro è una provocazione di attualità stringente: Mio nonno è morto in guerra non perché non è tornato dal fronte, ma perché è morto “ogni volta che un crimine resta impunito, ogni volta che un massacro di innocenti viene rimosso, ogni volta che qualcuno continua indisturbato a fare affari, vendendo armi agli altri uomini per renderli animali”.
La raccolta presentata in queste pagine non basta certo a impedire al nonno di Cristicchi (e a tanti della sua generazione) di morire ogni giorno: ma è un messaggio forte, una sollecitazione a non dimenticare, un richiamo al dovere di ognuno di trasformare la memoria in coscienza. E questa, in definitiva, è la missione vera della “storia”, la ragione etica per la quale i ricordi hanno un senso.
A Tommaso e Stella,
perché costruiscano un mondo
senza la parola guerra
Mio nonno è morto in guerra, o almeno così mi ha raccontato.
Ché in guerra se non morivi fisicamente, moriva comunque qualcosa dentro te.
Mio nonno è morto in guerra, insieme a lui sono morti gli ideali.
Morto il fascismo, morto il comunismo.
Francia, Grecia, Albania, Russia.
Mio nonno ha fatto la Seconda guerra mondiale, una maratona lungo l’Impero del Male.
Mio nonno ha inalato il puzzo dolciastro dei corpi bruciati dalle griglie delle rappresaglie, ha visto sfigurarsi i visi degli innocenti,uscir fuori gli occhi delle donne stuprate dai soldati.
Mio nonno ha visto il sangue zampillare dal petto dei suoi compagni, da una bomba squarciati, dalle mitraglie falciati.
Mio nonno è morto ogni volta che dal cielo un aereo ha sganciato, devastando una casa, una borgata, un isolato.
E insieme a mio nonno sono morti tutti quelli che hanno creduto che non ci fosse altra soluzione, quelli che credevano che Patria non fosse solo una parola per arringare il popolo da un balcone.
Mio nonno è morto in guerra, e una parte di lui è rimasta lì, stesa sul campo di battaglia, ricoperta dalla neve e dai ghiacci della steppa russa.
Mio nonno è morto in guerra e da quel giorno andò alla macchia, visse nei boschi, nelle grotte, negli scantinati, nelle botti.
Mio nonno muore ogni giorno che qualcuno continua indisturbato a fare affari, vendendo armi agli altri uomini per renderli animali.
Mio nonno muore ogni volta che il sole nasce e illumina villaggi bombardati all’altro capo del mondo.
E insieme a mio nonno, muoiono ogni giorno i partigiani delle montagne, i loro cadaveri umiliati, vilipesi, smembrati dalle parole a serramanico di un politico.
Mio nonno muore ogni volta che un crimine resta impunito, ogni volta che un massacro di innocenti viene rimosso, ogni volta che qualcuno senza vergogna sputa sulla nostra Costituzione, ogni volta che un armadio viene girato con le ante verso il muro.
Ogni volta che un bambino viene mutilato da una mina che non sia di matita.
Ogni volta che il silenzio discende sulle masse che non sanno.
Mio nonno muore ancora di più in questi tempi di finta pace.
La maggior parte dei racconti di questo libro sono nati grazie al prezioso contributo di tante persone che hanno donato incondizionatamente e con passione civile la propria testimonianza di vita. L’idea di ricercare queste voci della Seconda guerra mondiale nasce dalla mia santa curiosità e dal bisogno di colmare un grande silenzio: il silenzio di uomini e donne inghiottiti dal vortice della Storia, ma anche il silenzio di chi ha preferito tacere, per convenienza o per dimenticare un dolore inenarrabile. A questo mosaico di memorie riesumate, a questo album di aneddoti in bianco e nero, manca sicuramente più di qualche tassello: è un’opera incompiuta per definizione. Sono gli appunti di viaggio di un “ricercautore” che ha attraversato l’Italia senza stancarsi mai le gambe e le orecchie, pronto ogni giorno ad ascoltare una nuova voce, a decifrare altre rughe, ad imparare una sfumatura inedita, felice di riempire quelle pagine bianche con l’inchiostro di un patrimonio inestimabile: le parole degli anziani. Credo fermamente che se a scuola ogni ragazzo italiano, oltre a studiare le scienze o la geografia, sapesse semplicemente raccontare la storia dei propri nonni, nel nostro Paese assisteremmo a una piccola grande rivoluzione culturale.
Mio nonno si chiamava Rinaldo e, da quando l’ho conosciuto fino alla sua morte, mi ricordo che ha sempre avuto freddo, anche d’estate, seduto in terrazza sotto un raggio di sole. Tutti gli altri in canottiera e pantaloncini corti, lui con la coperta sulle gambe e un giacchetto sulle spalle.
Certe sere si metteva vicino al termosifone della cucina e ripassava il Natale del 1941, il Natale che trascorse da soldato nella guerra in Russia: “Ci voleva coraggio a resistere in quel periodo, ché il freddo raggiungeva pure i 48 °C sotto zero!”. Raccontava che, per ripararsi, lui e altri soldati cercavano un po’ di tepore dentro a una grotta, e al centro di questa grotta ci mettevano una grossa pietra, appoggiata sul fuoco che bruciava sempre.
La pietra, oltre a riscaldare appena l’ambiente, aveva un’altra funzione importante. Siccome fare la cacca a quella temperatura era un problema, i soldati erano abituati a mangiarsi i semi di girasole, che aiutavano a espellere istantaneamente il “nemico”, perché là, in mezzo alla neve e ai ghiacci, a 48 °C sotto zero, non ti potevi mica permettere il lusso di essere stitico! Così, quando arrivava il momento fatidico, i soldati scattavano fuori, tutti imbacuccati, con la coperta sul capo e i pantaloni abbassati: la velocità dell’azione era fondamentale, tutto doveva svolgersi in dieci, quindici secondi al massimo. Poi rientravano di corsa nella grotta e, ancora coi pantaloni calati, appoggiavano le chiappe congelate su quella pietra incandescente. Ecco perché mio nonno Rinaldo e molti soldati italiani della campagna di Russia avevano una “mappa natica”, una serie di bruciature incallite, approdi di emergenza marchiati a fuoco sul di dietro.
La sua compagnia era composta da centocinquanta soldati, tutti romani. Ne tornarono soltanto dieci e sono contento perché nonno Rinaldo era uno di loro. Rientrò a Roma con il grado di sergente maggiore, ottenuto per meriti di guerra e per il coraggio dimostrato nelle innumerevoli azioni pericolose, tipo cagare in mezzo alla neve a 48 °C sotto zero.
Mi raccontava che, una volta sceso dal treno che lo aveva riportato in Italia, si sciolse le pezze, si tolse gli scarponi, e gli cascarono tutte e dieci le unghie dei piedi.
Poi, nel giugno del 1943, sposò una donna bellissima che sembrava un’attrice: si chiamava Selene e gli rimase accanto per tutta la vita.
Diceva sempre: “Dài retta a me, tua nonna Selene mi ha fregato perché ero ancora congelato!”.
Di mio nonno Rinaldo, da quando l’ho conosciuto fino alla sua morte, ricordo che ha sempre avuto freddo, anche ad agosto, imbevuto di sole in terrazza. Forse era quel maledetto freddo, conosciuto tanti anni prima nella guerra in Russia, che gli gelava i r...