Causa treno, si arriva a Torino con un’ora e mezzo di ritardo. La nuova stazione sotterranea di Porta Susa brilla al neon blu.
Andiamo a pranzo, zona Mole Antonelliana, vicino al Museo nazionale del Cinema che, in questo periodo, ospita una mostra sui manga giapponesi: «Ci dobbiamo troppo andare» dice Samuel. Sulla nostra destra, infatti, mentre camminiamo, scorrono i poster di “Cyborg 009”, “Gundam” e “Star Blazers”.
Affermativo. Ci dobbiamo troppo andare!
Dentro il ristorante due ragazze mangiano spaghetti, un tipo sulla destra infilza frittelle allo zucchero una dietro l’altra.
Al bancone, la cameriera chiede: «Cosa prendete?».
Per Samuel: «Flan di spinaci e verdure miste». Occhiata compiaciuta delle due ragazze.
Invece: «Per me caponata». Il genere femminile si sdegna. Il Mc-tipo e i suoi cento chili invece si mostrano solidali.
Supersize me.
A tavola si parla di Jeff Buckley e dei film di Wes Anderson, a un certo punto arriva il proprietario del locale: «Di là c’è Raffaella Carrà...». “Non ci credo” pensiamo entrambi. Samuel non proferisce più parola. Poi, finalmente, la logica e la razionalità prevalgono, il pensiero unico e doppio scandisce in un’unica verità: «Non è che non ci credo. Non esiste».
Dimostrazione per assurdo del fatto
che Raffaella Carrà non esiste
(si ringrazia Georg Wilhelm Friedrich Hegel
per il suo contributo alla dimostrazione)
TESI Raffaella Carrà è il titolo di una canzone di Tiziano Ferro (il titolo della canzone è E Raffaella è mia), quindi non può essere qui (passaggio logico numero uno) e non può essere con/di altri, visto che è di Tiziano Ferro (passaggio logico numero due);
ANTITESI Le creature televisive si cibano di audience, vivono in cattività dentro le trasmissioni, non certo nei giorni normali tra gente normale;
SINTESI Samuel decide di alzarsi per andare a controllare raffaellacarrà (che poi si scrive staccato o tutto attaccato come un’unica parola? E poi quanti anni avrà: cento, duecento?).
Ma le sorprese non finiscono, la filosofia è piena di illusioni. Non è Raffaella Carrà che sta pagando il conto. È Enzo Japino... Ma Japino non è solo una sigla e/o un crawl televisivo? Una parola impressa sullo schermo?
Raffa è dietro di lui, riconoscibile dall’eterno caschetto biondo.
Così, rapido, calcolo: sono in quattro. L’ego di Japino, Japino, Raffa e il caschetto.
Poi così come sono apparsi, svaniscono. Non escono dalla porta, si smaterializzano: dall’epistemologia dialettica all’antimaterialismo storico. E poi dicono che la televisione non è complicata!
Usciamo anche noi: «Ciao».
Abbracci.
Samuel rientra alla base. Cappello nero tirato giù.
Non ci resta che tornare da questa parte della barricata.
Taxi in tre minuti: «Porta Susa. Grazie».
Nella macchina: il tassista è un nazi in baffi e giacca di pelle nera a strisce gialle, da motociclista, stile Village People.
Un ragazzo gli attraversa la strada: «Sporco negro» gli dice cattivo. Continua a duecento all’ora e inchioda dietro una Fiat Uno che fa retromarcia: «Ma che cazz... e dài handicappato!». È vero, la Uno ha il contrassegno: quello con la carrozzina. Circospetto, cerco allora con gli occhi l’immancabile mazza da baseball con cui mi fracasserà la testa tra poco. Duecento metri più in là: «Ma vaffanculo...» grugnisce, poi aggiunge: «... puttana», una ragazza in minigonna a lato della strada aveva tentato un attraversamento mentre passavamo con il rosso.
Nel frattempo squilla il cellulare, e lui risponde mentre sfreccia a tutta birra per le strade di Torino, larghe più o meno due metri, non considerando le rotaie del tram che ci si affianca.
L’arian-tassista baffuto continua: «Stronzo ma vaff...». Ma non c’è nessuno in giro, forse li ha investiti tutti.
Il vocabolario per gente così non deve essere roba complicata. Come in un piccolo comune in provincia di Brescia dove qualche tempo fa hanno istituito il White Christmas, il “Natale Bianco” nel senso della “caccia al negro”, come la chiamano. Qualcosa del tipo: “Via i neri dal Paese!”. Così finalmente ci si può incontrare tutti, con pistole e fucili, dopo aver superato le siepi di cinta delle villette mono e bifamiliari in cui non succede niente, se non stragi e infanticidi.
Parafrasando Richard Sennett, a noi è la mixofobia che ci frega, mica altro!
Del resto, agli inizi del Ventunesimo secolo, in Italia, la Lega Nord è al governo. E la Lega è, anche, Mario Borghezio, con tutto il suo carico di odio e violenza. Per fortuna, non tutti i rappresentanti della politica devono tenere a bada la propria schiumante animosità dentro una camicetta verde che a stento contiene il ventre grasso. Nuova divisa di un Ku Klux Klan nostrano. E pensare che negli Stati Uniti d’America il KKK andava di moda più di cinquant’anni fa. Oggi invece hanno un presidente “negro” (Barack Hussein Obama II, N.d.A.).
Comunque, dopo sette minuti arriva in stazione. Almeno è puntuale. Otto euro per scendere dal taxi. Sicuro, ne pagherò almeno settanta all’analista.
Trattenersi dallo spaccare la faccia a un nazista xenofobo maschilista è dura per tutti. Lo so, e i Subsonica avevano troppo ragione: «Ti farò male più di un colpo di pistola, è appena quello che ti meriti».
Film, registi, cinema
Mi piace moltissimo il cinema.
Mi piace talmente tanto che le nebbiose domeniche invernali che riesco a passare a casa, le vivo quasi interamente guardando film, cucinando pizza e bevendo birra.
Non c’è un genere in particolare che mi appassiona, la condizione necessaria è che siano bei film.
Non so dare giudizi tecnici, ma credo di essermi creato un mio “meccanismo di critica” abbastanza attendibile: infatti, se dopo il primo quarto d’ora di proiezione sono ancora sveglio vuol dire che, con molta probabilità, è un bel film e arriverò fino ai titoli di coda.
Vado spesso al cinema.
Sono in grado di andarci per tre volte consecutive nell’arco di una stessa giornata.
Non sono uno di quelli che legge tutti i titoli di coda, anzi, se proprio devo dirla tutta, io quelli che rimangono lì sino alla fine dell’ultima lettera dell’ultimo titolo di coda mica li capisco, nel senso: se non c’è scritto il tuo “nome-e-cognome” alla fine del film, in tal caso è normale che tu voglia vederli, che te li spari a fare tutti quei nomi? Ma questo è un mio limite, con il quale dovrò fare i conti prima o poi. Forse!
Amo Elio Petri, Federico Fellini, Sergio Leone, Woody Allen, Quentin Tarantino, Roman Polanski, David Cronenberg, David Lynch, i fratelli Cohen, Lars Von Trier, Wes Anderson, Michel Gondry, Spike Jonze, Guy Ritchie, Emir Kusturica, Nicolas Winding Refn, Coppola padre e Coppola figlia... insomma, i registi che piacciono a tutti quelli che non amano i “cinepanettoni”. Ma guardo con la stessa curiosità opere prime di giovani registi sconosciuti, di qualsiasi nazionalità siano, che a volte si dimostrano persino superiori, per linguaggio e coerenza stilistica, a registi più quotati e famosi.
Come per ogni tipo d’espressione artistica, infatti, cerco di non farmi influenzare dal nome dell’artista, valutando l’opera per quello che è. Cerco, ma non sempre è possibile.
I film giapponesi mi spaventano un po’, così esteticamente perfetti, e però nella maggior parte dei casi dotati di un ritmo che mi provoca uno svenimento quasi immediato.
Mi piacciono i registi che non usano la musica solo come riempitivo e che, anzi, ne esaltano le qualità utilizzandola come arma espressiva. Paolo Sorrentino credo sia uno di questi. Secondo me è uno dei migliori registi italiani di oggi.
Essendo poi il cinema una forma d’arte legata all’immagine, esigo una certa grazia e raffinatezza nel raccontare i paesaggi: l’equilibrio tra questi e il racconto è indispensabile.
Comunque io guardo di tutto, e mi piace a tal punto la sala di proiezione che mi capita di entrare, a caso, nelle sale del Cinema Massimo, a pochi metri da casa mia. Mi succede per esempio durante il Torino Film Festival.
Poi, la fantascienza mi affascina. Come la maggior parte degli esseri viventi “maschi” della mia età, ho amato la saga di Guerre Stellari, ma anche Blade Runner, Il Tagliaerbe, Johnny Mnemonic, Strange Days e Matrix primo episodio, che trovo illuminante. Non sono molto attirato invece dai film d’animazione, a parte Ghost in the Shell e Evangelion: 2.22, peraltro bellissimi.
Alla fin fine, almeno per quanto riguarda i miei gusti cinematografici, credo di essere abbastanza nella norma.
Fantascienza, realtà e viaggi lisergici. “Oltre” la percezione: dentro la tana del bianconiglio
Il merito della fantascienza, sia della letteratura sia del cinema, è sempre stato quello di anticipare e immaginare, ovviamente estremizzandola, la tecnologia del futuro: basta pensare a tutta la letteratura cyberpunk – William Gibson e soci, per capirci – o a film come Tron che anticiparono di qualche anno il concetto di spazio virtuale e digitalizzazione, insomma, la Rete.
Lo stesso Matrix è una sorta di rilettura in chiave postmoderna dell’immaginario lisergico degli anni Settanta, al quale mi sono – diciamo – molto appassionato in un determinato periodo della mia vita.
In quel film ci sono moltissimi richiami al concetto di “consapevolezza”, alla possibilità di aumentarla attraverso una visione diversa della realtà che ci circonda.
L’apparenza spesso inganna, quindi bisogna trovare il modo di osservare il mondo da un altro punto di vista, aprire il cosiddetto terzo occhio.
Ognuno di noi ha una propria visione del mondo. Un proprio punto di vista, un punto di osservazione che implica una percezione e una messa a fuoco. La maggior parte degli eleme...